Il ritratto di Genova negli scritti del 1507 di Jean Marot, storico della regina di Francia, e di Giacomo de’ Sorci detto il Cortonese
- Type de publication : Article de revue
- Revue : Cahiers de recherches médiévales et humanistes / Journal of Medieval and Humanistic Studies
2019 – 2, n° 38. varia - Auteur : Nardone (Jean-Luc)
- Pages : 175 à 200
- Revue : Cahiers de recherches médiévales et humanistes - Journal of Medieval and Humanistic Studies
IL RITRATTO DI GENOVA
NEGLI SCRITTI DEL 1507 DI JEAN MAROT,
storico della regina di Francia,
e di Giacomo de’ Sorci detto il Cortonese
Sin dalla calata di Carlo VIII e dalle primissime guerre d’Italia, le relazioni culturali tra Francia e Italia furono segnate da una svolta decisiva che, di sicuro, contribuì alla rappresentazione che vige tuttora in entrambi i paesi. In particolar modo, l’impatto linguistico e letterario dell’Italia suscitò presso i francesi una curiosità intellettuale che ritroviamo in tantissimi esempi rinascimentali, perché i sovrani francesi, nel loro modo di « far guerra », venivano circondati sì da soldati ma anche da cortigiani – storici, poeti, pittori, ecc. – che provarono a cogliere l’italiano di quei territori appartenenti alla corona del loro re. Uno dei casi più famosi e noti è senz’altro quello del primo traduttore di Petrarca, Clément Marot, che scoprì la lingua italiana tramite le esperienze del padre, storico ufficiale della regina di Francia. Non sappiamo molto degli anni che precedettero l’arrivo di Jean Marot1 alla corte della duchessa Anna di Bretagna, nel 1506. Marot divenne il suo « escripvain ordinaire, comme ils disoient en ce temps-là » ricorda Colletet; ciò gli offriva uno stipendio regolare che gli permetteva di assicurare un certo 176tenore di vita alla moglie e al figlio Clément che vivevano in quegli anni a Cahors. La stessa data del 1506 vien dedotta dal primissimo testo di Marot dedicato alla duchessa Anna ed intitolato La Vraydisante advocate des Dames, una raccolta in lode della regina. Nessun altro testo ci permette di affermare che entrò prima di quella data al suo servizio: non ci ha lasciato niente né in memoriam del re Carlo VIII suo marito che morì nel 1498, né sul felice matrimonio di lei col nuovo re di Francia, Luigi XII, nel gennaio dell’anno successivo. In quello stesso anno 1506, la duchessa Anna chiese a Marot di seguire il re nelle sue campagne militari in Italia, e di comporre la relazione delle gloriose vittorie. Così nacquero, nel 1507, il Voyage de Gênes che ricorda la fulminea presa della città ligure e, nel 1509, il Voyage de Venise che descrive le battaglie dei francesi contro i veneziani e la celeberrima vittoria di Agnadello. Quando morì la regina, il 9 gennaio 1514, Jean Marot era senz’altro uno dei cortigiani più illustri della corte e il futuro Francesco I, duca di Valois, lo prese al suo servizio come valet de garde-robe, carica che ereditò il figlio Clément dopo la morte del padre, nel 1526.
I due Voyages di Marot sono complessivamente paragonabili e offrono degli episodi militari una rappresentazione insieme storica – nel significato moderno dell’aggettivo, cioè precisa e meticolosa – e topica, tramite varie allegorie. Il mescolare storia e poesia porta il Marot ad una soluzione letteraria già contenuta, sembra, negli stessi titoli delle opere poiché il Voyage de Gênes viene sottotitolato Recueil en vers meslés de prose2… e il testo del Voyage de Venise appartiene ad un Recueil de pièces historiques, en vers et en prose, relatives aux expéditions de Louis XII et de François Ier. I due titoli di Voyages però sono in realtà della mano del figlio Clément che ne curò l’edizione princeps3 e li riunì sotto un prologo comune, 177falsamente intitolato Prologue de Jan Marot de Caën à la Royne Anne, rinforzandone la parentela. Gli argomenti in effetti, cioè la narrazione di due vittorie dell’esercito di Luigi XII in Italia nell’arco di due anni, erano vicinissimi e potevano coerentemente coesistere in uno stesso volume. La forma dei testi, il prosimetro, era invece già contenuta nei titoli originali del padre (trasformati dal figlio in sottotitoli), cioè quel mescolare prosa e versi che Theureau chiamò il « moule commun ». L’unica vera differenza, e senz’altro significativa, la troviamo nella lunghezza dei testi: il Voyage de Gênes, con milletrecento versi, rappresenta solo il terzo del Voyage de Venise che ne contiene più di quattromila. Le due opere, con più di cinquemila versi, occupano nell’opera complessiva di Jean Marot una posizione senz’altro di primissimo rilievo tanto per la quantità quanto per la consistenza letteraria, e la critica concorda nel conferire ai Voyages una qualità che ha « mis le comble à la gloire de leur auteur » (Theureau), in particolare nella capacità di mettere insieme in modo convincente due elementi a priori inconciliabili, un racconto storico descrittivo che mirasse a fare dei due testi un resoconto delle campagne di Luigi XII storicamente affidabile e convincente, nonostante una forma, cioè il verso, che impone strutturalmente di costringere le descrizioni fattuali, numeriche, obiettive ad inserirsi nel « moule » di un lirismo che potrebbe risultare incompatibile con l’obiettivo dello storico. Proprio in quegli stessi anni, Machiavelli lasciò incompiuti i Decennali. Il valore storico dei testi di Marot può tra l’altro essere confermato da altri testi contemporanei, come la ricchissima Storia d’Italia del Guicciardini, od altre produzioni di storici francesi quali Jean d’Auton (Chroniques de Louis XII, 1508), André de la Vigne (La Louange des roys de France, 1508), Claude de Seyssel (Les Louenges du roy Louis XIIe, 1508) o Symphorien Champier (Le Triumphe du treschrestien Roy de France, 1509). Le stesse città di Genova e Venezia, si sa, sono ricche di cronache in italiano o in latino, ufficiali – si pensi all’abbondante produzione del Senarega4 a Genova – come pure private. Tutti scritti che offrono varie fonti non solo per valutare l’esattezza storica della produzione di Marot ma soprattutto per ricordare la varietas del testo storico rinascimentale, in prosa o in versi, in latino o in volgare, ufficiale o privato. È meglio 178forse dire subito che la critica ha salutato il rigore e l’affidabilità dei Voyages5. Detto questo, tra i vari testi italiani che descrivono la presa di Genova, vale la pena pubblicare in questa sede la prima edizione critica di un piccolo testo in ottava rima firmato da « Iacomo Cortonese », cioè Giacomo Sorci (o de’ Sorci) di cui non si sa quasi nulla, ma i cui versi furono ristampati felicemente nel 1989 in uno dei quattro volumi delle Guerre in ottava rima6. Le cinquantadue ottave del poemetto che, come vedremo, sembrano essere ispirate al testo di uno dei marescialli di Francia oggi del tutto dimenticato, Robert III de La Marck – o attingere forse almeno ad una fonte comune –, potrebbero dimostrare l’intertestualità straordinaria non solo tra le opere degli autori più noti delle cronache e storie delle guerre d’Italia bensì anche ad un livello minore per non dire minimo: se poco si sa di Giacomo de’ Sorci, il testo di La Marck fu pubblicato solo nel 1735 e il testo del Cortonese potrebbe indicarci che si diffuse pure in Italia tutta o una parte di una copia del manoscritto del francese. Il paragone dei quattrocento sedici versi del poemetto con i milletrecento di Jean Marot offre uno dei rari casi di rappresentazione della guerra di Genova messa in rime da un francese e da un italiano – e l’opportunità insomma di mettere a confronto il ritratto in versi della città di Genova di Marot con quello pure in versi, del Cortonese.
