Il divorzio ‘alla sarda’ Grazia Deledda
- Type de publication : Chapitre d’ouvrage
- Ouvrage : Finché legge non vi separi. Il divorzio nella narrativa d’autrice tra Otto e Novecento
- Pages : 159 à 187
- Collection : Women and Gender in Italy (1500-1900)/Donne e gender in Italia (1500-1900), n° 2
Il divorzio ‘alla sarda’
Grazia Deledda
La ricezione di Dopo il divorzio
Rispetto alle altre opere prese in analisi, Dopo il divorzio (1902) di Grazia Deledda occupa un posto eccentrico,1 poiché non rispetta se non parzialmente i criteri di scelta del corpus. A differenza di Cordelia, Bruno Sperani, Anna Franchi e Fanny Salazar, infatti, Deledda non parla di divorzio attraverso una prospettiva femminile. Essa non è tuttavia assente, bensì è implicita nel romanzo. Inoltre, il contrasto tra organi giuridici e individuo, che è uno dei fulcri del testo, non prende le mosse dalla questione del divorzio, bensì dal processo per omicidio e dalla ingiusta condanna di Costantino Ledda. E tuttavia Dopo il divorzio ha molti punti di contatto con il coevo dibattito parlamentare in materia, e tratta esplicitamente del contrasto tra valore sacramentario e valore civile delle nozze. Non trascurabile è poi la qualità letteraria del romanzo, ancora oggi inspiegabilmente negletto dalla critica deleddiana. Tra i pochi che se ne sono occupati va menzionato Eurialo de Michelis, che nel 1946 aveva pubblicato sulla rivista Mercurio l’Epilogo di Dopo il divorzio, fino a quel momento edito solo in inglese, commentando brevemente il romanzo. Trent’anni dopo, de Michelis era tornato su Dopo il divorzio nel capitolo di Novecento e dintorni (1976) dedicato all’autrice nuorese (“Riassunto sulla Deledda”): il contributo in questo caso era focalizzato sul processo di rielaborazione del testo che, dopo la traduzione in inglese 160del 1905 (insieme, appunto, all’Epilogo),2 era stato riedito nel 1920 con importanti modifiche e il nuovo titolo di Naufraghi in porto. All’analisi del percorso di riscrittura, condotta con gli strumenti metodologici della critique génétique, si è dedicata anche Margherita Heyer-Caput (2013): la lettura di Dopo il divorzio come romanzo in divenire era finalizzata a dimostrare i legami tra Deledda e il modernismo europeo, tesi già da lei sostenuta nella monografia Grazia Deledda’s Dance of Modernity del 2008. Incentrare l’analisi sul processo di scrittura significa tuttavia lasciare sullo sfondo le caratteristiche dei singoli testi: se negli studi di Heyer-Caput ciò è giustificato da una precisa scelta metodologica, nelle analisi di de Michelis tale approccio si accompagna a giudizi di valore che è necessario tornare a prendere in esame. In entrambi i contributi de Michelis criticava il finale di Dopo il divorzio, tant’è che, in Mercurio, l’Epilogo veniva presentato suggerendo che fosse stato “scritto per la traduzione americana […] a istanza dell’editore; ma qualche dubbio doveva essere anche in lei [in Deledda], che la prima conclusione del romanzo concludesse poco” (de Michelis, 1946, p. 40). Il commento veniva ripetuto in “Riassunto sulla Deledda”, ove leggiamo:
patentemente, la mancanza di presa che era nella Deledda dinanzi al tema sociale-drammatico, si rifletteva nell’incertezza della conclusione, che non risolveva niente; un abbraccio, va bene, un amore riconciliato, ma non si sana perciò la situazione nei confronti del secondo marito: naufraghi, dopo la riconciliazione, meno che mai in porto (de Michelis, 1976, p. 100).3
Per comprendere i giudizi di de Michelis è necessario evidenziare che in entrambi i contributi la trama del romanzo è riportata in modo scorretto e fuorviante. Le inesattezze nella sintesi sono sostanziali nella misura in cui riguardano proprio i due elementi che sorreggono il dramma messo in scena da Deledda: De Michelis non menziona il fatto che Costantino 161e Giovanna sono sposati anche religiosamente, oltre che civilmente;4 inoltre, nel testo del 1946, de Michelis non registra il fatto che, nella finzione letteraria di Deledda, il divorzio viene presentato come una legge effettivamente in vigore, e non una proposta in fase di discussione:
le strettezze finanziarie, e l’oblio, e l’umano desiderio d’amore persuadono Giovanna, anche spinta dall’avida zia Bachisia, sua madre, a nuove nozze con Brontu Dejas: nozze possibili, sì per l’attesa della prossima legge sul divorzio, e sì perché le prime furono solo civili a causa della povertà degli sposi, talché niente vieta di celebrarle intanto religiose col secondo marito (de Michelis, 1946, p. 39).
Invece, come evidente fin dal titolo del romanzo, la legge sul divorzio è in realtà già approvata nella finzione letteraria. Piuttosto, è necessario sottolineare che la dimensione sacramentaria delle nozze tra Giovanna e Costantino è ribadita a più riprese nel testo e, a scanso di equivoci, viene esplicitata già in apertura da Bachisia, la madre di Giovanna:
– Costantino si mostrò pieno di contraddizioni e di rimorsi: egli dice sempre queste parole: è il peccato mortale. Perché devi sapere che egli è un buon cristiano, e crede d’essere stato colpito dalla sventura perché visse con Giovanna prima di essersi sposati religiosamente. […] Aggiungi che sposati religiosamente, poi, si sono. In carcere, sì, in carcere, anima mia, figurati che cosa orrenda (Deledda, 1902, p. 20, enfasi nell’originale).
Le inesattezze di de Michelis denotano, se non una lettura, almeno un’epitome scorretta e superficiale del testo, che impedisce di identificare i nuclei generativi del dramma dei personaggi. Giovanna è “moglie di due mariti” (ibid., p. 164) proprio perché è legata religiosamente a Costantino e civilmente a Brontu: è la coesistenza tra nozze religiose e divorzio che dà luogo ad un dissidio che forse, in presenza di uno solo dei due elementi, non avrebbe avuto luogo. Su questo aspetto varrà la pena tornare: era tuttavia essenziale rilevare da subito che Dopo il divorzio ha interessato la critica principalmente per le sue vicende editoriali e non per i suoi contenuti, spesso travisati.5
162Percorsi di analisi
Dopo il divorzio è diviso in due parti: la prima si svolge nel 1904 a Nuoro, e inizia nel giorno del processo di Costantino Ledda, accusato dell’omicidio dello zio. L’uomo, innocente, viene condannato a trent’anni di prigione e deve così lasciare in Sardegna la moglie Giovanna e il figlio neonato Martino. Come conseguenza dell’incarceramento di Costantino, Giovanna, la madre Bachisia e il piccolo cadono in povertà e devono chiedere aiuto economico ai ricchi vicini Dejas. Brontu Dejas è da lungo tempo innamorato di Giovanna e inizia a corteggiarla, confidando che decida di divorziare da Costantino, anche grazie alla recente approvazione di una legge sul divorzio. Alla morte del figlio Giovanna acconsente, e la prima sezione del romanzo si chiude con il rifiuto di Costantino di divorziare. La sua volontà non ha però nessun valore legale e il matrimonio viene quindi scisso.
La seconda parte del romanzo è ambientata nel 1908, a pochi giorni dalle nozze di Giovanna e Brontu, celebrate solo civilmente. Il rapporto tra i due sposi è infelice, nonostante la nascita di una figlia: Brontu è alcolizzato, la società di Orlei emargina Giovanna, e la suocera la costringe a fare pesanti lavori in casa. Giacobbe Dejas, cugino di Brontu, confessa di aver ucciso lo zio di Costantino e questi viene così scarcerato. L’uomo ritorna nel paese di origine e cerca di evitare l’ex moglie; informato però della sua infelicità, la raggiunge in casa: il romanzo si conclude con l’abbraccio riconciliatore tra Costantino e Giovanna.
Deledda non prende una posizione esplicita in merito all’opportunità o meno di una legge sul divorzio, ma utilizza quest’ultima come escamotage per mettere in scena un dilemma umano. Dopo il divorzio “tematizza la indecidibilità etica di una questione che coinvolge la profondità coscienziale del soggetto” (Heyer-Caput, 2013, p. 11). Le radici di questa prospettiva non vanno però ricercate nella biografia deleddiana. Piuttosto è proprio l’“estraneità al vissuto autobiografico”, che differenzia Dopo il divorzio da Avanti il divorzio di Franchi e da Una donna di Aleramo, a tradursi “in una corrosiva riflessione ‘umoristica’ sulla distanza tra fenomeno e noumeno” (ibid.). Dopo il divorzio deve piuttosto essere letto come esempio di quella che Vittorio Spinazzola (1974, p. 120) definisce la “posizione ideologica” di Deledda, che è tesa a evidenziare come “i rivolgimenti della moralità cui 163assisteva” non fossero avviati a sostituire “un codice invecchiato con un altro, di eguale impegno prescrittivo e di validità ulteriore: no, in questione era soltanto l’abbandono di ogni criterio etico normativo, in nome del diritto individuale a seguire liberamente la soddisfazione del proprio piacere”.
