Fatta l’Italia, bisogna rifare il matrimonio?
- Type de publication : Chapitre d’ouvrage
- Ouvrage : Finché legge non vi separi. Il divorzio nella narrativa d’autrice tra Otto e Novecento
- Pages : 23 à 57
- Collection : Women and Gender in Italy (1500-1900)/Donne e gender in Italia (1500-1900), n° 2
Fatta l’Italia,
bisogna rifare il matrimonio?
La ricontrattazione del matrimonio
in età postunitaria
Nella storia dell’Occidente il matrimonio è stato oggetto di continue forme di contrattazione e ridefinizione, adattandosi alle realtà storiche e giuridiche, e influenzando sia i rapporti tra gli individui all’interno della coppia, sia la costruzione e la definizione dei generi sessuali nella società. Uno dei punti di svolta dell’idea di matrimonio in età moderna coincide con l’emanazione del codice napoleonico, che influenzò anche i codici italiani preunitari: il vincolo matrimoniale, slegato dalla sfera religioso-sacramentale, fu secolarizzato, e venne formulata una prima legislazione in materia di divorzio. Queste trasformazioni comportarono una diversa percezione sociale del matrimonio: in particolare, la possibilità di divorziare introdusse un’immagine meno asimmetrica della relazione di coppia, e permise di limitare l’ingerenza da parte delle famiglie di origine nella scelta dei partner.1 È in questo momento storico che si affermò il modello familiare borghese del nucleo coniugale intimo, all’interno della quale si innescarono dinamiche di genere inedite rispetto a quelle della famiglia d’Ancien régime. La nuova sensibilità verso la sfera familiare come luogo degli affetti e del benessere ebbe conseguenze importanti nella definizione dei ruoli femminili, e 24furono di conseguenza valorizzate esperienze come la maternità e la cura dell’infanzia.
In Italia la pratica matrimoniale fu sottoposta al controllo ecclesiastico fino al 1865; solo dopo l’Unità, con l’emanazione del codice Pisanelli, il matrimonio fu secolarizzato, ossia il sacramento religioso fu subordinato al vincolo civile. A differenza dall’esperienza francese, tuttavia, in Italia l’istituzionalizzazione del matrimonio civile non fu corredata da una legge sul divorzio; anzi, il codice Pisanelli attinse direttamente dal diritto canonico nello stabilire che “il matrimonio non si scioglie che colla morte di uno dei coniugi; è ammessa però la loro separazione personale” (Codice Pisanelli, art. 148). L’indissolubilità fu dunque denominatore comune tra matrimonio religioso, per la natura sacramentale dell’istituto, e matrimonio civile, per la volontà politica dello Stato di non acuire il già esacerbato contrasto con la Chiesa. Certo è che durante il Risorgimento si venne a creare una stretta corrispondenza tra nazione e famiglia, considerata quale nucleo generativo dello Stato di recente formazione (Porciani, 2006; Banti, 2011). La decisione di mantenere inalterata l’indissolubilità del vincolo coniugale, quindi, rifletteva almeno in parte la volontà di proteggere ideologicamente la stabilità dell’Italia. La forza prescrittiva dell’unione tra matrimonio, integrità morale, patriottismo e cittadinanza colpiva a livello ideologico entrambi i sessi ma, così come ratificata dal codice civile, contribuiva a confermare un’insanabile disparità tra i ruoli di genere all’interno del nucleo familiare, a svantaggio delle donne (Palazzi, 1997, pp. 94-112).
La divisione del nucleo poteva infatti essere richiesta da entrambi i coniugi per ragioni come condanne penali, abbandono volontario, o ingiurie, sevizie e minacce; vi erano tuttavia delle differenze per quanto concerneva l’adulterio: mentre il marito poteva separarsi dalla moglie infedele, il codice civile non ammetteva il caso contrario (Codice Pisanelli, art. 150). Inoltre, la separazione annullava l’obbligo di coabitazione degli sposi, ma non aveva alcun effetto sugli altri obblighi matrimoniali: per tale ragione essa non costituiva un’alternativa valida al divorzio e radicalizzava una condizione di forte squilibrio tra i coniugi, condizione peraltro già in nuce nel matrimonio postunitario.
Tra gli obblighi coniugali mantenuti dopo la separazione c’era, appunto, quello alla fedeltà: un limite non trascurabile in un’epoca che considerava l’adulterio penalmente punibile, sebbene differente fosse il 25modo in cui l’adulterio entrava nel codice penale. Una moglie adultera era infatti penalmente perseguibile per qualunque intercorso sessuale avvenuto durante il matrimonio, mentre un marito era perseguibile solo se l’adulterio era noto e duraturo nel tempo (Pazé, 2013, p. 33). In caso di separazione le pene erano mitigate, ma non annullate: il che significa che la donna, anche se separata, poteva ancora facilmente essere querelata per adulterio dal marito. Rimaneva inoltre inalterato l’istituto dell’autorizzazione maritale, regolato dall’articolo 134 del codice Pisanelli, e presente nel diritto italiano fino all’emanazione della legge Sacchi nel luglio del 1919.2 Prima di questa data, come recita il codice, “la moglie non p[oteva] donare, alienare beni immobili, sottoporli ad ipoteca, contrarre mutui, cedere o riscuotere capitali, costituirsi sicurtà, né transigere o stare in giudizio relativamente a tali atti, senza l’autorizzazione del marito” (art. 134). Anche dopo la separazione, la moglie doveva dunque ottenere il consenso del marito per disporre del patrimonio, anche personale. Tali forme di controllo economico avevano delle pesanti conseguenze, sia a livello finanziario, sia a livello di indipendenza. Infine, il marito manteneva la patria potestà sui figli e sulle figlie a prescindere dall’esito dell’affidamento, con conseguenti ingerenze indirette sulla vita della moglie.
Tra le cause della lunghissima gestazione della legge sul divorzio vi fu anche il legame con alcune questioni aperte nell’Italia unita, a partire dal rapporto tra Stato e Chiesa: contestare l’indissolubilità matrimoniale significava infatti acutizzare un conflitto innescato proprio dalla laicizzazione del matrimonio. Quest’ultima aveva ridotto l’autorità ecclesiastica in ambito coniugale e modificato il significato effettivo e simbolico del vincolo stesso. Da questo punto di vista, il divorzio offre una specola privilegiata per osservare le dinamiche di contrattazione del potere messe in atto tra istituzioni laiche e religiose agli albori dell’Unità italiana (Seymour, 2006, p. 3). Il tema era però anche al centro di un dibattito relativo al rapporto tra il centro istituzionale dello Stato e i cittadini e le cittadine: nel contesto dell’Italia unita non era facile contemperare la libertà del singolo con il bene comune, soprattutto tenendo conto del fatto che i codici preunitari erano molto distanti tra loro. Oltre alla difformità dei codici preunitari, un altro fattore di disgregazione era poi 26rappresentato dalla presenza sul territorio italiano di micro-comunità, come quelle ebraiche e protestanti, i cui ordinamenti contemplavano la possibilità del divorzio.3
Gli antidivorzisti operavano (o pensavano di operare) in difesa della famiglia, intesa come cellula prima e fondante della comunità da un punto di vista religioso come patriottico-nazionale. Questa rappresentazione risorgimentale e postunitaria della famiglia si reggeva anche su una precisa definizione delle dinamiche di genere, che ebbe importanti conseguenze nel modo in cui uomini e donne interpretarono la possibilità di divorziare.
Le donne contribuirono su diversi piani a ‘fare l’Italia’:4 alcune, come Cristina Trivulzio di Belgiojoso (1808-1871), parteciparono attivamente ai moti patriottici; altre, come Clara Maffei (1814-1886), diedero vita a luoghi di incontro politici e intellettuali; altre ancora, come Caterina Franceschi Ferrucci (1803-1887), si fecero poetesse della nuova nazione. In modi diversi, quindi, le donne si erano proiettate in una dimensione pubblica e politica, rivendicando e affermando, di fatto, il loro diritto di cittadinanza nella nuova nazione. Tuttavia, una volta unita l’Italia, il ruolo delle donne fu codificato assegnando loro un ruolo centrale sì, ma radicato principalmente nella sfera familiare e domestica, di cui erano gli angeli e le custodi. In quest’ottica va letta l’enfasi posta sulla figura materna, sulla quale ricadeva l’onere di creare una nuova idea di nazione: “middle class women, in particular, were exhorted to devote their energies, in the first instance, to the task of bringing up their children in a ‘proper’ and moral manner” (Fanning, 2013, p. 14).