Nonostante il valore storico del Voyage de Gênes, e anche perché l’opera di Marot, « escripvain ordinaire » della duchessa, rimane un’opera cortigiana, il poeta cronista, come nelle grandi epopee, racconta prima di tutto la storia di un eroe, il re di Francia, insieme « Messia de France » (V.G., v. 432) e « César » (V.G., v. 462)7. In altre parole, la precisione del 179cronista non esclude per niente la parzialità della narrazione: Marot si fa storico nelle descrizioni e poeta cortigiano nello scegliere gli eventi descritti. Basti ad esempio ricordare l’entrata spettacolare di Luigi XII a Genova, il 29 aprile 1507 – immortalata da una delle undici illustrazioni del codice miniato da Jean Bourdichon – che le cronache genovesi descrivono come una dimostrazione presuntuosa del re francese e l’umiliazione dei savi della città che ottennero un perdono sottoposto ad un elenco insopportabile di infinite esigenze8. Non solo Marot esclude dal suo Voyage alcuni momenti od eventi che gli sembrano di poco interesse (o che non cerca di ricordare), ma la stessa figura del re vittorioso porta ad una rappresentazione simmetricamente assai soggettiva della città italiana e dei suoi abitanti. In particolare, tale atteggiamento sembra iscriversi in una scelta letteraria che miri appunto a restringere lo spazio dedicato alla città ad un universo meramente allegorico mentre i brani più sentitamente storici e realistici, anche se ovviamente lirici ed enfatici, mettono in scena le vittorie vere del re francese. Nel caso di Genova, Marot lo fa in modo straordinariamente clamoroso, molto più che non nel Voyage de Venise.
Conviene a questo punto ricordare l’organizzazione formale del testo per capire quanto e come il prosimetro si serva della propria duplicità letteraria per coniugare topica allegorizzata e « verità effettuale delle cose ».
Macrostruttura del Voyage de Gênes:
Dedica alla regina (prosa)
Introduzione (124 vv.)
Comment Genes parle à Marchandise et au Peuple, principalement à Noblesse (7 ottave)
L’Autheur en rondeau (15 vv.)
Genes (6 douzains)
L’Autheur (20 vv.)
Mutinations des Genevoys avec le Prinse du Chastellat (50 vv.)
180Rondeau (15 vv.)
(Senza titolo) 32 vv. seguiti da 39 douzains (cioè esattamente 500 vv.)
Prose
La Complaincte de Genes (11 douzains)
Rondeau (15 vv.)
Genes (6 dizains)
Rondeau (15 vv.)
Genes (5 douzains)
Prose
Raison parlant à Genes (9 ottave)
L’Autheur (prosa)
Genes parlant en forme de rondeau (15 vv.)
(Senza titolo) 7 onzains
Dalla stessa macrostruttura del testo appare subito in modo palese nel Voyage de Gênes la parte dedicata all’allegoria della città di Genova, presente in più titoli delle sezioni appunto come personaggio, in particolare, sin dalla fine dell’Introduzione, dov’è figura materna: « Gênes […] regarda Noblesse /Puis Marchandise, et le peuple ses filz / Tous mutinez et en guerre confiz ». Vengono qui definiti i ceti politici della società, ridotti però ad una dimensione infantile (e non solo filiale) che fa eco ad un verso pronunciato poco prima da Luigi XII che li trattava « D’enfans mutins qui ne craignent la verge », ragazzini (politicamente) mal educati insomma da una madre debole e disperata anche se non esplicitamente nominata in quanto tale, l’antica Repubblica. Il lungo monologo della parte successiva Comment Genes parle à Marchandise et au Peuple, principalement à Noblesse inserisce due elementi d’analisi assai interessanti, mentre vien rinforzata l’allegoria materna di Genova che confessa di aver « conçeuz et elevez » la prole quali figli « D’Eve et d’Adam »: il primo è la colpevolezza politica della nobiltà che « [a] maltraicté [s]on fere Marchandise »; e nella diatriba il Peuple viene quindi confuso con la borghesia dei mercanti, riducendo de facto a solo due i gruppi sociali (e non tre), cioè da una parte il ceto nobile e dall’altro quello popolare9. Il secondo è una lettura francese che Marot fa della nobiltà genovese, colpevole socialmente questa volta di aver tradito i fratelli, in quanto « pour te monstrer dont vint ta gentilesse / Premier en fut Marchandise racine / Qui tant forgea qu’elle engendra richesse / 181Et de richesse il survint ta Noblesse »: in altre parole, la nobiltà genovese (italiana?) non è per Marot noblità vera perché di origine borghese. E lo storico francese, pur nel monologo di Genova, aggiunge: « Regarde moy si les nobles de France / Font marchandise en secret ou publicque / […] / Mais toy, ton sens et toute ta praticque / Est marchander à mesure et à poix / L’oyseau toujours retourne au chant du boy ». Quest’ultimo verso segna dunque un disprezzo atavico della nobiltà francese per quella italiana, la macchia di un peccato originale insomma che porta a giudicare negativamente, sempre, una nobiltà intrinsecamente corrotta.
Il secondo monologo, Genes, si apre appunto con il discorso della madre del volgo (« O Marchandise et vous Peuple mes filz ») tutto intriso di patriottismo. Dopo aver rimproverato alla Noblesse di essere andata a chiamare l’esercito del re di Francia, Genova esorta i figli fedeli ad organizzarsi per resistere al nemico. Il ricorrere al topos celeberrimo di città invincibile, inespugnabile, permette a Marot di ricordare varie vittorie passate della città (che rinforzano ovviamente quella finale del re di Francia) e dimostrarsi storico anche dell’Italia. Il « commun proverbe » che dice Genova « Cité fiere et superbe » è lungamente illustrato dalla stessa città « Munie […] d’Alpes, rocz et montaignes / […] / Ville imprenable et durable à tousjours / […] Royne de la mer / […] invincible ». E in conclusione va ricordato il sistema di alleanze italiche nonché l’origine genovese dello stesso papa Giulio II della Rovere. I vari monologhi di Genova sono commentati dall’Autheur che funge da testimone (che in realtà non è) delle scene rappresentate fino a farsi eco del popolo genovese che risponde a Genova (« notre mere es et nous tes enfans sommes ») dove il legame tra patria e popolo, oltre che politico si fa tutto viscerale, e quindi irrazionale, pieno di un sentimentalismo cieco ma anche commovente. Ma « Raison les fuit, raige les prent au cueur » commenta Marot nel momento dell’attacco del Castelletto in cui « Vingt et cinq mille estoient de Genevoys / Contre troys femmes et dix-huit Françoys ». Di nuovo il disprezzo, di nuovo il disgusto: il francese non solo vitupera l’atteggiamento vigliacco di quei genovesi che uccidono la piccola guarnigione del Castelletto ma cerca di dare al racconto un realismo linguistico nel riprodurre all’interno dei versi le grida del popolo in lingua italica, « a carne, amasse, amasse » per un lettorato francese senz’altro sensibile all’esotismo della citazione. La violenza e brutalità del popolo è uno dei topoi più banali della rappresentazione 182del volgo, ma l’assenza di dignitas, in particolare nell’uccidere le donne del Castelletto non solo fa eco alla indignitas della nobiltà genovese, ma giustifica in un certo modo la vittoria (anch’essa però spietata) dei francesi sui genovesi, della civiltà aristocratica sulla bestialità plebea; una bestialità ripresa più in là nel Rondeau appena successivo, come a ricordare l’esatta adeguatezza tra la corruzione del denaro del mondo dei mercanti e quella della spiritualità, della religiosità che li esclude quasi dalla cristianità, uguali a ciò « Que Juifz à faire en Jesuchrist leur prinse » dopo « ce fait plain d’inhumanité ». E con questo verso comincia la lunghissima descrizione della presa della città che si estende su cinquecento versi esattamente, come a schiacciare con tutta la forza dell’esercito francese, l’inumanità dei genovesi « vilains », « vilenaille », « cocquinaille », « parjurans et destrompans leur foy », popolo « fallace », « plains d’injure et menace », fino a scegliere come capo un « duc et gouverneur bon taincturier, / Sur chef vilain fut mis chappeau d’honneur / Fard est perdu dessus myne de cinge ».