Il tema del divorzio è, da questa prospettiva, particolarmente rappresentativo: non solo impone di ridefinire le strutture della famiglia tradizionale e ne insidia le fondamenta, ma può essere – ed è stato, ad esempio da Antonio Salandra negli anni ’90 dell’Ottocento – inteso come risultato delle tendenze individualistiche di primo Novecento (Seymour, 2006, p. 109). Sub specie Sardiniae – osserva ancora Spinazzola (1974, p. 126) –, Deledda rappresenta problematiche di ordine sociale comuni a tutta l’Italia unita: la vicenda di Giovanna e Costantino si presta a essere astratta dall’ambiente sardo, poiché potrebbe svolgersi con simili modalità in ogni luogo della penisola italiana e, si sarebbe tentati di aggiungere, in periodi storici diversi da quello in cui è ambientata. A partire dal valore universale del dramma rappresentato in Dopo il divorzio, si evidenzieranno dunque i rapporti del romanzo con il coevo dibattito parlamentare.
Non è facile ricostruire l’opinione di Deledda in merito al divorzio, poiché il testo non dà indicazioni precise in questo senso; è d’altronde cifra caratteristica della sua narrativa accostarsi ai grandi temi politici e sociali dell’Italia unita da una prospettiva trasversale: è anche per questo che Deledda è stata a lungo considerata un’autrice ‘folklorica’ e ‘primitiva’. In realtà, questa particolarità della sua scrittura va letta come elemento di forza e come espressione di un punto di vista doppiamente marginale: quello di una donna e quello di una sarda. In Dopo il divorzio, la scissione matrimoniale è rappresentata non per sé, nei suoi pro e nei suoi contro, ma per i dilemmi che genera: il potenziale critico del romanzo sta nell’osservazione degli effetti che una legge (emanata in nome del ‘progresso’ da uno Stato centralizzato) ha non solo nella vita, ma anche nell’animo dei personaggi. Da questa prospettiva si può cogliere il messaggio politico del romanzo, che guarda al rapporto tra legge astratta e sistema di valori dell’individuo. Di qui la possibilità di leggere la Sardegna di Dopo il divorzio come una sorta di ‘laboratorio’ in cui vengono messe in atto dinamiche che interessano tutta l’Italia unita. È questo un primo percorso di lettura del romanzo che si intende seguire.
È pur vero, però, che la realtà della Sardegna non è accessoria nella narrativa deleddiana: lo stesso Spinazzola (1974, p. 120) vede nell’ambientazione 164uno strumento per esasperare il contrasto tra norma arcaica e legge moderna, mentre Anna Dolfi (1979, p. 72) riconosce “la riproduzione, nel dramma, delle risultanti di un archetipo locale, di una conflittualità sociologica precisa e determinante”. La ricostruzione delle caratteristiche di Dopo il divorzio riconducibili all’ambiente sardo rappresenta il secondo percorso di analisi che verrà proposto. La storica marginalità della Sardegna ha permesso di identificare, tra questa regione e l’Italia unita, un rapporto di tipo ‘semicoloniale’, con effetti di colonizzazione interna;6 tra questi si può ricordare il fatto che l’isola sia stata storicamente interessata da un’immigrazione di tipo elitario. I funzionari ed ecclesiastici che occuparono posizioni di potere in Sardegna furono prima catalani e spagnoli, e poi piemontesi. Il loro insediamento impedì ai dignitari locali di partecipare pienamente alla vita politica e impose l’uso di lingue che sostituirono il sardo. Le conseguenze furono quelle tipiche delle situazioni coloniali: una “svalutazione della cultura indigena”, che produsse “sia atteggiamenti di autodisprezzo, sia di resistenza culturale” (Wagner, 2011, p. 15).
La marginalità che ha caratterizzato la storia e i rapporti della Sardegna con i centri del potere è, ancora oggi, tema centrale della letteratura sarda, affrontato con modalità narrative simili a quelle caratterizzanti la letteratura postcoloniale.7 Il confronto con l’alterità, che rappresenta un pericolo per la cultura locale, anima anche la produzione deleddiana. Inoltre, sullo sfondo di una delle più tradizionali comunità italiane, le protagoniste dei romanzi deleddiani offrono “an unusual vision of the struggle between insular tradition and the changes occurring in gender history during the early twentieth century” (Briziarelli, 1995, p. 21). Sono proprio le donne ritratte da Deledda l’emblema della resistenza all’accentramento politico e culturale perseguito dallo Stato italiano. Per questo la scrittrice sarda merita di essere interpretata come “both a proto-feminist and anti-colonial writer whose feminism rests in her subtle and revolutionary appropriation of rural Sardinian culture” (Hopkins, 2007, p. 112). Muovendo da questi spunti teorici, la seconda parte dell’analisi di Dopo il divorzio evidenzierà come la legge sul divorzio sia rappresentata nel romanzo come esempio di imposizione, da parte del centro, di un elemento contrario alla cultura locale.
165I dilemmi di una legge
Dopo il divorzio
e il dibattito parlamentare
Per annodare i fili che legano Dopo il divorzio al dibattito sul divorzio, dobbiamo ripercorrere brevemente gli sviluppi della riflessione politica nel 1902, anno in cui vede la luce il romanzo. Come già osservato, questa è una data cardine: la proposta socialista discussa in Parlamento da Berenini e Borciani l’anno precedente aveva fatto sì che la questione avesse un’importante risonanza nell’opinione pubblica.8 Il 20 febbraio del 1902, nel discorso per la riapertura del Parlamento, il re Vittorio Emanuele III annunciava un riesame dell’istituto matrimoniale, evitando accuratamente la parola ‘divorzio’ e riferendosi, più sobriamente, a delle “disposizioni sull’ordinamento della famiglia”. Era esattamente questo il titolo del progetto di legge presentato da Francesco Cocco-Ortu e Giuseppe Zanardelli il 26 novembre dello stesso anno. Questo rinnovato interesse per il divorzio era dovuto alla necessità di porre rimedio all’alta frequenza di unioni illegittime in Italia. Irregolari erano, tra gli altri, i matrimoni celebrati solo con rito religioso, i casi di bigamia in cui le diverse unioni erano sancite l’una civilmente e l’altra religiosamente, le convivenze more uxorio tra separati, e il fenomeno dei divorzi all’estero. Alcuni di questi legami anomali – i primi due, in particolare – sono esplorati da Deledda in Dopo il divorzio: la scrittura del romanzo, di cui l’autrice dava notizia ad Angelo de Gubernatis in una lettera del 7 maggio 1902 (Masini, 2007, pp. 416-417), si inserisce, come Avanti il divorzio, nell’acme del dibattito sulla scissione matrimoniale.
Vale forse la pena ricordare i contatti intessuti da Deledda con uno dei protagonisti della campagna antidivorzista coeva, Ruggero Bonghi, che nel 1895 aveva steso la prefazione del romanzo deleddiano Anime oneste. Il giudizio positivo espresso dal prefatore viene ricordato, all’indomani 166della morte, da Eleuterio – pseudonimo di Angelo de Gubernatis – nell’articolo “Ruggero Bonghi e Grazia Deledda” pubblicato sulla rivista La vita italiana:
L’ultima pagina politica di Ruggero Bonghi fu scritta per la Vita Italiana; l’ultima sua pagina universitaria, per indicare il nuovo indirizzo che dovea darsi all’insegnamento dell’italiano nelle nostre Università; l’ultima pagina letteraria è stata la prefazione ad un nuovo romanzo famigliare o racconto di Grazia Deledda, intitolato: Anime Oneste (Eleuterio, 1896, p. 322).
De Gubernatis riassume le tre attività principali di Bonghi: parlamentare ed esponente di spicco della Destra storica, docente universitario, filologo e pubblicista. Ai fini del nostro discorso dobbiamo particolare peso all’attività politica di Bonghi, attorno al quale si raggrupparono i sostenitori dell’indissolubilità matrimoniale nel corso del Congresso Giuridico di Firenze del 1891. Il ruolo di capofila assunto da Bonghi è testimoniato anche dal fatto che fu proprio lui a prendere la parola, in qualità di oppositore, nel dibattito parlamentare sulla proposta di legge di Tommaso Villa nel 1892. Questo specifico dibattito è ricco di spunti utili per leggere Dopo il divorzio. In particolare, il romanzo riflette sul rapporto tra sacramento matrimoniale e rito civile, si sofferma sulla condanna al carcere per lungo periodo quale causa specifica di divorzio, e ragiona sul modo in cui l’adulterio viene percepito dagli individui e dalla società. Tutti questi aspetti sono presenti anche nella discussione parlamentare del 1892, che Deledda sembra rielaborare e ribaltare di segno nel romanzo.
Nel dibattito Tommaso Villa, tornando sul rapporto tra Stato e Chiesa nella gestione del matrimonio, aveva enfatizzato i diversi scopi e spazi di influenza delle due istituzioni. È nel solco della divisione delle aree di azione dell’autorità secolare e temporale che si inseriva, e giustificava, la precedenza che il codice Pisanelli accordava al vincolo civile su quello religioso. Se il rispetto del dogma dell’indissolubilità era problema da lasciare al sentimento religioso del singolo, lo Stato doveva garantire, secondo i divorzisti, la possibilità di scindere il vincolo matrimoniale nella sua natura civile. Nondimeno, Villa sottoponeva il potere temporale a una critica serrata, ricordando, attraverso la figura della preterizione, i numerosi annullamenti garantiti dalle autorità ecclesiastiche.9 Se era 167possibile dichiarare nullo il vincolo religioso, sarebbe dunque stato paradossale considerare indissolubile il matrimonio civile:
Orbene, o signori, questi casi [di annullamento del matrimonio religioso] non sono considerati dalla legge civile, la quale è molto più rigorosa della legge cattolica. E quindi quando due sposi cattolici si sono rivolti alle autorità della loro Chiesa, e hanno ottenuto lo scioglimento del loro vincolo coniugale, non trovano eguale assistenza dinanzi alla legge civile. Il vincolo sociale sciolto dalla Chiesa la legge civile lo mantiene. Esso obbliga gli sposi a vivere coniugalmente mentre dinanzi alla Chiesa la loro convivenza ha il carattere di un vero concubinato. Dov’è allora la libertà della coscienza? (Atti del Parlamento italiano. Discussioni della Camera dei Deputati. Sessione dal 19/03/1892 al 15/06/1892, p. 7721).