La cultura della maternità si faceva inoltre punto di sutura tra lo Stato e la Chiesa: “ci si sarebbe aspettata anche un’accorta politica di ‘nazionalizzazione’ della madre, l’unico prototipo femminile allora simbolicamente potente […], [ma] la borghesia al governo delega le madri alle docili virtù del cattolicesimo” (Bravo, 1997, p. 150). Inoltre, non solo il Risorgimento tentò di creare nuovi ruoli sociali, politici e 27culturali per le donne e gli uomini della nuova Italia, ma al contempo fece qualcosa di molto più radicale e importante nel cercare di ridefinire “not only what women and men do, but also what they are” (Re, 2001, p. 171, enfasi nell’originale). Parte integrante del progetto di creazione della nuova realtà politica era proprio “[t]he production of an ‘idea’ of femininity and masculinity, the construction of a cultural notion of what is natural and proper to women and to men” (ibid., p. 172).
La differenza fisiologica tra uomini e donne fu letta come una differenza di valore, anche grazie al supporto di studi pseudoscientifici, e fu interpretata in senso gerarchico, con conseguenti effetti sulla definizione giuridica delle donne. La “femminilizzazione della società” postunitaria – cioè la maggiore visibilità acquisita da donne intellettuali, produttrici e consumatrici di cultura, lavoratrici e, soprattutto, dal nuovo movimento emancipazionista – turbò questo equilibrio:
Un ordine millenario pareva minacciato dalla femminilizzazione della società, il cui speculare corrispettivo era la mascolinizzazione delle donne. Mentre invadevano la sfera pubblica – esclusivo territorio maschile – femminilizzandola, le donne perdevano la loro femminilità (giacché smettevano i panni della modestia, dell’ubbidienza, del sacrificio, e fuoriuscivano dalle buie stanze domestiche che da sempre erano loro proprie) e così facendo causavano una catastrofe […] doppia: un cataclisma simbolico, perché spalancavano le porte alla confusione e all’indistinzione, e dunque alla degenerazione; un’apocalisse materiale, perché allontanandosi fatalmente dalla propria silenziosa missione materna mettevano in grave pericolo la stessa riproduzione dell’umanità in quanto specie (Bellassai, 2012, p. 46).
La presunta minaccia all’ordine costituito rappresentata dall’emergere di un inedito protagonismo femminile giocò inevitabilmente un ruolo di rilievo anche nel dibattito parlamentare e culturale sul divorzio.
28Le discussioni in Parlamento (1878-1902)
Le proposte di legge
di Salvatore Morelli (1878-1880)
La prima proposta di legge in materia di divorzio nell’Italia postunitaria fu presentata in Parlamento dal deputato della Sinistra Salvatore Morelli (1824-1880) il 25 maggio 1878. Nella sua carriera politica Morelli aveva promosso “in modo tanto costante quanto sprovveduto una serie di disegni di legge” (Pieroni Bortolotti, 1963, p. 39) per il miglioramento della condizione delle donne, e aveva avviato un proficuo sodalizio intellettuale con Anna Maria Mozzoni.5 Queste iniziative riguardavano la differenza sociale tra i sessi, frutto “dell’oppressione maschile”, secondo Morelli, il quale riteneva “che per un effettivo progresso sociale [fosse] indispensabile giungere alla piena parità ed uguaglianza da ogni punto di vista” (Valsecchi, 2004, p. 135). Tra il 1874 e il 1875 il deputato si era già espresso sul divorzio proponendo, senza nessun effetto, di riformulare l’articolo 148 del codice Pisanelli, che disciplinava appunto l’indissolubilità matrimoniale. Ben più complessa è la proposta di legge del 1878, in cui “gli aspetti libertari, di tutela dell’individuo e in specie della donna”, passano in secondo piano “rispetto ad altri che vedono nel divorzio il minore dei mali e il più morale dei rimedi in presenza di gravi ragioni di frattura in seno alla famiglia” (ibid., p. 164). Le precedenti campagne sulla condizione femminile non furono però del tutto lasciate da parte e fu anzi con il loro ricordo che Morelli iniziò la sua relazione:
Venti anni addietro la mia modesta persona proclamava un principio, quello della redenzione morale, intellettuale e civile della donna. In quel primo momento la mia voce fu voce nel deserto, tanto che le stesse donne ne ridevano (Atti del Parlamento italiano. Discussioni della Camera dei Deputati. Sessione dal 13/05/1878 al 17/06/1878, p. 1099).
29Nel discorso viene dunque ribadito il legame, più volte evidenziato da Morelli, tra condizione sociale e giuridica femminile e lo sviluppo e il progresso dello Stato. Morelli si scagliava contro:
la società corrotta, la quale tenendo a vile la donna, credeva ridicolo e derideva chiunque proponeva la soluzione di questioni che miravano a perfezionarne l’essere, per fare di lei la leva potente del progresso intellettuale, morale e civile della moderna società (ibid.).
In questo discorso la donna non entrava come soggetto autonomo, ma in virtù del ruolo che svolgeva all’interno dell’istituto familiare: la sua istruzione e la sua condizione sociale dovevano essere promosse affinché potesse svolgere al meglio il compito fondamentale a lei affidato, quello cioè di generare ed educare i futuri cittadini. Morelli ribadiva quindi il legame organico tra donne e istituto familiare, allineandosi al discorso risorgimentale.
In un simile contesto, il divorzio non era visto come un simbolo di individualismo, ma veniva giudicato, paradossalmente, come il “guardiano della famiglia” (ibid., p. 1102). Questo assunto si basava sull’osservazione delle situazioni di illegittimità che, potenzialmente, potevano derivare dal regime di indissolubilità matrimoniale:
Poi, se gli sposi sono giovani [al momento della separazione] il marito si abbandonerà liberamente a tutta la lussuria, mentre la moglie bene educata sarà martire. Quando ciò non sia si creano a lato di questo matrimonio, messo in attenzione di destino, due altre famiglie da cui nascono figli senza nome e senza stato, i quali perché generati dall’adulterio, che è un delitto, sfuggono ad ogni possibilità di legittimazione. Questi esseri sventurati poi, crescono senza speranza e con l’ira nel cuore, odiano la società che li abbandona, e non li educa come tutti gli altri figli dell’uomo! (ibid., p. 1103).
La lacuna legislativa del divorzio, stando a Morelli, generava dunque una temibile reazione a catena: i coniugi separati non potevano fare altro che dare vita a nuclei familiari necessariamente illegittimi, dai quali sarebbe nata una prole adulterina e mai riconoscibile agli occhi dello Stato. Andando al cuore di una questione fondamentale nell’Italia postunitaria, Morelli segnalava che questi futuri cittadini avrebbero interiorizzato non solo un’impostazione deviante del nucleo familiare, ma anche forme di rancore verso lo Stato che avrebbero poi rischiato di minarne le stesse basi. Morelli proponeva quindi di concedere il divorzio soltanto alle seguenti condizioni:
30Il matrimonio potrà essere sciolto quando non esistono figli o discendenti nei seguenti casi:
1° Per impotenza sopravvenuta ed insanabile;
2° Per infedeltà di uno dei coniugi, o prostituzione della moglie accertate da un giudicato;
3° Per tentativo di consorticidio;6
4° Per condanna ai lavori forzati a vita;
5° Per prodigalità estrema;
6° Per incompatibilità di carattere constatata da contrasti e disordini abituali nella famiglia, che ne rendano impossibile la convivenza (ibid., p. 990).
Le stesse condizioni, ad esclusione di quelle relative all’impotenza e all’incompatibilità caratteriale, valevano anche per i nuclei familiari con figli. Nei soli casi di condanna ad una pena infamante, prodigalità estrema e incompatibilità di carattere era previsto un passaggio intermedio tra la separazione e il divorzio: l’intervento riconciliatore del presidente del tribunale chiamato a ratificare la divisione tra i coniugi. Qualora non fosse avvenuta alcuna riconciliazione, il divorzio avrebbe avuto luogo un semestre dopo la domanda di separazione. Infine, solo per la moglie neo-divorziata valeva il divieto di contrarre un nuovo matrimonio prima di 300 giorni dalla data del divorzio dal primo marito.