Marot non si dilunga tanto sull’entrata trionfale del re – forse già tanto descritta dagli altri storici del re – per tornare al discorso allegorico che sembra distinguere il suo poema dalla produzione degli altri cortigiani. Prima della Complaincte de Genes inserisce un piccolo paragrafo in prosa, il primo, che ci riporta immediatamente nell’intimità della metafora della Genova/madre di fronte ai figli vinti che aveva esortato alla guerra contro i francesi:
Genes […] apres plusieurs lamentables regretz et doloreuses complainctes, la face de larmes piteusement arrousée, va regarder par grant compassion deux de ses enfans Marchandise et le Peuple; entre lesquelz estoit une femme les tenant par les mains appellée Honte, ayant le chef courbé et enclin, ne jectant son tourve regard fors en terre comme une beste muë. Laquelle si tost que iceulx enfans vouloient à leur dolente et chetifve mere donner consolation pour aulcunement aleger sa douleur, retenoit leurs dictz en leur mectant les mains au devant de leur bouche […].
Il lamento successivo della città si organizza in tre momenti: il primo, appunto la Complaincte de Gênes, più lamento di donna che non di madre, e poi due piccoli monologhi pressappoco equivalenti alla Complaincte in cui Genova ritrova gli accenti sì di una madre, ma non più di una madre che ama i figli bensì che rimprovera la disfatta e la propria servitù.
183Il monologo di Genova nella Complaincte è quello di una vergine « depucelée », con un parallelo insieme facile e efficacissimo tra la presa della città inespugnabile e lo stupro della donna vergine, subito evocato dal « malheureux outraige » (v. 4). Il lessico erotico pervade il lamento e la descrizione della disfatta di Genova:
Vaincue ainsi pale, blesme, adolée,
De desespoir quasi toute affolée,
Contraincte fuz de lui ouvrir ma porte,
Et neanmoins que jamais maculée
N’avoye esté fuz lors depucelée
Car onq’ vivant n’y entra de la sorte.
In realtà il discorso è più complesso, perché la Donna/città non è stata solo violentata bensì conquistata dall’eroe francese che riesce a « matter [s]on cueur », che le fa « Les armes […] rendre / En tel façon que contre sa rigueur / Force n’avoys, puissance ne vigueur ». Pur avvilita dalla disfatta e ridotta in servitù, arrabbiatissima contro tutte quelle potenze italiane che non l’hanno aiutata (e Venezia e Roma in particolar modo), conclude il monologo con una terzina in lode del vincitore: « Mays cestuy seul en trois jours m’a conquise / Dont par raison luy doibz obeissance / Laquelle il a par sa prouesse acquisse ». L’ambivalenza dei sentimenti della donna-città, vinta ma sedotta dal vincitore ne fa una nuova Cleopatra (anche se Marot non lo esplicita, il paragone merita di essere evocato) del nuovo Cesare.
La presenza dell’Antichità grecolatina è uno degli elementi ricorrenti della narrazione epica del poema di Marot che cita Marte, Palla, Annibale, Cesare, Achille, Nettuno, Vulcano, Saturno, Scipione, Giasone, come pure il destino della città di Priamo – e questa è appunto all’inizio di quest’altro monologo di Gênes. Genova si sente ormai la madre di figli vigliacchi, indegni, che non le hanno evitato la servitù. Ritroviamo, sotto la penna di Marot, il leitmotiv del popolo bestia (torna più volte la stessa parola « bestes ») « Et que mieulx vault la mort que servitude ». Qui il francese, ripetendo male l’unica frase10 in italiano del testo « O pople, pople, a carne, amasse, amasse », biasima l’atteggiamento dei genovesi nelle battaglie, codardi (torna pure la parola « couard »), vili, tanto arroganti 184quanto incapaci, come se avessero preferito insomma « Encores estres au ventre vostre mere ». Il terzo monologo intitolato Gênes ripete solo i precedenti, e in particolare il lamento della schiavitù, con una specie di pensiero in forma di proverbio « Gloire mondaine est legier abbatuë » da correlare con l’altra sentenza proverbiale, quella secolare e tante volte ripetuta, della città invincibile.
Interviene a questo punto il secondo discorso intitolato Prose che non dobbiamo leggere come un’incapacità da parte di Marot ad esprimere esclusivamente in versi il racconto della presa di Genova ma come una rappresentazione della varietas polifonica del poema: rime ripetute, ottave, rondeau, prosa sono altrettanti modi di dire la guerra poeticamente. La stessa prosa non perde mai il ritmo e la musica dei versi, non abbandona mai il lessico lirico e s’inserisce assai bene nella narrazione. In un momento di vera teatralità, con una serie di prolessi che rimandano il gesto insieme disperato e lascivo di Genova che si getta sul letto, Marot annuncia l’apparire di due nuove figure allegoriche, quella del vecchio (e muto) Desespoir e quella invece determinante per la risoluzione del conflitto, Raison. Entrambi sono già presenti della camera della donna quando vi ci entra:
En ces doloreux et lamentables regretz, Gênes tout ainsi comme desperée, ne se pouvant plus soubtenir à cause des terribles et merveilleux accès de dueil, se va jecter à l’envers sur ung lict que raige et douleur soigneusement luy avoient accoustré dedans une chambre tenebreuse et obscure, tendue de tapis noirs, semez de larmes blanches.
Il discorso di Raison parlant à Genes è quello sulle conseguenze straordinariamente positive per la città di essere ormai sotto la protezione « D’ung Roy tant crainct par toute Nation », che non ha conosciuto il destino terribile di Troia o Babilonia e non ha più niente da temere dai nemici « […] Pizans ne Florentins / fiers allemans, flamens ne telz mutins / […] Car tu as chef qui les haulx au bas ruse / Crainct et doubté plus que cil de Meduse ». E come si può immaginare, l’ultimo monologo della città funge da catarsi previsibile che certo non ha niente di storicamente convincente ma corrisponde a quel lieto fine che aspetta la corte della regina Anna.
Il ritratto quindi che Marot fa di Genova, a partire della figura della città allegorizzata in donna, non è (quasi) mai negativo e negli ultimi 185versi, appunto, il discorso di Ragione rivolto a Genova comincia con un verso che le restituisce l’onore che crede di aver perduto: « Lieve ton chef povre Dame esgarée ». Genova torna ad essere questa Dame e non è più quella serva, quella schiava che temeva di essere diventata. Insieme figura materna e donna sedotta, violentata da un eroe che sembra di averla abbandonata dopo la conquista, redenta finalmente per ritrovare una forma se non di nobiltà almeno di dignità primitiva, Genova è senz’altro il personaggio centrale – più che non il re – del Voyage de Gênes. Invece il ritratto dei genovesi è radicalmente diverso e niente salva la rappresentazione sia della nobiltà, sia del popolo, grasso o minuto. Tale contrasto storico verte sulla dicotomia che permette la poesia come discorso. In un certo modo i versi rendono visivamente il distacco che esiste tra l’obiettivo storico fissatosi da Jean Marot e l’impossibile sfumatura che egli cerca di instaurare tra i vari ceti di Genova e l’entità politica rappresentata dalla Città, che prova a salvare come nuova parte del regno.