Villa aveva già citato le parole con le quali Leone XIII, all’epoca arcivescovo di Perugia, attaccava il matrimonio laico, suggerendo una delle sue più perniciose conseguenze: “reso legale il divorzio, non può la legge civile non permettere ai prosciolti coniugi di passare ad altro matrimonio” (ibid., p. 7717). Questa parte della discussione si incentra su un problema strutturale del disciplinamento del matrimonio. Il fatto che lo Stato e la Chiesa, per delegittimarsi, potessero comportarsi diversamente di fronte alla necessità di scindere o annullare un legame matrimoniale era questione ampiamente dibattuta dall’opinione pubblica. È proprio questo aspetto a essere oggetto della riflessione di Deledda e a costituire uno dei cuori dilemmatici di Dopo il divorzio. Nel romanzo, infatti, la protagonista si trova, suo malgrado, nella situazione di bigamia descritta da Villa: cioè, sposata con un uomo con nozze civili e con un altro con matrimonio religioso.
La finzione narrativa permette a Giovanna di usufruire del divorzio; il problema emerge nel momento in cui viene contratto il nuovo legame con Brontu Dejas. Questo nodo viene affrontato in due episodi speculari, situati rispettivamente all’inizio della prima e della seconda parte del romanzo. In entrambi i casi Deledda mette in scena un dialogo su matrimonio e divorzio. Alla luce delle future scelte di Giovanna, l’incipit della prima parte di Dopo il divorzio assume un valore profetico: si fa riferimento alle nozze 168solo civili come “peccato mortale” (ibid., p. 20), mentre lo studente di legge Paolo ricorda che “ora è approvata la legge sul divorzio: ogni donna che ha il marito condannato può tornar libera” (ibid., p. 21). Già a questo stadio del romanzo si fa strada la possibilità del divorzio di Giovanna: la madre della donna, Bachisia “non si sa perché, pensò che se Giovanna dovesse un giorno far divorzio, […] avrebbe pregato Paolo ad esser avvocato della figlia” (ibid., p. 30). In apertura della seconda parte del romanzo, invece, Giovanna difende la propria volontà di unirsi con Brontu anche se con un matrimonio solo civile, perché le autorità ecclesiastiche rifiutano di annullare il legame da lei contratto con Costantino:
– Del resto, se io sposo soltanto civilmente, è perché… – e [Giovanna] si interruppe.
– Ebbene, dillo pure! – esclamò Paolo. – Sposi soltanto civilmente perché i preti non ti vogliono sposare religiosamente. Essi non capiscono, non arrivano a capire, come non arrivate a capire voi, mamma Porredda! (ibid., pp. 145-146).
Le parole di Giovanna rovesciano i termini del discorso di Villa, ma ne lasciano inalterato il significato. Il problema si crea perché le due istituzioni che regolavano il matrimonio non erano coordinate e agivano con criteri particolari e opposti. In questo caso l’autorità religiosa si rifiuta di spezzare un legame che, agli occhi della legge – e a quelli della sposa –, è irrimediabilmente concluso:
– […] Dio vede i cuori: Egli mi perdonerà se vivrò in peccato mortale, perché la colpa non sarà mia. Io vorrei ben sposare religiosamente, ma non si può.
– Perché sei già sposata a un altro, figlia del diavolo!
– Ma se questo è come morto, ditemi voi? Se questo non può aiutarmi a vivere! Se gli uomini della giustizia, che sono istruiti e sentono le necessità della vita, sciolgono il matrimonio civile, perché gli uomini di Dio non potrebbero sciogliere il matrimonio religioso? (ibid., p. 147).
Il nodo centrale delle opere più impegnate di Deledda consiste nella disobbedienza, da parte dell’individuo, a una legge morale. Questa trasgressione non è solo frutto dell’impulso, ma è da intendersi come atto consapevole, nella misura in cui la società stessa, evolvendosi, impone un mutamento delle regole e dei costumi. La (fittizia) introduzione del divorzio rappresenta un cambiamento macroscopico della società tradizionale, cui Giovanna tenta di rispondere ricorrendo al sapere arcaico della Bibbia e, in particolare, al libro di Samuele. Le seconde nozze sono rappresentate 169come una forma di acquiescenza ad una volontà divina, che permette di riassorbire l’amore carnale nel seno di un’unione legittima anche a livello religioso, seppure non ratificata dai rappresentanti ecclesiastici:
– Il mio cuore non è cattivo – ella pensava – e Dio vede il cuore, e giudica più le intenzioni che le azioni. Io ho pensato a tutto, a tutto. Io ho voluto bene a Costantino ed ho pianto finché ho avuto lagrime. Ora non ne ho più; ora io penso che egli non tornerà mai più, o tornerà quando saremo vecchi, e non posso piangere più. Che colpa ne ho io se non posso piangere più, pensando a lui? D’altronde, penso che io sono una creatura di carne e d’ossa, come tutte le altre, che sono povera, soggetta alle tentazioni ed al peccato. E per sfuggire le une e l’altro prendo il posto che Dio mi assegna (ibid., p. 151).
Giovanna può ricorrere al divorzio in modo aproblematico: la fase del corteggiamento di Brontu e il consenso alle nozze, che precedono e inducono la rottura del primo legame, sono riportate nel testo attraverso il punto di vista solo parzialmente informato di Costantino, che è in carcere. Nel romanzo non ci sono segnali di ostracismo sociale nei confronti del divorzio, e chi legge il testo non è in grado di ricostruire i moti dell’animo di Giovanna. Proseguendo nella lettura parallela del romanzo e delle discussioni parlamentari, si può però cercare di rimediare a queste lacune, recuperando la temperie culturale in cui Deledda immagina un divorzio causato dalla lunga carcerazione.
“Vostra moglie è stata da voi rovinata”:
il divorzio per lunga carcerazione
Tutte le proposte di legge contemplavano la causa della lunga carcerazione o della pena capitale come motivo di divorzio. Sin dal 1880, con la seconda proposta di legge di Salvatore Morelli, l’accento era stato posto sul disonore derivante dalla pena. Morelli, infatti, si chiedeva:
come volete che questi rimangano marito e moglie dopo un assassinio che ha fatto condannare lo sposo o la sposa ai lavori forzati a vita? È una cosa impossibile, innaturale, perché rende frustranei gli scopi principali del matrimonio (Atti del Parlamento italiano. Discussioni della Camera dei Deputati. Sessione dal 17/02/1880 al 17/03/1880, p. 567).
Ancora nel 1881 Tommaso Villa osservava: “in tale contingenza [la lunga carcerazione] non è giusto costringere l’altro coniuge onesto ed intemerato, a serbare un legame il quale lo pone nella dura condizione 170di dover dividere il disonore di un misfatto non suo” (Disegno di legge n. 159, 1881, p. 17). La proposta di legge di Villa riduceva a due le cause di divorzio: la separazione personale o la condanna alla lunga carcerazione o all’ergastolo. Entrambe le circostanze, dunque, venivano considerate causa di una rottura insanabile, che il divorzio si sarebbe limitato a ratificare:
Non è lecito al legislatore, nel fine di concorrere alla realizzazione di un ideale, vago ed incerto, di trasandare intanto i bisogni reali della vita, e di sacrificare le giuste esigenze del coniuge onesto che sente la morale necessità di spezzare un legame divenutogli intollerabile e causa di disonore (ibid., p. 19).
Il ministro avvertiva poi la necessità di aggiungere, facendo riferimento alla libera coscienza individuale, “che la condanna del coniuge non rende punto obbligatorio il divorzio, ma lo rende soltanto facoltativo” (ibid.). Ribadire la natura discrezionale del divorzio implicava ragionare sul rapporto tra diritto e autonomia individuale: la presenza di una legge poteva costituire “una forma di liberazione da regole costrittive che, proprio perché poste da entità astratte (la divinità, la morale, la società, la natura), non erano modificabili con un atto della volontà” (Rodotà, 2006, p. 14). Ieri come oggi, la mancanza di una norma specifica non implicava necessariamente un vuoto normativo e, di conseguenza, una sostanziale libertà; anzi, al contrario, proprio l’assenza faceva sì che alcuni aspetti della vita umana fossero regolamentati mediante norme religiose o sociali. A questi ambiti normativi si riferiva Ruggero Bonghi nell’intervento del 1892 in merito alla detenzione come causa di divorzio:
Voi mi dite: la moglie, che ha il marito condannato all’ergastolo rimane colla legge attuale, infelice. Ebbene, a quella donna si può chiedere questo sacrificio enorme che la nobilita e la innalza.
Voci. Oh! oh! (Rumori).
Pantano. Il sacrifizio, che non è volontario, non ha valore.
Muratori. Quel sacrifizio non è volontario!
Bonghi. Quella donna non siete voi, e non potete rispondere! (Ilarità vivissima). E poi: non è volontario il sacrifizio? Diventa volontario il sacrifizio, quando nell’animo di quella donna voi avete confortato il sentimento morale dicendole, nel tempo che le avete fatto contrarre il matrimonio, che da quel matrimonio è legata tutta quanta la vita (Atti del Parlamento italiano. Discussioni della Camera dei Deputati. Sessione dal 19/03/1892 al 15/06/1892, p. 7725, enfasi nell’originale).