Le cause previste da Morelli per concedere il divorzio indicano il desiderio di preservare un nucleo familiare solido e fertile, e possono essere divise in due categorie. I primi tre commi dell’articolo citato rappresentavano altrettante cause di dissidio insanabile tra gli sposi, per le quali non era previsto il tentativo di riconciliazione del tribunale: tentato uxoricidio, impotenza e adulterio, seppure in modo differente, impedivano infatti al nucleo familiare di perseguire i suoi fini ultimi, 31ossia l’armonia interna, la fecondità e la garanzia della legittimità della prole. Un segno dell’attenzione di Morelli alle dinamiche di genere interne al matrimonio è rappresentato dalla proposta di equiparare l’adulterio maschile e femminile, entrambi considerati cause potenziali di divorzio. Gli ultimi tre commi, invece, indicavano cause considerate passibili di contrattazione e soggette a un ‘periodo di prova’ prima che la scissione diventasse definitiva; tuttavia, “although Morelli’s proposal did not use this phrase, the provision for incompatibility of character would have lent itself to divorce by mutual consent” (Seymour, 2006, p. 39).
Una simile definizione delle cause di divorzio era coerente con la presentazione di quest’ultimo come garanzia di stabilità e legittimità dell’istituto familiare. Secondo Morelli, inoltre, il divorzio non era solo “l’usbergo del pudore” e “il guardiano della famiglia”, ma era anche “il mezzo con cui i coniugi sentono l’istessa ansia in cui si trovavano prima di sposarsi” (Atti del Parlamento italiano. Discussioni della Camera dei Deputati. Sessione dal 13/05/1878 al 17/06/1878, p. 1102). Infatti, oltre a limitare situazioni familiari anomale, lo ‘spettro’ del divorzio – la concreta possibilità di perdere definitivamente il partner – rappresentava uno stimolo ad autoregolamentare i comportamenti all’interno del nucleo coniugale:
Quando voi ammettete il divorzio che cosa avviene? Che la donna timida, paurosa di perdere lo stato matrimoniale che è confacente alla sua mite natura, quand’anche possa avere dei capricci li reprime e dice: no, questo mi farebbe perdere la mia posizione, io diventerei nemica di mio marito, egli mi abbandonerebbe per sempre.
Lo stesso dicasi dell’uomo.
Un uomo che ami una donna, quando può temere di perdere quest’angelo del suo cuore, dice: no, non voglio dare occasione (Ilarità) al divorzio (ibid., enfasi nell’originale).
Il divorzio non solo avrebbe avuto effetti benefici sui matrimoni falliti, ma avrebbe offerto un modo per prevenire le disarmonie coniugali. Si intuiva dunque il potenziale destabilizzante dello scioglimento legale che, se concesso indiscriminatamente a entrambi i coniugi, avrebbe riequilibrato le asimmetrie fino ad allora esistenti all’interno delle coppie. Tale effetto non veniva tuttavia messo in relazione con la posizione di inferiorità delle mogli rispetto ai coniugi in termini di accesso alle risorse: la paura di “perdere lo stato matrimoniale” di cui parla Morelli 32era determinata non tanto dalla “mite natura” delle donne, quanto dall’incertezza (economica e sociale) che avrebbe prodotto il divorzio.
In effetti, uno dei punti taciuti dalla proposta di legge di Morelli, così come da quelle che seguiranno, riguarda proprio il destino delle donne divorziate, per le quali si prevedeva, tutt’al più, un rientro in quella che veniva considerata la norma mediante un secondo matrimonio. Non discostandosi da un modello di femminilità incentrato sulle due figure canoniche della sposa e della madre, Morelli e altri politici dopo di lui trascurarono la condizione di inferiorità politica ed economica delle donne nella società postunitaria.
Questa proposta di legge non provocò nell’immediato alcuna forte reazione nell’opinione pubblica. Nei due anni immediatamente successivi, però, la questione del divorzio ebbe modo di balzare agli onori della cronaca in diverse occasioni: nel 1879, infatti, Giuseppe Garibaldi chiese e ottenne l’annullamento del proprio matrimonio con la Marchesina Giuseppina, mentre nel 1880 il Vaticano annullò il matrimonio tra il Principe di Monaco, Alberto I, e Lady Mary Victoria Douglas-Hamilton; nello stesso anno, inoltre, il dibattito in materia si inasprì in Francia, dopo la pubblicazione a puntate su Le Figaro de La Question du divorce di Alexandre Dumas figlio.
L’allora pontefice Leone XIII (1810-1903) reagì a questi eventi con l’enciclica Arcanum divinae, datata 10 febbraio 1880. Ritornando sul rapporto con lo Stato, il Papa criticava la separazione dei poteri recentemente istituita e ribadiva con forza il diritto di ingerenza della Chiesa in materia matrimoniale stabilito dal Concilio di Trento. La riaffermazione della natura sacramentale e indissolubile del matrimonio andava di pari passo con la condanna del divorzio quale pericolo per l’intera comunità:
I matrimoni poi contribuiscono assai alla salvezza delle famiglie, giacché essi, finché saranno conformi alla natura e risponderanno pienamente ai consigli di Dio, potranno senza dubbio rafforzare la concordia degli animi fra i genitori, garantire la retta educazione dei figli, moderare la patria potestà sull’esempio della potestà divina, rendere obbedienti i figli ai genitori, i servi ai padroni. Da tali connubi poi le comunità possono ragionevolmente aspettarsi una stirpe ed una successione di cittadini che siano ottimamente animati e che, assuefatti all’ossequio e all’amore verso Dio, reputino stretto dovere prestare obbedienza a coloro che giustamente e legittimamente esercitano il comando, portare a tutti benevolenza, non recare offesa ad alcuno (Arcanum divinae, 1880, p. 6).
33Inoltre, in pieno e prevedibile contrasto con le tesi pro-divorzio, Leone XIII riteneva che la scissione del matrimonio non solo avrebbe comportato un minore affiatamento tra i coniugi, ma avrebbe sensibilmente aumentato le discordie familiari. A farne le spese maggiori, ancora una volta, sarebbero stati gli elementi più deboli: la prole e le donne, “le quali, dopo aver servito alla libidine degli uomini, corrono il rischio di rimanere abbandonate” (ibid., p. 7).
Undici giorni dopo l’enciclica, in data 21 febbraio, Salvatore Morelli presentò una seconda proposta di legge, che fu discussa in Parlamento l’8 marzo.7 Il testo prendeva le mosse proprio dalle riflessioni del Papa, per poi criticarne aspramente l’intromissione in ambito politico: le ragioni dell’ingerenza della Chiesa erano giudicate di natura prettamente economica, come dimostrava l’esempio del recente annullamento del matrimonio del Principe di Monaco.
Ancora una volta, i temi della condizione delle donne e dell’educazione femminile venivano affrontati nell’esordio del discorso. Già due anni prima Morelli aveva affermato di considerare l’istruzione non solo un diritto delle donne, ma una loro necessità, poiché indispensabile per svolgere al meglio quella che veniva presentata come una loro missione: educare la prole. Nel 1880, attribuiva all’ignoranza materna le cause del degrado sociale che interessava l’Italia a lui contemporanea, assecondando così la linea di pensiero che assegnava alle madri il ruolo di promuovere i valori etici mediante un’educazione patriottica e religiosa dei figli (Sanson, 2013, pp. 48-49). Così, infatti, si esprimeva Morelli:
Per trarci da queste anormalità [le degenerazioni sociali] bisogn[a] cangiare l’indirizzo dell’educazione della donna, da cui dipende la fiacca o robusta generazione, il buono o cattivo allevamento dei figliuoli, la spinta per far camminare l’uomo o sulla via della virtù o su quella del vizio (Atti del Parlamento italiano. Discussioni della Camera dei Deputati. Sessione dal 17/02/1880 al 17/03/1880, p. 567).