Tali sottigliezze retoriche nascondono male una realtà storica che Marot ha difficoltà ad affrontare ed è messa invece in rilievo nel poemetto del Cortonese, sostanzialmente diverso da quello francese: i numerosissimi versi irregolari (ipometrici od ipermetrici) come pure lo stesso congedo « E qui fo fine al mio parlar e al canto, / Ma se volete la hystoria ornata / Per un soldo, el è bona derata » ci dicono che siamo di fronte ad un testo popolare e cantato. La stessa Barzelletta della discordia de Italia aggiunta dall’editore alla fine del testo, tende a provare che il testo del Cortonese va letto anch’esso come un lamento della disfatta di Genova dovuta alle sue incessanti guerre intestine11. Le prime strofe, tutte incentrate sulla labilità dell’esistenza, con una tonalità religiosa di preghiera, con anafore e metafore, sono altrettante premesse al discorso patetico. Il racconto del Cortonese parte dall’assedio di Novara, nell’aprile 1500, che segna l’inizio della presenza duratura dei francesi nel nord d’Italia e in Genova in particolare, mentre la rivolta di Genova descritta da Jean Marot dimentica del tutto di ricordare che dopo sei anni di presenza francese (alleata alla famiglia Fieschi), la rivolta popolare si fa non solo contro una parte dell’aristocrazia genovese alleata a Philippe de Ravenstein12 e al 186Rocquebertin ma all’interno della stessa nobiltà che non ha ottenuto dai francesi gli stessi vantaggi. Il poemetto è più attento alle rivalità interne alla città che prova a tradurre in una terzina significativa: « Sempre fra lor è gran divisïone / Tal’è Fragoso o Adorno o Grimaldesco / O Spinoli o Ca’ Doria o quei dal Fiesco ». Come avviene spesso in tali casi, i governatori francesi giocavano con i dissidi locali tra le varie grandi famiglie e con le opposizioni tra popolo e borghesia da una parte e nobiltà dall’altra. Il cortonese ne ritiene la terribile assurdità di una guerra fratricida in cui « Tal era amico o parente o compare / Pur li doleva a volerse amazare » dove tuttavia « Ogniun cercava a salvarse l’amico ». Marot elimina quasi tutti gli elenchi di nomi e personaggi non solo per mettere in risalto la sola figura del re ma forse anche per tener conto del pubblico (femminile) della corte della regina Anna che doveva presto stancarsi di tali litanie. Per il cortonese invece si tratta di mostrare che la resistenza dei genovesi fu in realtà eroica rispetto alla differenza delle forze armate in campo: elenchi di truppe, di armi, di signori, è stata necessaria tutta la Francia (e tutti i suoi alleati e mercenari) per conquistare l’invincibile città ligure. Solo vien salvata la figura del re che impedisce il sacco della città.
Il processo descritto in entrambi i testi cioè quello di una rivolta « popolare » detta « delle Cappette13 » (anche se Marot non ricorda che essa si fa contro un governatore straniero alleato ad una parte dell’aristocrazia locale), seguita dall’elezione di un capo popolare sorto dal popolo minuto, il breve regno del tintore di seta Paolo da Novi (che durò solo diciassette giorni), tra l’altro tanto disprezzato da Marot, la morte violenta del tintore tradito, il rispetto del re la cui figura domina palesemente gli eventi bellici, tutto ricorda un fenomeno assolutamente classico delle rivolte, ribellioni, guerre degli italiani contro la presenza di forze straniere. Detto questo, il testo del Voyage de Gênes grazie senz’altro all’allegoria della città madre e donna – da collegare allo stesso pubblico per cui viene scritto – offre di Genova un ritratto femminile assai originale nella ricchissima bibliografia delle guerre d’Italia.
187Questa è la historia e la guerra del populo genovese e gentilhomini e del re di Franza e di tutto suo exercito e triumpho de la intrata che fece in Genova14. E una barzelletta de la discordia de Italia15.
O Patre, o Figlio, o Spiritu santo!
O vera trinità un solo Idio!
El ciel e ’l mondo tien soto el to manto!
Creasti Adamo con summo disio
E madonna Eva li formasti a canto,
Tentata fu da Lucifero rio,
Desobedit in termine de tre hore
Per quel peccato morin16 con dolore;
E certo nati sem mortali in terra
E niun se ripossa in questa vita:
Tal cercha pace e tal ricerca guerra,
Tal scende in basso e tal fa gran salita,
Tal crede ben andar ch’el camin erra,
Tal crede in casa intrar che fa partita,
Tal crede dominar province e Stati:
188Morte l’abatte e si reston gabati.
Non se pò cosa estabile trovare:
Nel mondo semo como foglia al vento,
Ma chi vol la virtù stretta abrazare
Mai non li manca e sempre sta contento.
Vogliamo adonca virtù sequitare:
Virtù ti cava sempre de tormento
E se ben morte el corpo ti molesta,
Virtù e fama sempre al mondo resta17.
Guarda li antichi de vita passati
Che scritto àn gran volumi per memoria
E quei che in arme son afaticati:
De lor se lege sempre qualche historia.
Angioli e santi e martiri beati
Per me pregate l’alto re di gloria
Che me dia gratia che canti palese
Del re di Franza el popul genovese.
Nel mille e cinquecento in Lombardia
El re di Franza fe’ guerra a Milano
E acordose con la signoria18;
El duca andò a trovar Maximiliano,
Presto tornò a Milano e a Pavia
Chiamarlo e rivoltarse a la so mano19;
Ma la fortuna el pose a la bilanza
Che a Novara fo preso e andò in Franza.
El re pigliò de Milan el ducato,
Genova a obediencia sua andone
D’acordo e ’l Castelletto li fo dato
E tutta la Rivera el dominone20.
Cerca sei anni in pace ogniuno è stato
Ma la discordia infra de loro introne;
Perché ’l se fosse, i’ non so dire el resto
E gentilhomen de fora andò presto.
Chi in Lombardia en ver Franza camina,
Vedendo a l’arme el populo adunato
Savi’ è chi fuge a tempo la ruïna:
Non val pentir po’ché ’l fatto è passato,
189Ma chi à gran denari in su la cima
Sempre se trova e da ciascun amato.
In ne la terra messor21 differentia
Che non se desse ai franzesi obedientia.
In Genova era per governatore
Rocabertina22, sciente e aschorto23,
Conoscendo del popul el furore
Prese el camin dritto e non estorto.
In Lombardia passò senza romore,
Andò a Milano e cercò salvo porto
Ch’è reputato savio e om d’ardire
Chi sa a tempo el pericol fugire.
El re di Franza l’hebbe forte a sdegnio:
Deliberò de mostrar sua posanza
Per tutto el so paese e ’l so gran regnio,
In Guascognia, in Bertagnia24 e in la Franza,
Comandò ch’ogniun seguisse el segnio
Del giglio armati con lor forte lanza.
Trenta milia persone el25 fe’ soldare
Per terra e grande armata el26 mese in mare.
Gentilhomini havea in compagnia;
A Genova cercavan de tornare
Ne la forte città tanto iolia27
Cha in l’universo mondo non appare,
Con grande sforzo ne venivon via,
Soldando gente e dandoli denari
Son gran signori e richi de thesoro,
De nave e de castelli, argento e oro.
El re de Franza se mese in camino
Col grosso campo suo ben ordinato
E passò li alti monti d’Apenino;
In ver de Lombardia se fo calato.
In genovese a ciaschadun confino,
E monti e valle e ’l mar era guardato,
190Tagliati i passi forti tutti quanti,
Li bisognava de star vigilanti.
A la foce del govo28 a l’altre imprese,
El campo v’arivò di mano in mano,
E de Ferrara el duca a le contese
E ’l possente marchese mantoano,
Gentilhomen de Genova palese
E svicer29 francesi con lor arme in mano30:
Col valoroso popul se scontraro
E quivi i brandi lor sen sanguinaro.
Al crido “a l’arme” ogni valle rinbomba,
Operando ciascun l’ingegno e l’arte;
Fugiva31 li animali for d’ogni tomba
Tant’era el giorno corrozato, Marte
Ch’al gran iudicio l’angelica tromba
Non farà tal romor la quinta parte
E d’ogni parte tanti s’amazzone32:
El numero a contarlo i’ non lo sone33.
Di corpi morti coperto el gran monte
Ch’era a vedere una compassïone,
Del sangue di christiani se fece un fonte34
Che mai fo vista tal confusïone.