171Il dilemma morale di Dopo il divorzio sta proprio nella natura ‘facoltativa’ del divorzio: Giovanna può scegliere (almeno apparentemente, aspetto sul quale sarà necessario tornare) se divorziare e convolare a seconde nozze con Brontu o meno. Da questo punto di vista, è significativo che Deledda rappresenti il corteggiamento attraverso lo sguardo di Costantino, ovverosia del coniuge che, per cause di forza maggiore, è privato della possibilità di scelta. Informato da un funzionario del carcere dell’intenzione di Giovanna, Costantino si affretta a negare il consenso al divorzio, salvo poi scoprire la sua assoluta ininfluenza sul decorso della legge:
– So il mio dovere. Non darò mai il mio consentimento, perché devo fra poco tornare in libertà, e mia moglie si pentirebbe…
Due solchi profondi sollevarono le guancie rosee del signore; un atroce sorriso gli animò gli occhi immobili: poi si fece pensoso.
– Sentite. Il consentimento del condannato viene richiesto solo per formalità. Suo dovere è darlo, e si tiene conto della sua buona intenzione. Ma fa lo stesso, anche se egli non lo dà… (Deledda, 1902, p. 132).
Così Deledda evidenzia la natura ambivalente del divorzio, una “legge infernale” (ibid., p. 114) dal punto di vista di Costantino, ma anche la possibilità di iniziare una nuova vita per Giovanna. Questo tema è al centro del dialogo tra Costantino e il funzionario, il quale non solo legittima la decisione di Giovanna di approfittare della legge sul divorzio, ma la accoglie, si direbbe, come l’unica scelta possibile:
– Voi sapete bene che vostra moglie è stata da voi rovinata. Giovine, bella, innocente, ella dovrebbe trascorrere la sua vita in un lutto continuo, piangendo. Nulla più le sorride nella vita, ed ella non ha commesso mai alcun male. Pazienza quando aveva il figliuolo. Sperava in lui. Ma ora che il bimbo è morto che più le resta? Quando voi tornerete, se Dio vi concederà tale grazia, sarete vecchio, affranto, inabile. Anch’ella sarà tale. Ella quindi vede davanti a sé un terribile avvenire: dolore, vergogna e miseria. […] La legge, però, oramai provvede a questa enorme ingiustizia. Voi sapete bene che c’è il divorzio, il quale rende libera la donna il cui marito ha una certa condanna (ibid., p. 131).
La sofferenza di Giovanna è però posta in relazione con la detenzione di Costantino, descritta da Deledda come esperienza disumanizzante già nell’episodio del viaggio per mare verso il carcere:
172Una notte [Costantino] fu legato ad una catena che lo univa ad un uomo a lui sconosciuto, e venne messo in fila con altri uomini, a due a due, vestiti di tela, taciturni, simili a bestie mansuete, resi tali da una invisibile potenza. Dove andavano? […] Li chiusero in una gabbia. Sempre come bestie (ibid., p. 64).
Il processo di disumanizzazione prosegue durante i sei mesi di isolamento di pragmatica, che trasformano radicalmente i carcerati rispetto agli uomini liberi: “l’uomo che viene tolto dalla società, privato della libertà”, osserva il detenuto Asso di Picche, “nel luogo del castigo s’infracidisce completamente, perde ogni avanzo di senso morale, diventa bugiardo, vile, feroce, corrotto fino all’incoscienza della corruzione” (ibid., pp. 76-77). In questo contesto, oltre alla speranza di una rapida rettifica della sentenza, i contatti con Giovanna sono l’unica forma di resistenza da parte di Costantino:
[Costantino] Non aveva forza di odiare. Sentiva una dolcezza triste nel sangue, come uno che sta per addormentarsi, e da questa dolcezza triste e snervata sorgeva solo un sentimento d’amore, tenero, dolce, vellutato, melanconico come il cielo d’autunno. E quel sentimento era tutto per lei, era lei. Egli pensava sempre a lei, sempre a lei, sempre a lei. Più il tempo passava, più egli sentiva di amarla: essa era la patria lontana, la famiglia, la libertà, la vita: tutto, tutto era in lei; la speranza, la fede, la forza, la serenità, la gioia di vivere. Era l’anima sua (ibid., p. 117).
Quando Giovanna ricorre al divorzio, Costantino è dunque privato non soltanto della moglie, ma di un legame profondo con il mondo esterno: questo lo porta a smarrire la propria identità dopo la scarcerazione. Durante il viaggio di ritorno verso Orlei, infatti, l’uomo ragiona sui cambiamenti generati dalle progressive privazioni subite in carcere, scoprendosi senza patria, senza legami, senza scopo:
Egli [Costantino] camminava invano: non aveva patria, né casa, né famiglia; non sarebbe arrivato mai, mai a nessun posto. […] Con tutto ciò egli non si rattristava pensando direttamente a Giovanna, alla felicità perduta per sempre, alle disgrazie che un ingiusto destino gli aveva mandato; queste tristezze gli avevano già tanto macerato l’anima e il corpo che formavano il fondo stesso del suo essere, tanto che gli pareva di averle dimenticate, come si dimentica la veste che si ha addosso; ma ora lo rattristavano certi ricordi lontani, di cose materiali che aveva lasciato e che non ritroverebbe più (ibid., p. 230).
Letto attraverso l’esperienza di Costantino, e tenendo conto del sincero sentimento che lega i due coniugi, il richiamo di Bonghi all’etica del 173sacrificio assume un valore problematico che Deledda affronta in modo indiretto. Vale tuttavia la pena notare che la retorica del sacrificio, non casualmente espressa solo in relazione alla figura femminile,10 lascia in ombra proprio le difficoltà di ordine sociale ed economico che la moglie di un detenuto poteva dover fronteggiare all’indomani della sentenza. Sebbene non proponga una lettura del divorzio dal punto di vista femminile, in Dopo il divorzio Deledda presuppone tuttavia la debolezza economica e sociale della donna nella società, rendendola motore del romanzo. Per questo la natura discrezionale del divorzio sembra posta drasticamente in dubbio, almeno per quanto concerne il caso specifico. Le possibilità di scelta di Giovanna, infatti, se non nulle, sono comunque ridotte a causa dell’estrema povertà del nucleo composto da lei, dal neonato e da Bachisia. Pur evidenziando il significato identitario che il vincolo matrimoniale ha per Costantino, Deledda tratteggia il personaggio di Giovanna come una vedova, lasciando di fatto intendere la reale inconsistenza del legame. Questi due aspetti sono legati sia alla condizione femminile nell’Italia di primo Novecento, sia al dibattito sul divorzio.
Il motivo principale delle nozze tra Giovanna e Brontu è l’avidità di Bachisia: laddove il primo matrimonio di Giovanna va inteso come “un’affermazione improbabile della legge del desiderio (femminile)” (Heyer-Caput, 2013, p. 4), il secondo affonda le sue radici nel tema della ‘roba’ di memoria verista. Questa lettura è giustificata dalla sostanziale passività di Giovanna di fronte alle “tre forze” che, invece, premono affinché venga stretto il nuovo vincolo: “la passione bruta di Brontu, l’avidità di zia Bachisia, il calcolo di zia Martina” (Deledda, 1902, p. 90). L’incontro tra Bachisia e Brontu nella “tanca” di quest’ultimo viene correttamente interpretato dal personaggio di Giacobbe Dejas come un invito a perseverare; la giovane donna viene dunque utilizzata dalla madre come oggetto di scambio per migliorare il proprio stato economico e sociale:
174– Bachisia Era mercanteggiò sua figlia, credendo di cambiare stato, ed ora muore di fame peggio di prima: Giovanna Era fece quel che fece, credendo di raggiungere il cielo in terra, ed invece si trova come una rana infilzata viva in una pertica (ibid., p. 242).
In diversi passi del testo viene sottolineata l’indigenza delle due donne. Sebbene la loro estrema povertà sia precedente alla condanna di Costantino, tanto da diventare motivo per ritardare le nozze religiose,11 tale situazione si aggrava in seguito all’arresto. Le prime notizie che Costantino riceve riguardano proprio la casa di Bachisia e Giovanna, confiscata dall’avvocato difensore come pagamento delle spese legali. Le due donne non hanno quindi altra fonte di sostentamento che il lavoro saltuario presso i Dejas: l’effettiva necessità economica spiega dunque la cupidigia di Bachisia (Dolfi, 1979, p. 73), favorita anche dalla passività di Giovanna. Le seconde nozze possono, allora, essere intese come una strategia di sopravvivenza, e testimoniano la strutturale debolezza economica delle donne nella società italiana in questo periodo storico. Giovanna giustifica le seconde nozze proprio insistendo sulle difficoltà economiche affrontate dopo l’arresto del marito:
– E andate a farvi benedire, allora, se non comprendete la ragione! Vivere bisogna, sì o no? E quando non si può vivere, quando si è poveri come Giobbe? Quando non si ha lavoro, quando non si ha nulla, nulla, nulla? Ma ditemi voi, zia Porredda, e se in me fosse stata un’altra donna? E se non ci fosse stato il divorzio? Ebbene, che sarebbe accaduto? Il peccato mortale; sì, allora sarebbe accaduto il peccato mortale! (ibid., p. 148).
Da questo punto di vista, il matrimonio si configura non come un’opzione tra tante, ma come un percorso obbligato e la natura ‘facoltativa’ del divorzio viene radicalmente messa in dubbio.