Un secondo effetto dell’istruzione delle donne sarebbe stato quello di limitare l’influenza dei precetti religiosi sulla mentalità femminile, 34influenza utilizzata dalla Chiesa, secondo Morelli, come strumento per riaffermare e rafforzare il proprio potere; solo servendosi dell’azione pedagogica delle madri sarebbe stato possibile porre un freno all’ingerenza ecclesiastica:
In un momento di transizione, come è questo, era facile comprendere che per sostituire al credere il conoscere dovea affidarsi la dottrina civile alla madre di famiglia e divulgando il sapere si arrivava per via di lei ad acquistare quel dominio intellettuale e morale sulle generazioni, che il vecchio potere del medio evo aveva sì lungamente esercitato (Bene! a sinistra) (ibid., enfasi nell’originale).
Le battaglie relative all’istruzione femminile, intesa quale modo per garantire il buon andamento dello Stato e la sua laicizzazione, andavano dunque di pari passo con quelle riguardanti il divorzio, di cui si ribadiva, anche in questa seconda proposta di legge, la carica morale.
Morelli riproponeva le tesi già espresse nel 1878 in merito all’effetto benefico di una legge sul divorzio sull’andamento delle relazioni tra i coniugi, opponendosi dunque con fermezza alle posizioni di Leone XIII. Riguardo agli effetti sulle donne sposate, Morelli osservava:
Il divorzio crea un certo salutare panico nell’animo e specialmente in quello della donna, la quale vede nel matrimonio la sua condizione normale; epperò pel timore di essere abbandonata dal marito la moglie fa il suo dovere meglio quando c’è il divorzio, che quando non c’è (ibid., p. 572).
Si può dunque registrare un mutamento di prospettiva nel discorso di Morelli: nella precedente proposta di legge, il divorzio era descritto come uno stimolo all’autoregolazione del comportamento per entrambi i coniugi, che avrebbero dunque acquisito un pari potere; in questo caso, invece, il divorzio diveniva uno strumento di potere a disposizione esclusiva del marito, ed assumeva così proprio i connotati più temuti dalle italiane. D’altronde, continuava Morelli:
la donna […] crede (e vi è chiamata dalla natura a crederlo), che il suo stato normale sia quello del matrimonio; quindi tiene a che questo matrimonio sia per lei una unione affettuosa, dolce, lontana dalle amarezze. E poiché le amarezze sogliono nascere da dissesti fra lei ed il marito, quando c’è la paura che il marito possa allontanarsi da lei, dividersi da lei legalmente, oh! allora, signori, si guarderà bene a non dare alcun passo che possa arrecargli dispiaceri (ibid., p. 574).
35Il differente effetto che il divorzio poteva avere sul marito e sulla moglie è spiegato, almeno in parte, in base a ragioni di ordine naturale e fisiologico: la condizione di svantaggio della moglie è dunque astratta dal contesto sociale ed economico postunitario e ricondotta alla ‘naturalità’ delle dinamiche coniugali.
Durante la discussione della proposta di legge del 1880, Morelli gettava però uno sguardo critico sul disciplinamento del matrimonio attuato dal codice Pisanelli, soffermandosi sulla ripartizione del potere economico e gestionale tra i coniugi. Il codice civile delegava tutte le scelte rilevanti in questo ambito al marito, considerato il ‘capo della famiglia’. Tale concessione, secondo Morelli, avveniva a prescindere dalle sue effettive competenze e attitudini, basandosi sulla presunzione secondo la quale “l’uomo [ha] una capacità superiore a quella della donna sempre, e […] de[ve] essere egli il condottiero della famiglia, e de[ve] essere egli colui che deve farla prosperare” (ibid., p. 573). È questo un elemento di novità che testimonia di un diverso approccio alle strutture della famiglia, rivolto a garantire un maggiore equilibrio tra i poteri dei coniugi. Morelli si soffermava brevemente anche sugli effetti di tale disparità, ricordando l’alta percentuale di suicidi delle mogli tra i sintomi di una “una condizione inferiore a quella dell’uomo, […] più intollerabile di quella del medesimo” (ibid., p. 574).
Grazie all’appoggio del Ministro di Grazia e Giustizia Tommaso Villa (1832-1915), la seconda proposta di Morelli fu più attentamente considerata dall’opinione pubblica. La discussione parlamentare ebbe infatti largo spazio sulla stampa, che tuttavia dette maggior risonanza al discorso del guardasigilli, riprodotto integralmente. Villa aveva appoggiato caldamente la proposta di legge, ponendo tuttavia in evidenza la natura eccezionale che avrebbe avuto la legge sul divorzio, da applicare solo con estrema attenzione e in base a ragioni specifiche, qualora approvata. Villa accennava inoltre a una ricerca in corso in Italia, finalizzata a mappare e quantificare le richieste di separazione, e a saggiare le risoluzioni prese dai tribunali in merito sia alla coppia sia alla prole:
Io ho dato ordini perché noi possiamo avere fra breve una storia documentata e precisa delle vicende della società coniugale in Italia dal 1866, dall’anno cioè in cui ebbe vigore il nostro Codice civile, fino al giorno d’oggi. […] È la storia del matrimonio quella che io voglio tracciarvi in tutte le dolorose vicende che ne offendono il carattere e ne disturbano la pace. Sarà uno specchio 36fedele dei nostri costumi, delle nostre tendenze, delle avversità, delle colpe che offendono la quiete del domestico asilo. Quando noi avremo questo specchio dinanzi agli occhi, allora, onorevole Morelli, potremo procedere non soltanto colla scorta delle massime e dei principii che ella ha accennato, e che sono sacrosanti, ma potremo procedere coll’applicazione dei fatti precisi alla vita civile nel nostro paese, e potremo trarre da questi argomenti validissimi per il sostegno d’una legge che io credo di assoluta necessità (ibid., p. 578).
Il Ministro di Grazia e Giustizia, quindi, stava preparando il terreno per dimostrare l’effettiva necessità della riforma proposta da Morelli. La quale, tuttavia, non andò a buon fine: in questo caso fu la morte del suo promotore, avvenuta nell’ottobre del 1880, a impedirne il decorso.
La prima proposta di legge
di Tommaso Villa (1881)
L’interessamento di Villa alla questione del divorzio si concretizzò in un disegno di legge fondato proprio sulle capillari indagini statistiche di cui aveva reso conto nell’appoggiare la proposta di Morelli. Queste ultime non furono condotte soltanto sul territorio italiano, ma presero in considerazione anche altri paesi in cui era in vigore una legge sul divorzio. I risultati delle inchieste formarono una parte consistente del faldone di novantanove pagine sottoposto da Villa all’attenzione del Parlamento il 1° febbraio 1881. La complessità dei dati e delle informazioni a sostegno della necessità di introdurre il divorzio, così come la maggiore articolazione della proposta di legge, composta di ventidue articoli, erano due vistose novità rispetto ai precedenti tentativi di Morelli. Fu anche per tale ragione che questa prima proposta di Villa venne percepita come più temibile delle precedenti e provocò un’intensa mobilitazione da parte delle forze cattoliche attraverso raccolte di firme e petizioni.8
37Le circostanze in cui era permesso il divorzio rimasero poi inalterate nelle successive proposte legislative di Villa e vennero riprese anche da Giuseppe Zanardelli. Il divorzio poteva essere concesso:
1° nel caso in cui uno dei coniugi sia incorso in una condanna alla pena capitale od ai lavori forzati a vita, e, per la Toscana, all’ergastolo;
2° nel caso di separazione personale a termini di legge, dopo 5 anni se vi sono figli, e dopo 3 anni se non ve ne sono, a datare dal giorno in cui la sentenza che pronunciò od omologò la detta separazione sia passata in cosa giudicata (Disegno di legge n. 159, 1881, p. 25).
Per la scissione del nucleo familiare, Villa prevedeva un meccanismo articolato in due fasi: dapprima la formazione e riunione di un ‘consiglio di famiglia’ per riconciliare la coppia; e successivamente la discussione della causa di divorzio presso il tribunale. Questa procedura complessa aveva lo scopo di rallentare e solennizzare l’iter da percorrere per sciogliere il matrimonio: “pare evidente il tentativo di prevenire, in questo modo, le forti obiezioni che ogni progetto divorzista incontrava, in ordine alle potenzialità socialmente eversive che la troppo facile rottura del vincolo coniugale avrebbe recato con sé” (Valsecchi, 2004, p. 257). Non per nulla, il ministro proponeva un modello non di ‘indissolubilità assoluta’, ma di ‘indissolubilità relativa’, che avrebbe reso il divorzio un rimedio estremo a situazioni che rendevano impossibile il perseguimento dei fini precipui del matrimonio.