Un genovese con l’altro era a fronte
Ma pur usavan qualche discretione:
Tal era amico o parente o compare
Pur li doleva a volerse amazare.
Di gentilhomen molti e partesani
In casa lor nutrito per l’antico
E benché fosser colloro a le mani
Ogniun cercava a salvarse l’amico.
El popul era de pensieri estrani:
Se stavon tutti d’un bono apetito
Uniti insieme con lor forze e prove
Harian fatto tremar per fino a Iove.
191Tal volea biancho e tal volea nero,
Non havean capo che le governasse:
Gran parte non n’avea el cor sincero
Bramando gentilhomin[i] tornasse,
E non n’è maraveglia a dire el vero
Sendo in diviso che ’l popul restasse:
Contra le forze del re in quelle cale
Non se seria mantenuto Hannibale.
El35 giovò e ’l grosso campo trapassò
Calando a la drita in ver ponente;
Apo c’è vera verde e lì arivò
Con bataglie crudele ogniun prudente,
Apo c’è vera sechan e ’l capitò36.
Quanti figli de Marte eran dolente:
Per l’aspre coste e per li strani sassi
Se ritrovar’ de vita privi e cassi37!
Arivaro i francesi a Cassanova38
E con crudel battaglia aspra e stupente,
Mostravon tutti la lor forza e prova.
El popul contra el campo era prudente;
Con l’arme e sassi par che dal ciel piova.
Ma ben lo ssa de quei ch’era presente39
C’avanti passar’ per fina a roveri:
O quanti ne restar’ feriti e poveri!
E corse40 i cavalli legier fina a41 la foce42
Del mar per ben che fosse strana via;
A combatter el campo era feroce,
Andaro avanti fina a la Bastia43
Ma ’l popul forte sempre era feloce44,
Ma pur temendo de qualch’eresia
De non esser gabbati o presi a lazo,
Se tene sempre forte al Castellazo.
192El re christïanissimo di Franza
Se fo in persona a Genova acampato
Co’ le soi squadre e con lor forte lanza
E al boscheto se fo allogiato
Tre milia apresso e questa non è zanza45!
El popul dentro s’era ritirato
Ne la forte città che non n’apare
Ch’el campo non le posa danegiare.
Ne la città era46 molta discordia
Fra ’l populo – e ’l se sa senza contare –
Ma ’l campo di francesi era in concordia
Ché Genova credevon sachegiare.
El re de li christiani misericordia47
Usò, tal crudeltà non lassò fare
Ché se tal cosa lui aconsentia,
Del sangue ogni carugo48 si copria.
Genova è forte ma è ’n differenza
D’honore e fama in levant’ e in ponente;
Gentilhomen magni e di fienza,
Mercadanti veri di fé, d’ogniun prudente49,
Bon marinari e di gran diligenzia
E contra mori e turchi ogniun valente,
Con lor carche50 e nave e galïoni51,
In mar son como in boscho i fier leoni.
Genova d’alti monti acircondata
E le mure batte el mar leone52,
E de’ palazi è ben fortificata
Che se ritornasse Hercule o Sansone
Per forza non saria mai danegata.
Sempre fra lor è gran divisïone
Tal’è Fragoso o Adorno o Grimaldesco
O Spinoli o Ca’ Doria o quei dal Fiesco.
193Sendo in discordia e vedendo l’asedio
Da ogni parte per terra e per mare
Disor fra lor: “non è da stare a tedio”.
Cercan53 meglior partito de pigliare,
Feceron54 consiglio a l’ultimo remedio
Genova per amor al re donare
E così li55 mandaro a dir palese
Ch’elli entra in la cità ch’è senza contese56.
El re magnanimo benigno e clemente57,
Quando intese del populo el tenore,
Vedendo la cità forte e possente
De sito e mure e homen di valore,
Se consigliò de non far morir gente
E perdonare a ciaschadun l’errore.
Come re bon christian el s’è portato58:
Roba e honore a Genova ha salvato.
Con gran triumfo el re si parechiò
Per intrar dentro a la cità giolia;
Duchi, signori e ’l campo s’ordinò
Gentilhomini de Zenova in compagnia59.
Se starete ascoltar, io ve dirò
De l’ordine de tanta ligiadria,
De ricontar per nome li cavalieri60,
Pedoni e gente d’arme in sui destrieri.
Cinque milia svizari61 eran avanti
Al re a la sua guardia bene armati;
Bandiera per bandiera tutti quanti
A loro usanza eron ordinati,
E divise e penagi v’era62 tanti
Che bianchezar facevon i verdi prati
Con halabarde e lanzoni e sciopetti,
Grossi tambur sonando e zufoletti.
194E cinque milia pedon venturiere63:
In guerra mai nesun se vede stracho,
A far botin son come livuere64,
Trista la terra che metono a sacho.
Quatro milia guascon sopra i sentiere
Vano in battaglia come a lepre el65 bracho,
E da laquai66 eron cinquecento,
A pied’ e a caval con ardimento.
Sequiva67 i capitan di balestrieri,
Avanti a tutti li altri v’era Himbret68
E Ator, Bertin in sui sentieri
E ‘l franco e valoroso Couret,
E a Molardo69 à de guerra i mestieri70
Liger, de biancho armati per dilet.
Eron per nome mille e cinquecento
Homen gagliardi e di gran valimento,
Charrete vintidoi d’artigliaria,
Canoni e columbrini passavolanti
Ducento bombardiere in compagnia
Che la guidavan d’adrieto e d’avanti
E falconetti da far guerra ria
Che i grossi muri non reston constanti,
E ‘l capitan n’è monsignor Despin:
Fa guerra sempre como un paladin71
195V’era gran numer de provesionati;
Un’altra parte era andata a Saona
Con grossi e bon cavai tutti bardati
Dal capo a pie’ armato la persona,
A squadra per esquadra eron ordinati72;
A compagnia andò la sacra corona
E del re v’era cento souzeri73
Ne l’arme prompti, valorosi e fieri.
Apresso a lor monsignor de Barbon74:
De quatro cento arcieri è capitano;
Sopra un cavallo facea com’ un lion,
Saltando in qua in là sopra el piano.
Monsignor de Bignin75, un fier dracone,
Contra el nimico con sua arme in mano
E misser Gabriel ditto da Ciastro
E monsignor Crusol in arme mastro76,
Con gran triumfo el duca ferrarese,
E principi e signori ciascun ornato77
E quel possente mantovan marchese
(Etor troiano par quando è armato)
E quel de Monferato era palese78
196E ‘l fier de Rotolin79 tanto prezato,
Monsignior de Pontiere e de Labala
E monsignor famoso Dervala,
E ’l franco e forte monsignor Panesi
E monsignor nomato de Vandome
E monsignor famoso Noveresi,
Monsignor de Calabra per nome80,
Monsignor Dunois, altri palesi,
E saria longo a dir e quanti e come,
Con pagi ornati de gran diligentia,
Con lanze e elmi per magnificentia,
Del catholico re l’imbasiatori,
Monsignor siniscalco d’Ormandia81,
Monsignior de Ravel e più signior
Di genovesi de gran ligiadria,
Ducento armati sopra i corridori,
Gentilomini de gran baronia
Facendo festa sopra el tenetoro82,
Che ritornavon ne le case loro;
E ducento albanesi e stradioti
Ben a caval con lanze e simitare,
Ne l’arme sperti e son nel sangue ioti83
Più che moscon e cercon brige a fare84;
Sempre inimici han fracassati e rotti,
Salton repari, fossi e muri e sbare.
Lor capitano è monsignor Mercore85
De forze e de virtù un novel Ercore86.
Con gran triumpho de Franza el legato
E quatro cardinali in compagnia,
Quel de San Severin87 tanto honorato,
197Quel dal Finale88 con gran ligiadria
E quel de Prie89 e d’Albi90 nominato,
Vescovi, abbati e molta geresia91
C’a ricontarli per nome e ‘l paese
El si saria da dir per più d’un mese.