“La moglie di due mariti”:
l’adulterio in Dopo il divorzio
Nel brano appena citato, Deledda propone un gioco di prospettive: Giovanna, che si avvale della legge sul divorzio, riflette su cosa sarebbe accaduto (e, dunque, su cosa accadeva nell’Italia del 1902) se tale legge 175non fosse stata introdotta. Le necessità economiche le avrebbero impedito di vivere da sola e avrebbe dovuto ripiegare sul “peccato mortale” dell’unione more uxorio. Da questo punto di vista è interessante il modo in cui la comunità reagisce al matrimonio di Giovanna. Infatti, la gente di Orlei
finché s’era trattato del divorzio, […] s’era meravigliata, ma non scossa. […] Non avrebbe forse detto più nulla né avrebbe più riso se Brontu e Giovanna si fossero uniti così, in peccato (non sarebbe stato né il primo né l’ultimo caso; e Giovanna poteva scusarsi, data la sua gioventù e la sua povertà), ma sposarsi, una donna che aveva già marito, sposarsi! questo la gente non poteva sopportarlo (Deledda, 1902, p. 159).
Questo atteggiamento suggerisce un certo margine di tolleranza sociale, dettata non solo dalla frequenza delle convivenze more uxorio, ma anche dall’estrema indigenza e dalla giovinezza della donna. La preferenza che la comunità locale assegna all’adulterio rispetto alle seconde nozze si presenta come una forma di delegittimazione popolare dell’operato dei legislatori, che rispecchia quanto avveniva a livello nazionale: “even after the civil code stipulated that marriage before an official of the state was the only legally recognized form, many Italians continued to have a religious ceremony and leave it at that” (Seymour, 2006, p. 20). Il risultato fu la creazione di nuclei familiari illeciti da un punto di vista legale, ma considerati assolutamente legittimi nel contesto comunitario.
Proprio a partire da questa ambigua ricezione delle norme legali da parte della società di riferimento, il doppio matrimonio di Giovanna permette a Deledda di mettere in crisi le nozioni di adulterio e di illegittimità. Per i sostenitori del divorzio, la legge aveva una chiara funzione morale, perché mirava a porre un freno al dilagare di nuclei familiari illegittimi; in questo modo veniva in qualche modo relativizzata la condanna delle relazioni extra-matrimoniali che, in caso di separazione, non potevano essere ricondotte legalmente nell’alveo del nucleo coniugale. Diversa invece la posizione sostenuta da Ruggero Bonghi nel 1892, secondo cui l’adulterio era una forma di devianza, una tara congenita, che faceva perdere al divorzio la sua carica morale. Infatti, avvertiva il deputato: “la donna che col primo marito si è fatta adultera, niente vieta che si faccia adultera col secondo” (Atti del Parlamento italiano. Discussioni della Camera dei Deputati. Sessione dal 19/03/1892 al 15/06/1892, p. 7725). Questo è esattamente il 176paradosso ritratto in Dopo il divorzio, in cui l’abbraccio finale tra Giovanna e Costantino disintegra i parametri di giudizio sull’onestà della donna: entrambi i matrimoni sono validi, l’uno di fronte a Dio e l’altro agli occhi della legge. Come osserva Costantino, tuttavia, proprio a causa di questa sofferta bigamia Giovanna non può che commettere adulterio:
– Se io andassi là, ebbene, che accadrebbe? Un peccato, forse? Non sono io suo marito? Ma io non penso di andarci. […] No. Io non la vorrei più con me, come moglie. Per me ella è una donna perduta: ella è stata con un altro uomo e come è stata con lui può tornare a star con me e può andare a star con altri. Ella è come Mattea: io le sputo entrambe (Deledda, 1902, pp. 257-258).
L’escamotage narrativo del divorzio, pur permettendo a Giovanna di interrompere il legame con il marito detenuto, non legittima le sue seconde nozze. In tal modo Deledda evidenzia la necessità che le leggi, una volta create, siano accettate e condivise dalle comunità in cui vengono applicate (Rodotà, 2006, p. 58). Nel caso specifico, il matrimonio con Brontu viene disconosciuto prima dalla comunità di Orlei e, in un secondo momento, dalla stessa Giovanna, che afferma: “il mio vero marito è Costantino Ledda” (ibid., p. 172).
Nell’episodio conclusivo di Dopo il divorzio, Costantino si avvicina al portico dove si riconcilierà con Giovanna spinto dal “bisogno prepotente del cieco che vuole la luce; la nostalgia del morto che ricorda la vita” (ibid., p. 259). Queste metafore sottolineano “l’ineluttabilità dell’eros sul logos, e dell’inconscio sulla coscienza” (Hayer-Caput, 2013, p. 17) e sono rielaborate anche in Naufraghi in porto (1920) lasciando spazio a “un più profondo intervento del libero arbitrio nella decisione di contravvenire alla norma” (ibid.). In generale, la metafora della morte accompagna la costruzione della figura di Costantino condannato. Se il motivo della catabasi struttura il viaggio da Cagliari a Procida fino al carcere di Napoli (Cannas, 2007, pp. 14-15), la detenzione non rappresenta solo una forma di degradazione sociale, ma anche il risultato della sovrapposizione tra giudizio umano, che condanna Costantino per omicidio, e giudizio divino, che lo condanna per aver ritardato le nozze religiose. La catabasi, in questo senso, si innesta su un concetto di peccato individuale che esclude tanto la redenzione, quanto la reintegrazione sociale.
La morte simbolica di Costantino può però essere letta anche alla luce della rappresentazione del dibattito sul divorzio, in cui la separazione è 177simboleggiata attraverso la metafora della morte in vita. In Dopo il divorzio, nessuno dei due coniugi ha un ruolo attivo nella scissione del vincolo coniugale; è la condanna dell’uomo a imporre una frattura insanabile del nucleo e a rendere impossibile attendere agli obblighi matrimoniali, come lo stesso Costantino, suo malgrado, non può che rilevare:
Costantino non pensava neppure che era ben crudele scrivergli in quel modo: egli voleva la verità, fosse pur triste, e gli sembrava che dividere i dolori di Giovanna e spasimare per la disperazione di non poterla soccorrere, fosse uno dei suoi doveri. Dovere sterile, ahimè, egli lo sentiva, e ciò aumentava il suo dolore (Deledda, 1902, p. 103).
Ancora una volta, Deledda gioca con i punti di vista: gli episodi che precedono il processo di Costantino sono filtrati dallo sguardo di Giovanna, che vive tutto in funzione della famiglia: “in fondo […] credeva Costantino colpevole, ma da molto tempo lo aveva perdonato; davanti al suo dolore non esisteva che la condanna e non sapeva capacitarsi come semplici uomini potessero così disporre della vita d’un loro simile” (ibid., p. 40). Non stupisce dunque l’atmosfera luttuosa che caratterizza l’inizio del romanzo, e che culmina in una sentenza che assume il significato di un omicidio rituale:
La vista le si ottenebrò, con uno sforzo disperato di volontà guardò Costantino e vide, o le parve di vedere, il viso di lui grigio e invecchiato, e gli occhi di lui velati e smarriti nel vuoto. Ah, egli non la guardava; non la guardava più neppure! Era già diviso da lei per l’eternità. Era morto, essendo ancor vivo. E l’avevano ucciso quegli uomini grossi e pacifici che stavano ancora lì indifferenti, in attesa di un’altra vittima (ibid., pp. 35-36).
Il parallelismo tra la condanna e la morte simbolica di Costantino prosegue con la descrizione del ritorno delle donne a Nuoro e l’incontro con i compaesani nella casa a Orlei: l’episodio ricorda alcuni dei riti funebri descritti da Deledda in Tradizioni popolari di Nuoro (1895), in cui centrale risulta il pianto femminile. Giovanna, già descritta come una prefica,12 “sebbene si sentisse stanca anche di piangere, credé suo dovere singultare e strillare disperatamente” (Deledda, 1902, p. 47). 178La donna acquista sempre più lo status di vedova, come dimostra il racconto della sua segregazione in casa “perché la disgrazia accadutale imponeva un certo duolo”, e della sua sofferenza, “una specie di atonia che le impediva di muoversi, di uscire, di lavorare, di pregare” (ibid., p. 59). Infine, proprio il matrimonio con Brontu, nozze che, “puramente civili, dovevano farsi con gran segretezza, peggio che nozze di vedova” (ibid., p. 136), torna a ribadire la morte simbolica di Costantino.
La rappresentazione di Giovanna come ‘vedova di un vivo’ la pone sullo stesso piano di altre figure femminili già incontrate. Anche in questo caso, la legge interviene – o dovrebbe intervenire – per porre fine a un rapporto matrimoniale che, da un lato, arreca svantaggi ad almeno uno dei coniugi, e dall’altro, è percepito come già ufficiosamente concluso. Rispetto ad altre narrazioni, tuttavia, la conclusione del rapporto è determinata non da cause interne, ma da motivazioni esterne alla coppia. Il legame emotivo tra i coniugi, nonostante il forzato allontanamento, permane inalterato, pur scontrandosi con le necessità concrete della vita che spingono Giovanna a sposare Brontu. Il finale aperto che tanto spiaceva a de Michelis non scioglie il nodo problematico del romanzo, che rimane aperto all’interpretazione, e dialoga tanto con la legge, intesa come strumento di autonomia del singolo, quanto con la morale religiosa.