Un punto di grande interesse della relazione di Villa è l’esaustività con cui era trattata la situazione delle donne separate. In particolare, veniva chiesto retoricamente se “havvi situazione più anormale, più infelice di quella di una donna giovane ancora [che] sia stata costretta dopo pochi anni di matrimonio a rientrare nella propria famiglia o a vivere sola in mezzo ai pericoli dell’isolamento” (Disegno di legge n. 159, 1881, p. 12). Stando ai dati raccolti dall’inchiesta ministeriale, le donne separate potevano scegliere soltanto tra isolamento o adulterio. In proposito Villa stigmatizzava la penalizzazione asimmetrica dell’infedeltà del marito e della moglie, osservando che “poiché il domicilio coniugale più non esiste, egli è libero di vivere nella propria casa con una concubina 38senza che la moglie abbia il diritto di tenersene offesa” (ibid.). Tale squilibrio era reso ancora più evidente dal fatto che solo al marito fosse consentito il diritto di vigilare sulla condotta sessuale della moglie ed eventualmente denunciarla.
L’altra possibilità a disposizione delle mogli separate, quella dell’isolamento, aveva due ricadute dirette: da un lato, evidentemente, implicava la solitudine della donna, privata di “un marito che la guidi, che la difenda: che assuma dinnanzi alla società la responsabilità della sua esistenza” (ibid.); dall’altro, rischiava di condurre all’emarginazione sociale:
anche se virtuosa, la società non tien conto della sua virtù. Essa non le risparmia né i sospetti, né le insinuazioni. Ogni di lei atto più indifferente è giudicato con ingiusta diffidenza; e mentre ogni più delicato segreto della sua esistenza è brutalmente scrutato dalla indiscreta curiosità degli amici, le sono per altra parte negate quelle sociali consuetudini nelle quali potrebbe forse trovare qualche conforto (ibid.).
Al marito era naturalmente riservata ben altra sorte, poiché il suo comportamento era soggetto in minor misura al controllo e alla censura sociale.
Lo studio del disagio femminile derivante dall’inscindibilità del matrimonio conduceva il ministro a identificare diverse concause: la legislazione vigente, nelle sue asimmetrie di genere così come nelle sue lacune, e il doppio codice morale che sottostava alla valutazione dei comportamenti maschili e femminili. Villa segnalava inoltre l’ostracismo sociale cui le donne separate erano sottoposte a prescindere dalla loro condotta sessuale, considerata semmai un’aggravante: oggetto principale della condanna era dunque proprio l’allontanamento dall’alveo matrimoniale.
Lo studio di Villa circa le donne separate è uno dei pochi casi in cui la condizione delle donne viene tematizzata con sistematicità e completezza in seno al dibattito parlamentare sul divorzio. Tuttavia, l’unico risvolto positivo per le italiane fu il riconoscimento della possibilità di contrarre un secondo matrimonio. In questo senso, anche Villa accettava una visione del nucleo familiare come luogo per eccellenza della femminilità, e interpretava le problematiche delle donne separate unicamente in funzione della perdita dello status di moglie.
39La prima proposta
di Giuseppe Zanardelli (1883)
La fine della XIV legislatura e i lunghi tempi di discussione del comitato preposto alla valutazione del disegno di legge di Tommaso Villa, che non raggiunse mai lo stadio della discussione parlamentare, ne decretarono il definitivo fallimento. Già il 10 aprile 1883, però, sotto il governo di Agostino Depretis (1813-1887), il ministro guardasigilli Giuseppe Zanardelli (1826-1903) propose un nuovo progetto di legge, riprendendo esplicitamente le linee guida tracciate da Villa e, anzi, ampliando leggermente la casistica in cui sarebbe stato possibile ottenere il divorzio. La proposta fu presa in considerazione e su di essa si espresse in Parlamento la Commissione, con portavoce Domenico Giuriati (1829-1904), il 23 giugno 1884. La relazione del deputato, lunga e articolata, enfatizzava la natura moralizzatrice del divorzio, sia nel macrocontesto del rapporto tra istituto familiare e nazione, sia nel microcontesto dei singoli nuclei. Giuriati si soffermò in primo luogo sugli elementi di continuità tra la proposta di legge di Zanardelli e quelle precedenti di Morelli e Villa, discutendo della storicità dell’istituto matrimoniale, delle ragioni in favore dell’introduzione del divorzio e delle deficienze delle coeve pratiche di separazione.
Tra le novità spiccano due elementi che Mark Seymour (2006, pp. 99-102) riconduce alla temperie culturale degli anni Ottanta dell’Ottocento. Il primo è il fatto che Giuriati argomentò la sua relazione ricorrendo agli studi antropologici e sociologici del tempo, che corroboravano i dati statistici massicciamente utilizzati nel documento: questo procedimento dimostra il tentativo di avviare una regolamentazione della famiglia su basi scientifiche e razionali. Un secondo aspetto inedito è la relativizzazione culturale dei temi del matrimonio e del divorzio: “ciò che presso un popolo è uno stretto dovere viene tuttodì proibito come una mala azione da un altro popolo vicino” (Documento n. 87-A, p. 1). L’apertura alle realtà europea e americana era funzionale non soltanto a favorire un confronto tra contesti legislativi ‘moderni’ e ‘progressivi’ e il modello passatista italiano, ma anche a sottolineare che:
nell’ultimo ventennio il principio del divorzio si andò mano mano ampliando, rinforzando, diffondendo. Ormai, meno l’Italia con la Spagna e il Portogallo, tutti gli altri stati d’Europa e di America possiedono quest’istituto. […] Qui 40lo si ricorda perché, combinandolo con le agevolate e moltiplicate relazioni fra cittadini e stranieri nonché con l’ordinamento progressivo delle buone regole del diritto internazionale, quel fatto esercita, per dire così, una forza di attrazione a cui chi si trova in condizione d’isolamento tenta indarno resistere. Si è veduta la moglie soggiacente al regime della indissolubilità, ottenere in Germania la cittadinanza e la liberazione dal primo matrimonio. […] Non mancano esempi di matrimoni fra italiani che all’estero trovarono le porte della legalità aperte per agguantare uno scioglimento (ibid., p. 6).
Esistevano quindi motivi di ordine pratico che rendevano impellente l’allineamento tra la legislazione italiana e quelle estere: “povere leggi quelle che cadono in dissuetudine, povere ancora più quelle che si possono facilmente e giuridicamente frodare!” (ibid.). Evidenziando l’urgenza che l’Italia non rimanesse l’ultimo baluardo, peraltro facilmente aggirabile, dell’indissolubilità matrimoniale su suolo europeo, e che fossero ascoltate le voci di quegli “uomini di scienza i quali intuiscono ogni vero giuridico, e sono campioni anche di questo come di ogni civile progresso” (ibid., p. 33), Giuriati benediceva la proposta di Zanardelli. Tuttavia, le difficoltà economiche degli anni immediatamente successivi, esasperate dalla guerra delle tariffe con la Francia, insieme alla svolta autoritaria del governo Crispi, misero la questione del divorzio in secondo piano.
Nel settembre 1890 l’avvocato massone Camillo De Benedetti fondò a Roma il Comitato centrale per la propugnazione del divorzio, supportato dalle logge massoniche con la formazione di sottocomitati satelliti deputati all’organizzazione di conferenze e dibattiti pubblici. Abbiamo indicazioni sicure sulla composizione di questi comitati solo per quello della città di Vicenza, formato da soli maschi, in tutto una cinquantina, “appartenenti nella stragrande maggioranza dei casi alla borghesia delle professioni, per i quali la lotta, espressione del libero pensiero, era soprattutto un’occasione di polemica contro i cattolici che controllavano l’amministrazione locale” (Montaldo, 2000, p. 16).