De la gran corte del re i consiglieri,
Doctori excellenti e gramatici e sagi92,
Cortesani con destri stafferi93,
Trinzanti e camarieri, adorni pagi
E maestri de stalla e cancilieri
E mulatieri e molti cariagi,
Con zoie e vestimenti ch’i’ non vario94
Che tal richeza mai non hebbe Dario.
El re sopra un caval tutto era armato
Col brando nudo in segno de victoria;
Sopra era el palio da sei ancian portato
Genovesi e qui te fo memoria
D’oro e de seta ciaschadano ornato
E più assai che non dice la historia.
Carlo d’Ambois95 tenea con leticia
Avanti al re la spada de iusticia.
Sei cento lanze e cavalieri armati,
(In mezo v’era el re sacrato e iusto)
Con gran pompe e lor cavai bardati,
Saltando destri e ciascadun robusto.
A paro a paro con triumfo ordinati
Como quando intrò in Roma el bon Agusto
E tanta artelaria e’ sbombardava
Che ’l mare e monti e valle resonava.
Fina a le porte el re acompagnaro;
Una gran parte al campo ritornò
E quatro milia pedoni arestaro
Per la guardia del re e drento intrò.
Trecento lanze sempre avanti andaro,
198Nel Castelletto ben s’aparechiò
E de gran gente fornì San Iovanni
Per star[e] ben sicuro e for d’affanni.
L’arcivescovo de Genova96 e abati
Per ricever el re mesonse in via,
E canonici e preti e molti frati,
Procession canti de dolce armonia
For de la porta se foro escontrati
A rigratiando el figliol di Maria:
Al sacro re s’enginochiar’ davanti
Che perdoni la ingiuria a tutti quanti.
De Genova vene for tutti li anciani97
Al christianissimo re a farli honore
E smontar’ da caval sopra dei piani
Pregandol sempre con perfecto amore,
Se stati son desobedienti e strani,
Ché ciaschun li farà bon servitore
A sua corona e staranno in concordia,
Chiamando sempre a lui misericordia.
De dentro a la cità magnia e ornata
Era parata d’un richo thesoro,
De razi98 ogni finestra copertata,
Donne vestite de seta, argento e oro,
Con archi e catafalci e pani99 ombrata
Che mai fo visto el più digno lavoro,
E quando el re per la cità andava
“Misericordia e pace” ogniun cridava.
Da l’altra parte se vedea per mare
Doi nave grosse intrar dentro al porto,
Sei galeaze che non trova100 pare,
Armate al navigar ciascuno acorto,
E altre galee e ’l grande sbombardare
Per l’alegreza ogniun avea conforto
Che la cità non era dannegiata:
In pace, in carità el re l’ha pigliata.
199Gentilomini e ’l popul reserò101
C’a sua corona se dia obedienza
E ’l Castelleto ben fortificò
Che sia guardato con grande avertenza.
E lasso102 Genova, in ver Milano andò103
Ch’un re bisogna haver gran previdenza
De visitar le so provincie e Stati,
Forteze e passi e porti sian guardati.
In questo tempo l’alteza de Spagna104
Se partì da Napoli in persona105,
El gran capitano e la regina106 magna107
Per ritornar nel regno di Ragona.
Andar’ per alto mar non per campagna
E navigando arivar’ a Saona:
El re del christianissimo108 e’ scontraro
E infinito amor se dimostraro109.
Essendo doi gran re insieme afrontati,
E’ se abrazaro per segnio d’amicicia:
Li sdegni antichi son desmenticati
Pel parentato110 fatto con leticia.
E così infra de lor sono acordati
Tener nei regni lor pace e iusticia
E non far guerra più contra christiani
Alzar la nostra fé contra i pagani.
Alquanti giorni ogniun fu riposato,
El re di Franza benigno e humano
E un richo presente hebbe donato
A Consalvo111 Ferrante capitano,
Fatto proferte e à lo carezato
Se ben li à fatto guerr’a armata mano:
200Per tutto un valent hom ar’ceve112 honore
Quando fa el dover pel suo signore.
Feceron triunfi asai, alegreza e festa
E parlamenti secreto e palese
E poi s’aconvetar’113 con faza honesta.
El re di Spagna tesò114 vele estese,
El re di Franza cavalcar non resta
E ciaschadun andò in so paese
Pregano Idio che vivon con leticia
E a noi sanità e gran divitia115
E regni infra christiani unita pace:
E così piaza116 a la virgine pia
E a angeli e apostoli verace117
Che ce defendon da quei de Turchia
E le guerre se metta in contumace
A ciò che se destruga pagania.
Facian de terra santa el grande aquisto
Là dove fo sepolto Iesu Christo!
Ch’ai nostri giorni vedere el possiamo,
Ierusalemo e ogni loco santo!
Auditori perdonanza ve chiamo
Si havesse falito o tanto o quanto:
Sol di darve piacer de bon cor amo
E qui fo fine al mio parlar e al canto,
Ma se volete la hystoria ornata
Per un soldo, el è bona derata118.
Fata per Iacomo Cortonese. FINIS
Jean-Luc Nardone
Université Toulouse – Jean Jaurès
EA 4590 – Il Laboratorio
1 Jean Marot nacque, a quanto pare, intorno al 1464, vicino a Caen. Guillaume Colletet dice di lui che « son education fut si negligee qu’on ne luy fit pas seulement apprendre le latin […]. Marot étoit pauvre et n’eut de biens que ceux qu’il reçut de la cour » (dans G. Colletet, Notices biographiques sur les trois Marot trascritte dal manoscritto distrutto nell’incendio della Biblioteca del Louvre del 24 maggio 1871 e pubblicate per la prima volta da J. Guiffrey, Paris, Lemerre, 1872). Le Notices di Colletet erano ancora, nell’Ottocento, un’opera di riferimento e lo stesso L. Theureau (Étude sur la vie et les œuvres de Jean Marot, Caen, Le Blanc-Hardel, 1873, ristampato in Slatkine Reprints, Genève, 1970) che offre lo studio più interessante in quegli anni, segue Colletet. L’ultima edizione di Marot curata da Gérard Defaux e Thierry Mantovani (Jehan Marot, Les deux recueils, édition critique par G. Defaux et T. Mantovani, Textes littéraires français, 512, Genève, Droz, 1999) riprende meticolosamente ogni particolare biografico di Jean Marot, e rifiuta il mito della sua ignoranza dei grandi testi classici, come pure del latino.
2 Il ms. regalato da Jean Marot alla regina è tuttora conservato presso la Biblioteca Nazionale di Parigi (ms. fr. 5091, ancien 9707). Esiste un secondo ms. in questa stessa biblioteca, il ms. N.A.F. 11679.
3 Sur les deux heureux voyages de Gênes et Venise victorieusement mys à fin par le très chrestien roy Loys douziesme de ce nom, père du peuple, et véritablement escriptz par iceluy Jan Marot, alors poete & escriuain de la tresmagnanime Royne Anne, Duchesse de Bretaigne, & depuys, Valet de chambre du treschrestien Roy Francoys, premier du nom, Paris, à l’enseigne du Faulcheur [chez Pierre Roffet], 1533. I due testi furono pubblicati poi in Les Œuvres de Jean Marot, nouvelle édition [avec l’épistre de Clément Marot au Roy, faisant mention de la mort de Jean Marot]. Les Poésies de Michel Marot, Paris, Antoine Urbain Coustelier, 1723. Questo ultimo testo, che ci serve per le nostre citazioni di Marot, è stato ristampato anastaticamente da Droz (Genève, 1970).
4 Si veda E. Pandiani, « Considerazioni sugli annali di Bartolomeo Senarega », dans Giornale Storico della Letteratura della Liguria, 1927; e E. Pandiani, « Un cronista genovese del Rinascimento: Bartolomeo Senarega », ivi, 1929.