Sub specie Sardiniae
La legge tra centro e margini
Lo scontro tra la dimensione civile, e potenzialmente scindibile, del matrimonio, introdotta dal codice Pisanelli, e quella sacramentaria e indissolubile è stato una delle ragioni del ritardo dell’emanazione della legge. In Dopo il divorzio il dilemma morale va di pari passi con un conflitto religioso radicato nell’intimità dei personaggi. Tale conflitto può essere letto alla luce di quello che è considerato motivo narrativo ricorrente dell’opera di Deledda: la dicotomia tra struttura sociale arcaica e novità provenienti dal ‘continente’ (Spinazzola, 1979, p. 7). 179La violazione della legge, da intendersi nel suo senso ampio di uso e convenzione, deriva da un mutamento di stato e di condizione morale del personaggio. Inoltre,
le lacerazioni interiori di cui l’individuo soffre al venir meno dei rapporti di coesione tra genitori e figli, tra coniugi, tra amanti, acquistano più dolorosa evidenza dal particolare sfondo ambientale: una terra, la Sardegna, in cui il retaggio morale degli avi è saldamente insediato nelle coscienze, assumendo sostanza di tabù religioso (ibid.).
Il modo in cui Deledda affronta lo scontro tra Stato e Chiesa sul tema del matrimonio deve essere contestualizzato considerando anche il rapporto fra la Sardegna e l’Italia recentemente unita. A mo’ di preambolo, andranno ricordati i contatti tra l’autrice e gli esponenti della Scuola Positiva:13 in particolare, Heyer-Caput (2008), nel ricostruire la vicenda editoriale del romanzo La via del male (1896), si è soffermata sul rapporto tra l’autrice e i due criminologi Paolo Orano (1852-1909) e Alfredo Niceforo (1876-1960), cui è dedicata la prima edizione del romanzo: “Undoubtedly, it was this aspect of Orano’s and Niceforo’s studies, the social protest against the unified government and the call for active participation of the Sardinian people, that impressed young Deledda” (ibid., p. 24). La politica di centralizzazione attuata dallo Stato italiano era criticata con forza dai due antropologi, che attribuivano “a questo ugual trattamento usato dal governo verso tutte le provincie italiane, che sono tanto dissimili tra loro per carattere, per ambienti, per condizioni economiche e morali, l’aumento della criminalità: l’Italia infatti è una ma non è unificata” (Niceforo, 1897, p. 200). L’antropologo ragionava sulle ambigue conseguenze della centralizzazione del sistema giudiziario in Sardegna. Da un lato enumerava i danni dell’applicazione di leggi che non tenevano conto delle specificità del territorio: l’inasprimento di illegalismi già presenti, come il banditismo, l’esacerbarsi di disuguaglianze sociali e il diffondersi di un profondo scontento popolare. Dall’altro osservava, però, che “the unified judicial system sanctioned the participation of marginalized sociological entities of southern and insular Italy in the high culture of national institutions” (Heyer-Caput, 2008, p. 79).
180Tali aspetti sono sviluppati in Dopo il divorzio su due piani: emergono in primo luogo negli episodi del processo e della prigionia di Costantino, che evidenziano la distanza incolmabile tra amministratori della giustizia e abitanti autoctoni (Cannas, 2007, p. 12); inoltre, attraverso l’espediente letterario del divorzio, Deledda interpreta l’opera di legislazione come un innesto potenzialmente problematico di nuove regole in un contesto già definito da un punto di vista sociale e normativo. Questo secondo piano di lettura è perfettamente in linea con le riflessioni di Alfredo Niceforo: gli organi centrali dell’Italia unita, anche nel proporre un diverso disciplinamento del matrimonio, non avevano considerato a sufficienza le diverse realtà regionali.
Durante il dibattito sul divorzio, la nuova legge era spesso giudicata inconciliabile non soltanto con i costumi italiani, ma con l’indole stessa del popolo. Questa incompatibilità era utilizzata, tra l’altro, per spiegare lo scarso interesse dimostrato dall’opinione pubblica. Si trattava di una questione già affrontata nel corso dei lavori di allestimento del codice Pisanelli che, introducendo il matrimonio civile, aveva operato una rottura radicale con i codici preunitari, nei quali interagivano diritto civile e diritto canonico (Franceschi, 2012, pp. 2-3; Sciarra, 2016, pp. 2-6). Nel Regno di Sardegna, ad esempio, fin dal 1848 il codice Albertino regolava da un punto di vista civile il matrimonio, che era però considerato appannaggio esclusivo della Chiesa, come da codifica tridentina. Soprattutto le aree più rurali e periferiche erano state refrattarie alle innovazioni introdotte dal codice Pisanelli.
Inoltre, la tipologia familiare rappresentata nell’opera di Deledda non prevede soluzioni accostabili al modello del nucleo coniugale intimo, ma ripropone le logiche tradizionali della famiglia patriarcale. I criteri che sottostanno alle unioni matrimoniali nei romanzi deleddiani non tengono conto, se non parzialmente, della volontà dei futuri partner; i matrimoni hanno piuttosto finalità strategiche, sono volti a consolidare alleanze tra famiglie, e a mantenere o rafforzare un potere economico e sociale. Si tratta di strutture familiari socialmente chiuse, regolate secondo uno stretto principio di endogamia di classe. Se diversi romanzi di Deledda affrontano il tema dello sgretolamento di questo sistema familiare – si pensi a Elias Portolu (1903), a Canne al vento (1913) o a L’incendio nell’oliveto (1918) –, è però proprio nel retroterra della famiglia patriarcale che Deledda colloca la legge sul divorzio nel 1902. I due 181poli contrapposti dell’innovazione italiana e della tradizione sarda sono incarnati dalle figure dell’avvocato Paolo e di sua madre Porredda, che discutono, in apertura della seconda parte di Dopo il divorzio, sul secondo matrimonio di Giovanna:
– […] D’altronde, che cosa è il matrimonio? È un vincolo fatto dagli uomini e che conta soltanto davanti agli uomini. Il matrimonio religioso è nullo…
– È un sacramento! – gridò disperata zia Porredda.
– … È nullo – proseguiva Paolo – come, del resto, un giorno sarà nullo anche il matrimonio civile. L’uomo e la donna devono unirsi spontaneamente, dividersi quando non vanno d’accordo. L’uomo…
– Ah, tu sei un animale! – gridò zia Porredda, sebbene non fosse quella la prima volta che suo figlio parlasse così. – È il finimondo, questo (Deledda, 1902, p. 146).
All’inizio del romanzo Deledda evidenzia l’estraneità di Paolo, ancora studente, rispetto alla sua cultura di origine. Come per l’Elias Portolu del romanzo omonimo, anche nel caso di Paolo la descrizione fisica è finalizzata a rimarcare lo scarto psicologico ed etico che esiste tra il personaggio e la famiglia di provenienza. Deledda si sofferma, per esempio, sul biancore della pelle e sulle mani, “larghe e bianche dalle unghie lunghissime” (Deledda, 1902, p. 18). Paolo stesso sottolinea la propria estraneità, commentando il fatto che Giovanna e Bachisia alloggino nella camera degli ospiti: “veramente volevo starci io lassù: qui si soffoca. Qual migliore forestiero di me?” (ibid., p. 22). Al contrario di quanto accade in Elias Portolu, in cui il protagonista, tornato in Barbagia dopo un periodo in carcere, si innamora e seduce la sposa di suo fratello Pietro, Maddalena, però, Paolo non viola la norma costituita, ma è solo latore delle innovazioni apportate nella società e nella politica sul ‘continente’:
– Ecco, – egli [Paolo] disse; – del resto ora è approvata la legge sul divorzio: ogni donna che ha il marito condannato può tornar libera.
Giovanna non parve neppure capire quelle parole, e continuò a scuoter la testa fra le mani; zia Porredda disse convinta:
– Sì, un corno! Neppure Dio può disfare un matrimonio!
Zio Efes Maria osservò, un po’ beffardo:
– Già! L’ho letto sul giornale. Questo divorzio ora! Lo faranno in continente, dove, del resto, uomini e donne si maritano molte volte, senza bisogno di prete e di sindaco; ma qui, oibò!… (ibid., p. 21).
182Fin dalla sua prima occorrenza, il divorzio viene quindi identificato come un elemento estraneo al territorio sardo. Il commento finale di Efes Maria segna la distanza tra realtà locale e peninsulare: le novità introdotte dal centro raggiungono sotto forma di eco – attraverso le pagine scritte o il racconto degli emigrati – i territori periferici, nei quali non sembrano poter attecchire. La realtà italiana subisce poi un ulteriore allontanamento attraverso il commento di Grazia, cugina di Paolo: “– No, babbo Porru, non è in continente, è in Turchia” (ibid.). Queste parole trasferiscono le dinamiche matrimoniali italiane in un contesto di profonda alterità culturale: il matrimonio turco, con i suoi significati impliciti di poligamia e irreligiosità, diviene correlativo oggettivo della degenerazione del matrimonio cattolico causata dal divorzio. Non sarà dunque un caso che Efes Maria, parlando di uomini e donne che si sposano più volte senza l’intervento di alcuna autorità istituzionale, alluda alla pratica del ‘libero amore’, che si inserisce nello stesso orizzonte di significato del rapporto poligamico non occidentale. Il ‘libero amore’ è nuovamente ricordato da Paolo in apertura della seconda sezione del romanzo. In entrambi i casi, il riferimento è certamente da ricondurre all’ideologia socialista, per la quale la questione del divorzio era di fatto materia secondaria, perché collegata a un’impostazione borghese della società da rivedere per intero. Lo stesso Berenini, nell’introdurre la sua proposta di legge, affermava: “quando il proletario sarà giunto alla sua redenzione, la fase divorzista sarà oltrepassata, e altre forme di vita sociale avranno dato alla famiglia più stabile fondamento e meglio garentite [sic] condizioni di vita morale” (Atti del Parlamento italiano. Discussioni della Camera dei Deputati. Sessione dal 07/03/1901 al 30/03/1901, p. 6476). Anche Paolo “dicevasi socialista” (Deledda, 1902, p. 14): le sue osservazioni in merito al divorzio fanno dunque capo a uno stravolgimento sociale che ha un raggio di azione ben più ampio dell’istituto matrimoniale.