Il progetto di riportare il tema del divorzio al centro dell’interesse dell’opinione pubblica, per modernizzare e laicizzare la famiglia italiana, venne ulteriormente perseguito attraverso la fondazione, nel novembre del 1890, della rivista romana Il divorzio. Rivista critica della famiglia italiana. La rivista, diretta dallo stesso De Benedetti, fu pubblicata in modo discontinuo e vi parteciparono personaggi chiave del dibattito pro-divorzio: oltre a Villa e Zanardelli, anche gli antropologi Paolo 41Mantegazza (1831-1910) e Cesare Lombroso (1835-1909), e il politico francese Alfred Naquet (1834-1916). La pubblicazione, oggi irreperibile,9 riportava stralci delle conferenze promosse dai comitati e recensiva saggi e scritti sul divorzio. Al centro della campagna divorzista massonica non sembra però esserci alcun programma specifico per l’universo femminile. La rivista si occupò del tema in una sola occasione, con un articolo del giurista Carlo Lessona (1863-1919) inteso a contestare l’idea che il divorzio fosse una misura borghese: proprio le donne della borghesia avrebbero anzi sofferto maggiormente le conseguenze della fine del matrimonio, in quanto gli usi e le norme sociali limitavano moltissimo la loro possibilità di procurarsi un lavoro retribuito. In questo momento “non mancano i primi gruppi di donne sensibili alle istanze del pensiero moderno, come quelle che aderiscono ai programmi della rivista Il divorzio, ma, per l’esiguità del numero, non riescono a riequilibrare la bilancia” (Coletti, 1970, p. 47). Tra questi gruppi vi furono ad esempio le emancipazioniste moderate del Comitato per il miglioramento della donna di Bologna, che nell’aprile del 1891 incaricarono la presidentessa Isa Boghen Cavalieri di aderire al Comitato divorzista.
Sul fronte antidivorzista, la propaganda cattolica concentrò invece gli sforzi proprio sull’opinione pubblica femminile, cui venne riconosciuto un ruolo decisivo per l’esito della battaglia sul divorzio (Wanrooij, 1990, pp. 63-64). Negli inviti alla partecipazione di massa si individua il carattere “populistico” dell’antidivorzismo italiano, manifestazione “di chi non aveva voce in capitolo, di quei proletari la cui unica ricchezza erano i vincoli familiari, l’espressione, insomma, di chi era escluso dai diritti politici ma che attraverso il magistero della Chiesa poteva lottare in difesa del massimo dei valori: la famiglia” (Montaldo, 2000, p. 22). La reazione cattolica all’impegno della Massoneria si articolò su diversi fronti. Alle consuete raccolte di firme e petizioni si affiancò una demonizzazione dei divorzisti, variamente affiliati a gruppi sovversivi di ispirazione socialista o di origine ebraica:
Fu facile speculare su quel fondo di antisemitismo, […] collegato a pretese macchinazioni della ‘razza maledetta da Dio’ contro la civiltà cristiana, e dimostrare che la genia divorzista, più che a perseguire il bene della società, con quella riforma cui era tanto affezionata mirava al contrario a far il proprio 42interesse, distruggendo le istituzioni basilari del cattolicesimo (Coletti, 1970, p. 45).
L’impegno cattolico non impedì al tema del divorzio di essere incluso nel programma di lavori del terzo Congresso giuridico nazionale che si svolse a Firenze nel settembre del 1891, e di acquistare così una forte visibilità nell’opinione pubblica.
La seconda e la terza proposta di legge
di Tommaso Villa (1892-1893)
Il Congresso Giuridico di Firenze ospitò il dibattito “Se e sotto quali condizioni sia da ammettere l’istituto del divorzio”, che coinvolse sia la fazione divorzista, il cui portavoce era Tommaso Villa, sia i suoi oppositori, raggruppati intorno alle figure di Ruggero Bonghi (1826-1895), filologo ed esponente della Destra storica, e del giurista Carlo Francesco Gabba (1835-1920). Il generale successo riscontrato dalle tesi a favore del divorzio persuase Villa che i tempi fossero ormai maturi per presentare un nuovo progetto di legge, letto in Parlamento il 17 marzo 1892 e quindi discusso il 4 aprile dello stesso anno.
Durante la discussione, Villa tornò a ragionare sui rapporti tra Stato e Chiesa, rimarcando la reciproca indipendenza: fin dal 1881, infatti, il ministro sosteneva che la legge sul divorzio avrebbe rappresentato una separazione simbolica, ma definitiva, delle aree di pertinenza del potere secolare e di quello temporale. Ribadiva pertanto il carattere facoltativo del divorzio – cui i coniugi potevano ricorrere seguendo le proprie inclinazioni morali e religiose –, nonché la necessità che il legislatore fosse in grado armonizzare i corpora legali secondo i tempi e le società cui dovevano essere applicati. I due temi riemergono nella proposta di legge di Villa del 1892:
Io sento perciò il bisogno di fare una dichiarazione, ed è che il disegno di legge da me proposto non intende in alcun modo combattere la Chiesa nella sua disciplina. Io ammiro anzi l’opera sua. […] La Chiesa ha fatto dell’unione matrimoniale l’unione dei cuori. Ma essa ha fatto qualche cosa di più: ha benedetto ai dolori, alle amarezze, alle sofferenze umane, ed ha detto ai suoi credenti che vi sarà un premio per esse. […] Ma ciò che la Chiesa può imporre in nome della carità cristiana può essere imposto dalla legge civile? Può la legge civile dire a quelli che soffrono: rassegnatevi? La rassegnazione imposta dalla legge civile non sarebbe che la consacrazione della violenza 43brutale, il diniego di ogni giustizia. A ciascuno adunque la parte sua (Atti del Parlamento italiano. Discussioni della Camera dei Deputati. Sessione dal 19/03/1892 al 15/06/1892, p. 7716).
Lo Stato, dunque, reclamava il diritto di regolare l’istituto coniugale conformemente alle necessità della ‘società civile’, completando il processo di secolarizzazione del matrimonio iniziato con l’emanazione del codice Pisanelli. Villa metteva tuttavia in guardia dal contemplare solo la natura contrattuale dell’istituto matrimoniale, senza considerare che, per poter prosperare, tale accordo necessitava della reciprocità degli affetti, della mutua assistenza e della possibilità di procreare. Qualora queste condizioni fossero venute a mancare, Villa si chiedeva: “non è egli possibile che questo istituto che è umano, invece di raggiungere queste alte idealità, raccolga degli infelici, e la casa coniugale sia stata per essi convertita in un focolare di insopportabili amarezze?” (ibid., p. 7718).
Tanto la Chiesa, quanto la legge italiana ammettevano la separazione personale, riconoscendo la possibilità di un insanabile contrasto fra i coniugi. Questo istituto, che idealmente avrebbe dovuto facilitare la riconciliazione, generava invece spesso legami illegittimi, aumentando esponenzialmente la corruzione dell’istituto familiare. Agli occhi di Villa il divorzio assumeva allora la forma di un rimedio, sgradito quanto necessario:
Il divorzio non è un bene, è un male, sono io il primo a proclamarlo; bisogna quindi fare in modo che, come rimedio, esso non sia apprestato che nei casi in cui sia effettivamente reclamato dalla necessità. Sta al legislatore di circondare il rimedio di tutte quelle cautele che valgano a scongiurare il pericolo di frode, o di leggerezza. Sta al legislatore di impedire che il coniuge colpevole possa invocarlo a danno dell’innocente. Sta al legislatore di togliere ogni elemento di lucro o di altro mal nato desiderio e di renderne lentamente prudente la procedura, lasciando aperta la via a quelle benefiche reazioni che conducono gli animi a dimenticare, e a perdonare (ibid.).
A differenza della proposta di legge del 1881, Villa non sollevava questioni in merito alle disparità tra uomini e donne, differenze presenti tanto in seno al matrimonio quanto all’indomani della separazione.
In questa occasione, avversario di Villa fu Ruggero Bonghi, il cui discorso toccò anche il tema dell’adulterio, con riflessioni interessanti dal punto di vista di genere. La possibilità che il divorzio potesse in qualche modo avallare l’adulterio, permettendo alla coppia di amanti 44di convolare a giuste nozze, era tema presente nel dibattito seppur non trattato in maniera esplicita; certamente stava a cuore a Villa che, già nella proposta del 1881, aveva interdetto il matrimonio tra il coniuge adultero e l’amante. Questo divieto veniva ribadito nel 1892, quando Villa, dopo aver ricordato alcuni casi di divorzio tratti dalla storia romana, affermava:
Ma la proposta che voi discuterete, e certo saprete anche migliorare, prescrive, o signori, le più severe cautele; che varranno invece ad imprimere alla società coniugale la maggiore saldezza. L’istituto del divorzio non potrà mai essere un premio per il coniuge colpevole. Esso non sarà che un mezzo per purificare le famiglie da ogni bruttura; un atto di giustizia riparatrice per l’innocente che soffre oggi degli errori e delle colpe di colui al quale ha unita la sua esistenza (ibid., p. 7720).