5 In particolare del Voyage de Venise: « L’esattezza scrupolosa delle descrizioni […] si traduce in un’accurata scansione cronologica delle vicende che specie nel Voyage de Venise sono seguite praticamente giorno per giorno, con cura assidua […]. Tutta una concreta base documentaria che dà a quest’opera un notevole aspetto di serietà cronachistica nel dettaglio », dans S. Cigada, « L’attività letteraria e i lavori poetici di Jean Marot », dans Contributi dell’Istituto di filologia moderna, V, Milano, Vita e pensiero, 1968. Stesso giudizio in L. Theureau, Étude sur la vie et les œuvres de Jean Marot: « Jean Marot […] s’attache […] aux seuls faits de l’histoire; il les raconte sans omettre même les dates ni les moindres particularités; il recueille jusqu’à de petits détails qu’un historien ordinaire aurait négligés » (p. 121). Si veda anche l’edizione critica citata dei Deux recueils: « À partir du second Voyage, il ne semble plus faire la moindre différence entre le poète et l’historien. […] Ce long poème […] n’est en effet rien d’autre en soi qu’un nouveau témoignage, une œuvre d’historien » (p. cxiii).
6 Modena, Panini, 1988-1989 per conto dell’Istituto Studi Rinascimentali di Ferrara.
7 « […] Roy triumphant, magnificque / Plain de vertu, hardy, laborieux, / Cueur magnanime et bras victorieux / est celluy qu’on peult nommer sans vice / Amy de Paix, zelateur de Justice / Hayant debatz, inventeur de Concorde / Chief belliqueux, plain de misericorde » (V.V., vv. 142-148), oppure « Roy vertueux / De tous temps fauct aux armes, hardy chevaleureux » (V.V., vv. 1847-1848).
8 Si vedano ad esempio G. L. Gorse, « Between Empire and Republic: Triumphal Entries into Genoa during the Sixteenth Century », dans « All the world a stage »: Art and Pageantry in the Renaissance and Baroque, B. Wish et S. Munshower (dir.), Philadelphie, Pennsylvania Press, 1990, p. 189-256; I. Gagliardi, « Entrées triomphales en Italie, état de la recherche », dans Les Entrées, gloire et déclin d’un cérémonial, B. Guénée (dir.), Biarritz, 1997, p. 115-145.
9 Esattamente infatti come nella primissima occorrenza appena citata in cui le parole « Marchandise » e « peuple » erano state unite nello stesso verso.
10 Troviamo più avanti in corsivo il verbo « piller » non nel senso francese di saccheggiare bensì di prendere/pigliare nell’espressione « piller pacience » che mescola francese e italiano.
11 Sull’argomento, si veda il volume recente di C. Taviani, Superbia discordia. Guerre, rivolta e pacificazione nella Genova di primo cinquecento, Roma, Viella, 2008.
12 Governatore dal 1499 fino alla rivolta del 1506. Cf. F. Lévy, « Louis XII à Gênes: le roi et sa ville », Mélanges de l’École française de Rome, 118/2, 2006, p. 315-334, e più recentemente, F. Lévy, « “Police regne soubz couronne”: la nomination française à Gênes (1499-1512) », Cahiers de la Méditerranée, 86, 2013 (https://journals.openedition.org/cdlm/6842, consulté 7/12/2019) e La monarchie et la commune. Les relations entre Gênes et la France (1396-1528), Rome, EFR, 2014. L’articolo è molto interessante e cita numerose fonti manoscritte di primissima mano. Lévy rimanda alla storiografia francese e genovese ma non cita il nostro Cortonese.
13 Per il carattere umile del nuovo governo si veda E. Pandiani, « Un anno di storia genovese 1506-1507 », Atti della Società Ligure di Storia Patria, 37, 1905.
14 Criteri di edizione. Abbreviazioni: assai comuni, si sciolgono senza segnarle nel testo. Accenti: uso moderno, ossia grave e acuto secondo i casi, in particolare sulle parole tronche dov’è sempre assente. Lo aggiungiamo pure a purche, perche, ecc., e ai verbi regolari del passato remoto, terza pers. sing. Segniamo la dieresi in alcuni versi (compassïone, v. 36 ecc.). Distinguiamo pò (v. 17) per può da po’ per poco. Apostrofo: uso moderno. Ad es. correggiamo un altra parte (v. 242). Aggiungiamo in particolare l’apostrofo a fe’ (fece) per distinguerlo da fé (fede), a pronome soggetto e’ quando significa egli (v. 378), o al passato remoto, terza pers. pl. per evitare la confusione con l’infinito (restar’ per restarono, v. 144). Legamenti fra le parole: conserviamo di solito le forme del testo (ad es. in vece) quando sono chiare per il lettore odierno. Nel caso delle preposizioni articolate, seguiamo la forma moderna quando non c’è da aggiungere o togliere una o più lettere, ma separiamo le forme non geminate (a la so mano, v. 38). Separiamo la congiunzione di coordinazione e in particolare dagli articoli (ela > e la) e nel caso di el (v. 3), lo trascriviamo e ‘l per distinguerlo dalla preposizione el (el corpo, v. 23) e dal pronome complemento el (el pose, v. 39). Nel caso di el per egli (vv. 71 e 72), vedasi nota. Maiuscole: si riducono sistematicamente all’uso moderno (ad es. Idio, v. 2, o per la parola Stato, v. 15). Si conservano quindi a tutti i nomi di persone e di personaggi, e di luoghi. Interpunzione: in assenza totale di segni d’interpunzione, proponiamo una punteggiatura moderna (possibile) che possa aiutare la lettura (ad esempio v. 166). Parentesi quadre: aggiungiamo tra parentesi quadre sia le lettere mancanti per l’endecasillabo quando sono evidenti (Bramando gentilhomin[i] tornasse, v. 124), segniamo con un accento le forme verbali del verbo avere (ad es. àn, v. 26, à, v. 390). Grafie moderne: distinguiamo u e v.
15 La barzelleta, Non dormite, o taliani, che chiama gl’italiani a non far guerra tra di loro, non sembra essere di Giacomo de’ Sorci e non è incentrata sulla guerra di Genova. Non la riproduciamo quindi in queste pagine.
16 Il testo dice chiaramente morin forse per morir’ (cioè morirono).
17 Accordo classico del verbo con l’ultimo dei sostantivi al singolare.
18 Con dialefe iniziale.
19 Cioè schierarsi dalla sua parte.
20 Egli dominò.
21 Verbo Misero.
22 Il governatore di Genova era Philippe de Tavenstein che viene qui confuso con uno dei suoi fedeli, Philippe Rocquebertin.
23 Rotacismo. Vedasi anche nota 29.
24 Metatesi (Bertagnia vs. Bretagnia).
25 Egli.
26 Egli.
27 Vedasi anche dopo l’espressione « città giolia ».
28 Golfo. Vedasi strofa 19 « la foce/del mar ».
29 Svizzeri. Nel testo la parola ha grafie e accenti vari come svizàri o souzeri.
30 Endecasillabo ipermetrico.
31 Fugivan. Frequentissimo nel testo il caso di verbi al singolare seguiti da un soggetto al plurale.
32 Se ne amazzò.
33 Non lo so, con paragoge già incontrata con verbi al passato remoto.
34 Endecasillabo ipermetrico.
35 Egli.
36 Il brano sembra descrivere vari posti (un prato, una zona più « secca ») che attraversa ogniun prudente che riesce a salvare la vita in mezzo alle battaglie.