Su questo tema Paolo si pone come anello di congiunzione tra le riforme che hanno luogo nello Stato italiano e la realtà arcaica di provenienza. Il futuro avvocato prevede, sulla base di quanto visto e sentito in ‘continente’, gli sviluppi della vicenda di Giovanna, di cui spera di poter essere esecutore, come confida alla madre:
– Sentite. Non passeranno due anni che quella giovine riprenderà marito.
– Cosa dici, dottor Pededdu? – gridò la donna, che quando s’arrabbiava chiamava suo figlio col soprannome. – In verità mia, tu sei matto.
183– Oh, mamma, io ho attraversato il mare! – disse egli. – Speriamo almeno che mi scelga per suo avvocato! (ibid., p. 29).
Proprio in virtù di questo suo background, Paolo è il personaggio deputato a giustificare ideologicamente il divorzio. È all’avvocato, infatti, che Giovanna si rivolge per spiegare la perfetta legittimità delle sue seconde nozze con Brontu:
– Io non ho marito, zia Porredda mia: domandatelo a vostro figlio.
– Io non ho figlio: quello è figlio del diavolo! – disse la donna, arrabbiata.
Ah, quasi quasi pareva che Giovanna desse la responsabilità dei suoi atti a Paolo, perché questo aveva patrocinato la causa del divorzio! (ibid., p. 144).
La colpa di Paolo è quella di aver importato nel sistema normativo sardo, e quindi di aver applicato attraverso il suo ascendente e le sue competenze di avvocato, una legge d’oltremare. Giovanna, che gode degli effetti della legge, non ne condivide il retroterra culturale, ossia la netta distinzione tra aspetti laici e religiosi del matrimonio, idea non supportata in Sardegna, né tantomeno dalla morale di Giovanna, che ribadisce in ultima istanza la superiorità del sacramento sul legame civile:
– […] Ecco, il segretario comunale dice che io sono la vera moglie di Brontu, ma a me sembra di vivere con lui in peccato mortale. Ricordate [Bachisia] come ci siamo sposati? Di nascosto, al buio senza un cane, senza dolci, senza niente. Giacobbe Dejas, che egli sia strozzato, rideva e diceva: “ora viene il bello”. Ed il bello è venuto (ibid., p. 171).
Se Porredda rappresenta chi riconosce esclusivamente il valore religioso del matrimonio, rifiutandone gli aspetti civili, il sindaco di Orlei dimostra invece il ruolo giocato dai funzionari statali nel delegittimare, a livello locale, una norma emanata da istituti centrali:
Il sindaco, anche il sindaco, un pastore che rassomigliava a Napoleone I, pallido e fiero, era contrario a quel matrimonio del diavolo; e quando Giovanna e Brontu andarono in gran segretezza a richieder le pubblicazioni, egli li trattò con freddo disprezzo, sputando per terra ogni due secondi (ibid., p. 158).
Il sindaco reagisce al sovvertimento dell’ordine operato da Brontu e Giovanna attingendo al repertorio scaramantico del folklore: lo sputo non esprime necessariamente disgusto o disprezzo, ma rappresenta uno degli atti scaramantici contro il malocchio. Questo recupero delle credenze popolari, 184su cui varrà la pena tornare, denota una distanza insanabile tra comunità regionale e istituzioni. Deledda tematizza il rapporto asimmetrico tra centro e periferia nella gestione del corpus legislativo, spostando sul piano narrativo le conclusioni cui giunge Niceforo in La delinquenza in Sardegna. Deledda opera un vero e proprio rovesciamento semantico della prospettiva adottata in ambito parlamentare, come testimonia l’episodio del battesimo della figlia di Giovanna e Brontu. In questa circostanza, il prete Elias Portolu non segue la prassi usuale, che prevedeva di riaccompagnare la neonata battezzata a casa insieme al corteo, perché “nel paese usavasi far ciò solo quando i genitori del battezzando erano uniti anche dal vincolo religioso” (ibid., p. 201). L’assenza del sacerdote comporta un declassamento dello status della bambina a causa del vincolo dei genitori: “la gente s’affacciava per vedere il corteo, e molti visi, specialmente le donne, sorridevano con malignità, non vedendo il prete. Puh! Pareva un battesimo da bastardo” (ibid., pp. 202-203). La bambina è, agli occhi del paese, un’illegittima: questa equiparazione ribalta specularmente il dettato statale, che invece, considerava naturali i figli nati fuori dal vincolo civile, a prescindere dall’esistenza o meno di quello religioso. Deledda evidenzia così i differenti criteri di giudizio del centro legislatore e della realtà regionale sottoposta alla norma.
Mores sardi e divorzio
Deledda offre in Dopo il divorzio una rappresentazione complessa del rapporto tra leggi centralizzate e sistemi di valori culturali periferici. L’effetto è quello di evidenziare “l’irriducibile coesistenza di interpretazioni difformi del mondo e del sapere, interpretazioni non semplicemente divergenti, ma che rimandano a matrici di giudizio incompatibili” (Locatelli, 2004, p. xi, enfasi nell’originale). Nel quadro dell’inconciliabilità tra divorzio e religione, la religiosità della Sardegna si discosta da quella ‘continentale’ perché è caratterizzata da elementi arcaici e improntata su un substrato tradizionale e magico (Wagner, 2008, p. 18). Le leggi del Decalogo sono le principali, se non le uniche, norme della società di Orlei, che interpreta la realtà attraverso una religiosità arcaica. Non a caso gli esponenti dell’autorità, religiosa come laica, reagiscono in modo simile alle seconde nozze di Giovanna, percepite come un delitto che, originato dalla volontà del singolo, avrà effetti calamitosi sull’intera comunità: “È il finimondo, questo. Ah, Dio è stanco, ed ha ragione. Egli ci castiga e farà venire il diluvio: già, ho sentito dire che c’è il 185terremoto” (Deledda, 1902, p. 146). Il sindaco, come abbiamo visto, nell’assolvere ai suoi doveri attraverso le pubblicazioni di matrimonio, si affretta a prendere precauzioni contro il malocchio; i rappresentanti religiosi, come Padre Elias, si oppongono nettamente alle nozze e assumono tratti sciamanici. Le stesse Sacre Scritture si caricano di poteri esoterici (Cannas, 2007, p. 14), come testimonia il dialogo tra Isidoro Pane e Giacobbe Dejas sull’imminente matrimonio:
– Ho inteso. Che possiamo fare [per evitare le nozze]? Abbiamo fatto tutto ciò che potevamo fare. Abbiamo gridato, pregato, minacciato. Si è intromesso il Sindaco, il segretario, prete Elias.
– Bello quel prete Elias! Che ha fatto lui? Ha predicato, ma con lo zucchero. Egli, egli doveva minacciare: doveva dire: io prenderò i libri santi e vi maledirò, vi scomunicherò; voi non vi sazierete mai di acqua, né di pane, né d’altra cosa; voi vivrete l’inferno in vita (Deledda, 1902, pp. 160-161).
La maledizione che padre Elias avrebbe dovuto pronunciare si impernia sulle azioni del mangiare e del bere, che nelle Sacre Scritture sono topoi dalla forte carica simbolica. Il pane e l’acqua rappresentano una risposta non soltanto a necessità fisiologiche, ma a un bisogno di natura spirituale che può essere soddisfatto solo dall’ascolto della Parola di Dio. La possibilità di saziarsi è quindi preclusa a chi, come Giovanna, si allontana dai precetti religiosi. In questa simbologia rientrano anche i caratteri di condivisione e socialità che accompagnano gli atti del mangiare e del bere: in questo senso la maledizione invocata Isidoro Pane e Giacobbe Dejas allontana la donna da una comunità che è tanto quella di Orlei, quanto quella universale dei fedeli. Infatti, dopo le seconde nozze, Giovanna smette di frequentare le funzioni religiose perché “ora, si vergognava di andare in chiesa” (ibid., p. 173). La sua vita matrimoniale è caratterizzata da uno stato di insoddisfazione fisica, espressa proprio con riferimento agli ambiti del bere e mangiare: Giovanna deperiva visibilmente, “si sentiva stanca, aveva fame ma non di vivande, aveva sete ma non d’acqua, provava un bisogno fisico inesprimibile di qualche cosa introvabile” (ibid., p. 166).