Nella sua replica, in cui ribadiva il valore morale dello spirito di sacrificio (femminile) con il quale si dovevano affrontare le difficoltà della vita coniugale, Bonghi proponeva una lettura dell’adulterio come tara congenita ed espressione di una sessualità deviata:
Voi dite: noi, ammettendo il divorzio, impediremo che molte mogli restino adultere e molti mariti restino adulteri. Chi ve lo dice? La donna che col primo marito si è fatta adultera, niente vieta che si faccia adultera col secondo. (Si ride). Sì, o signori, fatto l’adulterio col primo è facile la via all’adulterio col secondo (ibid., p. 7725, enfasi nell’originale).
La definizione e la condanna dell’adulterio esulavano dall’analisi delle circostanze in cui aveva luogo (Rizzo, 2004, p. 25). Le parole di Borghi vanno infatti interpretate alla luce di una visione del mondo che non solo stigmatizzava la sessualità femminile fuori dall’alveo matrimoniale, ma la interpretava come funzionale soltanto alla procreazione: il piacere femminile passava in secondo piano, quando non era negato, poiché il sesso era inteso come parte della ‘missione biologica’ per eccellenza, la maternità. Il tema del divorzio si legava dunque, strettamente, a quello della sessualità: l’idea stessa del nucleo coniugale intimo, di cui si è detto in apertura, presuppone infatti la gratificazione anche sessuale dei coniugi. Nell’ambito del dibattito parlamentare il sesso è latente, ed emerge solo a proposito dell’adulterio e della condanna dei nuclei familiari illegittimi, quelli cioè formatisi dopo la separazione. Come si vedrà, la sfera sessuale è invece centrale in letteratura, per la possibilità 45di distaccarsi dai modelli tradizionali e rappresentare in modo inedito la sessualità femminile.
La discussione della seconda proposta di legge di Villa si concluse con l’intervento del ministro di Grazia e Giustizia Bruno Chimirri (1842-1917): questi giudicò inopportuno introdurre una legge sul divorzio percepita come non conforme alle condizioni della società italiana, e approvata soltanto dalla ristretta classe dei giuristi, con chiaro riferimento al Congresso Giuridico di Firenze (Seymour, 2006, p. 106). Malgrado la tiepida accoglienza, la proposta di Villa fu presa in considerazione, per poi essere dimenticata a seguito della caduta del governo del Marchese di Rudinì il 15 maggio 1892.
Già l’8 dicembre 1892, però, Villa ripresentò un disegno di legge dall’identico contenuto, che fu discusso il 25 gennaio 1893. Nel corso della presentazione in Parlamento, il ministro descrisse il matrimonio come una società tra due individui rivolta al conseguimento di due fini principali: l’allevamento della prole e il mutuo perfezionamento. Nel caso in cui questi due scopi non potessero essere raggiunti – se veniva a mancare l’armonia familiare per offese incancellabili, o in caso di condanna all’ergastolo –, la società coniugale doveva essere considerata nulla:
Ma la legge civile con un’ipocrisia che io non saprei dire se più ridicola o più disumana, ritorce gli occhi dalla casa funestata da dissensi domestici, finge di non vedere, finge di non saper nulla e continua a ritenere e gli uni e gli altri vincolati dagli stessi doveri o li dispensa tutt’al più da quello della coabitazione, lasciando ancora in piedi una figura ischeletrita di matrimonio o galvanizzandola tutt’al più con una parvenza di diritti e di obbligazioni che i più audaci dileggiano; che formano invece una catena pesante, intollerabile per i migliori (Atti del Parlamento italiano. Discussioni della Camera dei Deputati. Sessione dal 25/01/1893 al 21/03/1893, p. 841).
Villa riassumeva in quattro punti le tesi degli antidivorzisti: l’offesa al sentimento religioso della comunità cattolica; la lesione dell’indissolubilità del matrimonio e, di conseguenza, della sua stessa dignità; la presunta impossibilità di una riconciliazione tra i coniugi; il danno procurato alla prole. Il ministro confutava il primo punto ricordando la frequenza con cui la Chiesa aveva concesso l’annullamento del vincolo matrimoniale nel corso della storia. A proposito della seconda obiezione si chiedeva invece che cosa svilisse maggiormente la dignità del matrimonio, se la 46possibilità di un suo scioglimento o le numerose e illegittime ‘famiglie satellite’ che prosperavano nel regime di indissolubilità:
Credete voi che costoro [i coniugi separati], seguitando ancora a essere marito e moglie, arriveranno fino a tal grado di abnegazione e sacrificio da impedirsi ogni altro rapporto, ogni altra consuetudine inspirati talvolta da effetti irresistibili? Credete voi che sia possibile che la fedeltà coniugale che non ha potuto mantenersi salda quando esistevano i vincoli destinati a conservarla, sarà mantenuta quando codesti vincoli saranno infranti? No, non è possibile; non è nella natura delle cose. Ebbene, quali saranno le conseguenze? Saranno queste. Si vivrà una vita di dissolutezze da colui cui non trattiene alcun sentimento di onore e di delicato riguardo verso l’altro coniuge al quale aveva giurato la sua fede (ibid., p. 846).
D’altro canto, dati statistici alla mano, Villa dimostrava anche quanto raramente si riconciliassero i coniugi separati. Questo significava che la separazione era sentita come una forma di rottura definitiva della famiglia e non, come ritenevano invece gli antidivorzisti, come un periodo di prova per risolvere i conflitti coniugali. E non poteva essere altrimenti, spiegava Villa: la riconciliazione era impossibile quando non si potevano “evitare gli scandali e le solennità di un giudizio; se l’amore dei figli, le esortazioni dei parenti, il tempo, la riflessione non hanno potuto estinguere i dissensi e ricondurre alla pace; se si è provocata la malsana curiosità del pubblico colle discussioni giudiziali” (ibid., p. 847).
Infine, sul tema della prole, Villa non si discostava dalle tesi pro-divorzio che identificavano nella discordia tra i genitori un fattore di disagio e malessere da estirpare mediante la scissione del nucleo familiare. In proposito veniva inoltre richiamata la responsabilità degli organi istituzionali in merito all’educazione e al benessere dei futuri cittadini: uno dei compiti della legge, infatti, era quello di stabilire a quale dei due genitori affidare la prole. La scelta doveva ricadere, con ogni evidenza, sul coniuge ‘non colpevole’ oppure su una persona terza, qualora né il padre né la madre si fossero rivelati adatti a garantire le migliori condizioni morali per la crescita dei figli.
La replica di Antonio Salandra (1853-1931), esponente della fazione antidivorzista, rivela una perdita di fiducia negli ideali di stato corporativo, altruista e fondato sulla famiglia proposto dal Risorgimento. All’interno della dicotomia tra quanti ancora confidavano negli ideali 47risorgimentali e quanti, invece, si preparavano a rigettarli, il divorzio era visto come massima espressione di individualismo:
E quando noi studiamo ogni modo per rafforzare i vincoli sociali, quando studiamo ogni modo per diffondere l’altruismo spontaneo o forzoso in tutti gli ordini della vita e dello Stato, come mai imprenderemo a distruggere l’unica istituzione socialistica, che veramente ci sia nelle nostre leggi, vale a dire la famiglia indissolubile? (ibid., p. 852).
Concludeva la discussione il ministro guardasigilli Teodorico Bonacci (1838-1905), che, pur dichiarandosi personalmente favorevole al divorzio, non ne riteneva opportuna l’introduzione in quella precisa congiuntura storica. Il fallimento del terzo tentativo di Villa segnò così la fine della campagna pro-divorzio e la sua scomparsa dall’agenda parlamentare fino al 1901: la vittoria di una coalizione di Sinistra formata da democratici, repubblicani, socialisti e liberali nelle elezioni del 1900 introdusse infatti una decisa inversione di tendenza rispetto ai governi precedenti.