37 Abbandonati, avviliti.
38 Forse Casanova (Lerrone), in Liguria.
39 Il testo dice presenti, forse per contaminazione del distico successivo.
40 Corser. Veda nota 16.
41 Il testo dice « fina e ».
42 Endecasillabo ipermetrico.
43 Di fronte al Castellaccio dei versi successivi.
44 Feroce. Rari i casi di lambdacismi nel testo. Vedasi nota 9.
45 Ciancia.
46 Sembra che sia aggiunta un segno di abbreviazione grammaticalmente sbagliato per eran.
47 Endecasillabo ipermetrico.
48 Carruggio (cioè vicolo a Genova).
49 Endecasillabo ipermetrico.
50 Caracca genovese. La parola sembra confondersi con l’aggettivo carco.
51 Endecasillabo ipometrico nonostante l’aggiunta della dieresi. Bisogna fare l’ipotesi di un’ipercorrezione sbagliata del tipografo di carache.
52 Endecasillabo ipometrico.
53 Cercando.
54 Qui si sarebbe aspettato feron o fecer, per evitare l’ipermetria del verso.
55 Al re di Francia.
56 Endecasillabo ipermetrico.
57 Endecasillabo ipermetrico.
58 Egli s’è comportato.
59 Endecasillabo ipermetrico.
60 I cavalieri avrebbe permesso l’endecasillabo.
61 Svizzeri, qui parola piana.
62 V’eran. Veda nota 16.
63 Cioè mercenari.
64 Levrieri, cioè veloci.
65 Il testo dice al.
66 Lacchè, valletti (gal.).
67 Cf. nota 16.
68 Imbert (o Humbert) de Batarnay (1438-1523). Imbercourt, morto a Marignano, secondo le memorie di Roberto III de La Marck, signore di Fleuranges, Mémoires du maréchal de Florange, dit le Jeune Adventureux, publ. pour la Société de l’histoire de France par R. Goubaux et P. André Lemoisne, Paris, H. Laurens, 1913-1924, 2 vol. Jean d’Auton, nelle sue Chroniques de Louis XII, fa invece il nome di Adryen de Brymeu, signore d’Humbercourt.
69 Qui il nostro autore sembra seguire La Marck: « Après vinrent 1500 arbalétriers que conduisaient messeigneurs les capitaines, c’est à savoir: Imbercourt et Hector, Bertin et Molard, tous accoutrés de halecrets et salades, ayant chacun son arbalète sur le col, et garnis de traits au côté. » Goffrey Alleman, nipotino di Guigue d’Uriage, chiamato « Capitaine Molard » col nome del feudo che gli era stato concesso. Di Molard (Molardo) scrive assai Guicciardini in altra sede, a proposito della presa di Legnano (Storia d’Italia, IX, 4). La costruzione « a Molardo » risulta poca chiara (prolessi che anticipa il verbo?) e aspetteremmo piuttosto « E ’l Molardo ».
70 « Complesso di combattenti » (Battaglia).
71 La Marck: « Après vinrent 22 chariots chargés d’artillerie, c’est à savoir canons, bombardes et faucons, accompagnés de 200 canoniers et plusieurs autres gens servant ladite artillerie, et les conduisait monseigneur Despy ».
72 Endecasillabo ipermetrico.
73 Cf. nota 14.
74 Carlo III di Borbone, signore di Montpensier, presente dopo ad Agnadello. Celebre per essere poi diventato l’alleato di Carlo quinto contro il re di Francia, morì durante il sacco di Roma, nel 1527. La maggior parte dei nobili citati in quesi versi è presente in due strofe del Voyage di Marot, nella descrizione dell’arrivo dell’esercito francese sotto le mura di Genova: « Bourbon qui tenoit termes d’un Scipion », « Jeune Vendôme estoit tel en fierté / comme Jason », « Calabre lors gloire et bruit desirant », « Lors le Seigneur de Nevers […] / Tant triumphant et de si bonne grace / Que Troilus sembloit », « le puissant duc de Ferrare […] / Et me souvint à veoir sa remembrance / Du grand Pompée », « De Mont Ferrat le Marquis et Seigneur / Suyvoit ce train fier comme ung Hercules. / Mantoue semble Hector en sa fureur / Quant par les rangs va chercher Achilles ». L’elenco non è poi ripreso nel momento dell’entrata trionfale del re, come se fosse l’unico a dover riceverne tutta la gloria.
75 Robert Stuart d’Aubigny, nobile francese di origine scozzese, partecipò alle guerre d’Italia di Carlo VIII, Luigi XII e Francesco I.
76 La Marck: « Monseigneur de Bourbon, monté sur un beau coursier […] conduisait les 400 archers de la garde dont le Roy l’a fait capitaine-général, et monsieur d’Aubigny, semblablement à cheval. Après venait à pied messire Gabriel de la Châtre, et monseigneur de Crussol ».
77 Endecasillabo ipermetrico.
78 Famoso, conosciuto. Veda pure nella strofa successiva.
79 Quasi stesso elenco in La Marck: « le marquis de Rotelin, monseigneur Dorval, monseigneur de Laval, monseigneur de Ponthièvre, monseigneur Panesi, monseigneur de Vendôme, monseigneur de Nevers, monseigneur de Dunois, monseigneur de Calabre ».
80 Endecasillabo ipometrico.
81 Di Normandia.
82 Tenitorio, territorio. La forma tenetoro proviene dall’incrocio tra tenere e terra.
83 Ghiotti.
84 Il testo dice « e fare ».
85 La Marck mentionne « le seigneur Mercure, capitaine grec, avec deux mille Albanais ».
86 Ercole. Veda nota 9.
87 Definito da Guicciardini (Storia d’Italia, X, 12), Frédéric de Saint-Séverin, « cardinale feroce e più inclinato all’armi che agli esercizi o pensieri sacerdotal ».
88 Oriundo da Finale Ligure, Caro Domenico del Carretto, vescovo di Reims.
89 René de Prie (morto nel 1516), cardinale di Bayeux.
90 Louis II d’Amboise (1477-1511) vescovo d’Albi e d’Autun.
91 Gerarchia.
92 Endecasillabo ipermetrico.
93 Endecasillabo ipometrico.
94 Cioè « ch’io confermo » nonostante paia incredibile.
95 Charles II d’Amboise, fratello del vescovo d’Albi (nota 75).
96 Cioè Giovanni Maria Sforza, figlio illegitimo di Francesco I, duca di Milano.
97 Endecasillabo ipermetrico.
98 Arazzi.
99 Panni.
100 Trovan (cf. nota 16).
101 Il re reserrò, costrinse.
102 Participio passato.
103 Endecasillabo ipermetrico.
104 Ferdinando II d’Aragona (con forma aferetica di « Ragona » successivamente).
105 Endecasillabo ipometrico.
106 Germaine de Foix, seconda moglie di Ferdinando.
107 Endecasillabo ipermetrico.
108 Cristanesimo (oppure contaminato dalla forma cristianismo).
109 Con dialefe iniziale.
110 Germana infatti era francese ed aveva sposato Ferdinando a Blois il 19 ottobre 1505.
111 Gonzalo Fernández de Córdoba, viceré di Napoli fino a giugno 1507, quando il re Ferdinando preferì farlo tornare in Spagna.
112 Riceve. Protesi e aferesi della vocale « a » sono frequenti nel testo.
113 Conventarono, cioè si promisero (Battaglia) di non farsi più guerra.
114 Il testo dice « leso » (senza l’accento finale come quasi dappertutto) che capiamo come tesò nella definizione del Battaglia: « tesare: distendere una vela perché prenda in pieno il vento ».
115 Con dialefi iniziale.
116 Piaccia.
117 Dialefi per un endecasillabo a maggiore.
118 Veda nota precedente.
- Thème CLIL : 4027 -- SCIENCES HUMAINES ET SOCIALES, LETTRES -- Lettres et Sciences du langage -- Lettres -- Etudes littéraires générales et thématiques
- ISBN : 978-2-406-10454-4
- EAN : 9782406104544
- ISSN : 2273-0893
- DOI : 10.15122/isbn.978-2-406-10454-4.p.0175
- Éditeur : Classiques Garnier
- Mise en ligne : 01/04/2020
- Périodicité : Semestrielle
- Langue : Italien
- Mots-clés : Genova, Jean Marot, Giacomo de’ Sorci, Prosimetro, Louis XII