È in questo immaginario dalla forte carica simbolica che il romanzo acquista la struttura più frequentemente utilizzata da Deledda: la sequenza peccato-colpa-redenzione. Tale tipologia narrativa ha carattere duplice e ambiguo: duplice perché la circolarità di Dopo il divorzio e i rimandi intratestuali che lo caratterizzano invitano a leggere la prigionia di Costantino e gli esiti del matrimonio tra Giovanna e Brontu come due forme di 186espiazione per uno stesso delitto; ambiguo, invece, perché “sul piano narratologico, la ripetizione dell’identica espressione, con significato di volta in volta diverso, evidenzia l’insaturabilità co(n)testuale, ossia il gioco della significazione, che è più ampio dei singoli significati, e può sovvertirne il senso” (Locatelli, 2004, p. xxv). Esempio di questo procedimento è il ricorso al sintagma “peccato mortale” che va a definire sia le azioni di Costantino, sia quelle di Giovanna. “La ricorrenza dell’espressione ‘peccato mortale’ costituisce un […] esempio del reimpiego di un identico lessema, funzionale all’espressione di una conflittualità fenomenologica e morale” (ibid., p. xxiv, enfasi nell’originale). In entrambi i casi, il sintagma designa non solo un delitto contro il Decalogo – la celebrazione esclusivamente civile del matrimonio o le nuove nozze –, ma anche azioni contro la legge istituzionale che non si sono compiute: l’omicidio e l’adulterio. Su questa polisemia si inserisce l’ambiguità della sequenza peccato-colpa-redenzione, afferente alle due dimensioni della giustizia umana e di quella divina; i due piani si sovrappongono nell’episodio del processo di Costantino e nella descrizione del modo in cui l’uomo vive la sua prigionia:
[Costantino] era convinto di espiare il “peccato mortale”, come egli lo chiamava, di aver vissuto a lungo con una donna senza sposarla religiosamente. Sentiva sempre in fondo al cuore la certezza che un giorno o l’altro, finita l’espiazione del peccato, risulterebbe la sua innocenza e verrebbe liberato (Deledda, 1902, p. 69).
Causa, durata e modalità della pena slittano dal piano civile a quello religioso; così anche la grazia, invocata in diversi luoghi del testo dal personaggio del Re di picche, un carcerato con cui Costantino stringe amicizia, assume lo stesso valore del perdono divino. Come Costantino, anche Giovanna si muove in un ambiente claustrofobico, la casa dei Dejas, da cui non può uscire. Il ruolo del carceriere è ricoperto dalla suocera Martina, che assume nei confronti della nuora funzioni di controllo. Anche nel caso di Giovanna è possibile rilevare una polisemia, tra universo mondano e religioso, nella definizione di ‘pena’, polisemia particolarmente evidente nella fase della gravidanza:
– Finitela! – gridò Giovanna con spasimo: e raccontò [alla madre] come non aveva trovato nulla da soddisfare la sua indicibile brama.
– Abbi pazienza: è causa del tuo stato: anche se tu trovassi le cose più buone del mondo ed i liquori che beve il re non ti sentiresti soddisfatta (ibid., p. 168).
187Il primo livello di significato che si può attribuire alle parole di Bachisia lega il senso fisico di inappagamento di Giovanna alla sintomatologia della gravidanza. Esiste però anche un livello ulteriore, che fa riferimento all’allontanamento della donna dai precetti del Decalogo: è questo il “peccato mortale” che le impedisce di soddisfare un bisogno che non è fisico ma spirituale. Questa ambiguità influenza anche il modo in cui Giovanna percepisce la nascita della figlia di Brontu e i suoi significati luttuosi.14 L’avvenimento rende infatti simbolicamente indissolubile un legame matrimoniale sentito come degradante: “– Almeno non avessi fatto dei figli! Essi mi legheranno a questa pietra che mi trascina e mi schiaccia!” (ibid., p. 172).
L’abbraccio finale tra Giovanna e Costantino, allora, ricompone questa ambiguità: la liberazione dell’uomo e il perdono implicito della donna concludono la penitenza dei coniugi e ripristinano un legame ‘in grazia di Dio’.
1 Sulla vita e le opere di Grazia Deledda mi limito a citare i due più recenti volumi di Ciusa, 2016 e Dedola, 2016. Per degli studi critici sull’opera di Deledda rimando, senza pretesa di completezza, a Dolfi, 1979, Comune di Nuoro, 1974, Collu, 1992a e 1992b, Manotta, 2010. Si vedano inoltre le raccolte di saggi curate da Sharon Wood (2007) e Monica Farnetti (2010).
2 La traduzione inglese del romanzo, ad opera di Maria Hornor Lansdale, era stata pubblicata dalla casa editrice Henry Holt & Co. a New York con il titolo After the Divorce: A Romance.
3 Ben altro spazio meriterebbe un raffronto tra Dopo il divorzio e Naufraghi in porto e una riflessione su come la rielaborazione del testo incida sul tema del divorzio che, nel 1920, era ritornato all’ordine del giorno dopo la proposta di legge del deputato socialista Guido Marangoni. Su questo punto cfr. Heyer-Caput, 2013; in proposito non risulta invece affidabile l’analisi di Locatelli, 2004, p. xxviii che, erroneamente, considera l’Epilogo parte integrante di Naufraghi in porto (il testo sarà aggiunto al romanzo nel 1979 per volere del curatore Vittorio Spinazzola).
4 Nello stesso errore incorre anche Susanna Paulis (2006, pp. 305-306), nel breve paragrafo intitolato ‘Crisi della famiglia e del mondo tradizionale in Dopo il divorzio’.
5 Oggi si può tuttavia registrare un’inversione di marcia: il romanzo ha goduto di due nuove edizioni, una nel 2004 per La Biblioteca dell’Unione Sarda con una ricca prefazione di Carla Locatelli, e un’altra nel 2016 per Illisso con un’introduzione di Renato Marvaso.
6 Sul punto sono utili l’analisi particolareggiata di Sotgiu, 1974 e gli studi di Wagner, 2008 e 2011.
7 Sullo stesso tema cfr. Fogarizzu, 2015.
8 Seymour (2006, pp. 146-148) e Heyer-Caput (2013, pp. 6-12) approfondiscono la corrispondenza tra la proposta di legge socialista e Dopo il divorzio, che viene posto in relazione con Avanti il divorzio di Anna Franchi. In merito ai rapporti esistenti tra i due romanzi, Lucilla Gigli (2001, p. 98, n. 60) osserva che, per quanto riguarda il testo di Franchi, “è evidente proprio nel titolo il riferimento al romanzo di Grazia Deledda Dopo il divorzio uscito pochi mesi prima”.
9 “Non vi ricorderò quei famosi versi latini che riassumono quella lunga serie di cause di nullità, per le quali si giudica che il vincolo matrimoniale non sia mai esistito, anche dopo anni ed anni di pacifica convivenza e la procreazione di molti figli. Ma vi sono, fra queste cause, di quelle che sciolgono anche il vincolo matrimoniale che sia stato validamente contratto. Non vi parlerò perciò né della Cultus disparitas, né di quelle miniere veramente inesauribili di nullità che sono la Conditio e l’Error; che cade qualche volta non solo sulle qualità fisiche delle persone, ma che sulle qualità morali” (Atti del Parlamento italiano. Discussioni della Camera dei Deputati. Sessione dal 19/03/1892 al 15/06/1892, p. 7721).
10 Proprio Deledda nella novella “La moglie” (nella raccolta Chiaroscuro) ribalta i ruoli di genere, narrando il rientro in paese di una donna incarcerata per aver ucciso l’amante del marito. Si rilegga la conclusione della novella: “– E così mi presi venti anni di reclusione. Adesso ritorno. Ho passato il mare, ho veduto tante cose. Mi misero in libertà a Nuoro, e mio marito venne col carro per ricondurmi al paese. Dopo tutto io sono sempre sua moglie: e la moglie è legata al marito, alle viscere del marito, come il bambino prima di nascere è legato alla madre. Non è vero, Simone? Ma l’uomo andava, andava, taciturno e prudente, e la serva sventata disse: – Mi pare che il condannato sia lui!” (Deledda, [1912] 1964, p. 900).
11 Cfr. le parole di Bachisia: “Allora Costantino venne da me e disse: – io sono povero, non ho denari per comprare i gioielli alla sposa e per fare la festa e il banchetto delle nozze cristiane, e anche voi siete povere: ebbene, facciamo così, sposiamoci soltanto civilmente, per ora; lavoreremo insieme, accumuleremo la somma necessaria per la festa e ci sposeremo con Dio. – Siccome molti usano far così, lo facemmo anche noi” (Deledda, 1902, p. 19).
12 “Giovanna riabbassò la fronte, e riprese a piangere un pianto calmo, accorato, che spezzava il cuore. – Costantino mio, Costantino mio, – diceva con nenia, come cantano le prefiche davanti ad un morto, – tu sei morto per me, io non ti riavrò mai più, mai più. Quei cani rabbiosi ti hanno preso e legato, e non ti lasceranno più andar via. E la nostra casa resterà deserta, e il letto sarà freddo, e la famiglia andrà dispersa. Bene mio, agnello mio, tu sei morto per il mondo, così siano morti coloro che ti hanno legato!” (ibid., p. 10).
13 Sulla presenza degli esponenti della Scuola Positiva in Sardegna si rinvia a Gentili, 1992; sui loro rapporti con Deledda cfr. Angioni, 1992a e Fuller, 2000.
14 “In inverno Giovanna diede alla luce una bambina rachitica, livida, che piangeva sempre” (Deledda, 1902, p. 198); e, più avanti, dopo la descrizione del battesimo: “Giovanna, sebbene non aspettasse il sacerdote, si fece ancor più esangue quando il corteo invase la camera; e baciò tristemente la bambinuccia violacea, sembrandole che funerei augurii gravassero sulla povera creaturina” (ibid., p. 203).
- Thème CLIL : 4027 -- SCIENCES HUMAINES ET SOCIALES, LETTRES -- Lettres et Sciences du langage -- Lettres -- Etudes littéraires générales et thématiques
- ISBN : 978-2-406-10976-1
- EAN : 9782406109761
- ISSN : 2497-4846
- DOI : 10.15122/isbn.978-2-406-10976-1.p.0159
- Éditeur : Classiques Garnier
- Mise en ligne : 09/02/2021
- Langue : Italien