La proposta di legge socialista (1901)
Il fenomeno dei divorzi fuori dai confini italiani, problema già evidenziato da Domenico Giuriati nella sua relazione, fu una delle ragioni che favorirono la ripresa del dibattito. In ragione di un’imprecisione della legislazione italiana circa i rapporti internazionali, le corti italiane erano infatti obbligate a riconoscere legalmente il divorzio ottenuto all’estero; ciò permetteva alle coppie italiane più facoltose di scindere il proprio contratto matrimoniale in un paese straniero, usualmente la Svizzera, la Germania o la Francia. Per ottenere il divorzio era necessario rinunciare alla cittadinanza italiana e acquisire quella estera, ma non era precluso né difficoltoso recuperare la cittadinanza originaria. In principio, il problema si pose solo in ambito giuridico e accademico, ma risvegliò poi rapidamente l’interesse della fazione divorzista.
I ministri socialisti Agostino Berenini (1858-1939) e Alberto Borciani (1857-1931) presentarono una proposta di legge firmata da altri trentasei deputati di varia appartenenza partitica, che fu discussa in Parlamento il 6 dicembre 1901.10 L’interesse socialista per la causa del divorzio era dovuto non a questioni di classe, ma alla convinzione che fosse necessario 48tutelare la famiglia, intesa come base naturale della società. Il tema del divorzio si legò inoltre a quello della ‘dignità nazionale’ messa a repentaglio sia dalla pratica dei divorzi all’estero, sia dalla discrepanza tra la legislazione italiana e quelle dei paesi limitrofi. Il disegno di legge, letto il 9 marzo 1901, prevedeva come cause del divorzio:
a) la condanna alla pena dell’ergastolo o a quella della reclusione non inferiore ad anni 10 per delitto comune;
b) la interdizione per infermità di mente durata oltre tre anni e giudicata insanabile;
c) l’impotenza manifesta e perpetua sopravvenuta durante il matrimonio;
d) la separazione personale: 1° dopo trascorsi cinque anni se vi sono figli e tre se non ve sono a datare dalla omologazione del verbale di separazione consensuale o dal passaggio in giudicato della sentenza, che pronunciò la separazione; 2° anche prima dei detti termini, quando o un lungo periodo di separazione di fatto precedente alla separazione legale o gravi ed eccezionali circostanze tolgano, a giudizio del tribunale, ogni speranza di riconciliazione (Atti del Parlamento italiano. Discussioni della Camera dei Deputati. Sessione dal 07/03/1901 al 30/03/1901, p. 2389).
Tra i fattori di novità della proposta di legge socialista si può segnalare l’articolo 3, che ampliava la nozione di ‘incompatibilità coniugale’, annoverando tra le cause di separazione, oltre quelle già contemplate dal codice civile, anche le “infermità ributtanti, incurabili e trasmissibili ed in genere tutti quei fatti d’indole grave, che turbano così profondamente l’unione coniugale da rendere pericolosa o incompatibile la convivenza dei coniugi” (ibid., pp. 2389-2390). Un altro importante cambiamento rispetto alle proposte di legge precedenti è poi offerto dall’articolo 24 che aboliva il divieto per il coniuge adultero di sposare l’amante, divieto fino ad allora presente e considerato ingiustamente punitivo.
Anche a livello argomentativo, la presentazione del progetto di legge da parte di Berenini mostra dei caratteri originali rispetto ai suoi precursori. In particolare, per la prima volta il tema del divorzio veniva collegato a quello del riconoscimento della prole. Berenini faceva riferimento al disciplinamento della filiazione (Codice Pisanelli, I libro, titolo VI) e, nella fattispecie, alle condizioni necessarie per legittimare i figli; il suo bersaglio era l’articolo 180, secondo cui i nati da un rapporto adulterino – e, quindi, anche da un nucleo formato da coniugi separati – erano esclusi dalla possibilità di essere riconosciuti. Nell’affrontare il tema, Berenini si richiamava al progetto di legge, presentato dal deputato 49socialista Ugo Sorani (1850-1906) il 22 maggio di quello stesso anno, in merito alla legalizzazione della ricerca di paternità.11 Si tratta di un richiamo significativo, poiché inserisce il discorso sul divorzio in un più ampio disegno di riforma dell’istituto familiare, che riguarda sia i suoi rapporti orizzontali sia quelli verticali. Il confronto tra i disegni di legge di Sorani e Berenini è di estremo interesse dal punto di vista di genere. Il primo vede nella madre nubile o separata una figura socialmente debole da tutelare:
Alla donna si domandò e s’impose d’esser casta, all’uomo si prestarono i mezzi per render vana la legge, alla donna si porsero frequenti occasioni per fallire, all’uomo facili le scappatoie per esimersi dall’ammenda del fallo. Noi siamo immorali e mendaci: la donna ne porta la vergogna e la pena. Ecco quanto di vero si nasconde nei Codici che vietano le indagini sulla paternità (Disegno di legge C. 276, 1902, p. 7).
Emerge una riflessione circa le discriminazioni di genere perpetuate dalla legge, aspetto che è invece del tutto assente nella proposta di legge di Berenini. Questi trascurava la figura materna, articolando la propria proposta sul solo padre e suggerendo:
[…] che sia tolto il divieto all’uomo onesto il quale o per vedovanza o per divorzio riacquisti la sua libertà, di riconoscere e legittimare la sua creatura. Sia dato a questi padri che, per morte o per divorzio, sono sciolti dal vincolo coniugale, di legittimare i figli nati fuori della loro unione legale, e di portare così nella nuova famiglia quell’elemento fecondo di vita morale che è il sentimento del dovere compiuto (Atti del Parlamento italiano. Discussioni della Camera dei Deputati. Sessione dal 27/11/1901 al 22/12/1901, p. 6478).
La commissione preposta alla discussione del disegno di Berenini e Borciani ne stabilì la validità con l’inequivocabile votazione di otto membri a favore e uno solo contrario. Iniziava così un nuovo periodo di popolarità per il divorzio. Particolarmente attivo per la fazione divorzista fu il giornale L’Avanti!, mentre la controparte cattolica reagì con petizioni e raccolte di firme. Per la prima volta nella storia dell’Italia unita Papa Leone XIII lanciò un appello al Parlamento, con l’allocuzione sul divorzio pronunciata in Concistoro il 16 dicembre 1901; nel testo veniva sottolineata l’importanza assunta dal divorzio nella definizione 50dei rapporti tra Stato e Chiesa: “Noi non solo ammoniamo, ma supplichiamo per quanto hanno di più caro e di più sacro, tutti coloro dalla cui deliberazione dipende il disegno di legge sul divorzio, che desistano dall’impresa” (cit. in Coletti, 1970, p. 64).
Il progetto di legge Berenini-Borciani fallì non solo per l’ostracismo politico e la chiusura della sessione parlamentare, ma anche per l’incapacità delle forze progressive al governo di coordinarsi con i simpatizzanti esterni e di fare dunque fronte comune contro la capacità organizzativa della Chiesa (Seymour, 2006, p. 123). Giocò un ruolo di spicco anche l’annuncio di una successiva iniziativa ministeriale in materia di divorzio, la cui possibilità fu avvertita come meno drastica rispetto all’approvazione del disegno di matrice socialista.
La proposta di legge di Giuseppe Zanardelli
e Francesco Cocco-Ortu (1902)
La notizia di un progetto di legge sul diritto di famiglia fu comunicata da Vittorio Emanuele III durante il discorso della Corona pronunciato il 20 febbraio 1902 per l’inaugurazione della seconda sessione della XXI Legislatura. In questa occasione il Re espresse la volontà di intervenire in materia adattando le norme sulla falsariga dei paesi confinanti. Al pronunciamento ufficiale fece seguito la proposta di legge di Giuseppe Zanardelli e Francesco Cocco-Ortu (1842-1929) “Disposizioni sull’ordinamento della famiglia”, presentata il 26 novembre dello stesso anno. Già dal titolo emerge l’intento di inserire la questione del divorzio in una generale rilettura dell’istituto familiare. I due relatori raccolsero infatti l’eredità del progetto di legge socialista soffermandosi sulle questioni dell’indissolubilità matrimoniale e della ricerca del padre, diventati i punti chiave della ridefinizione dell’idea di famiglia.
Nella proposta era evidente anche una ripresa delle argomentazioni di Tommaso Villa, specialmente nell’idea che il divorzio “non si presenta come surrogato o concorrente all’istituto della separazione, ma come un complemento facoltativo di questa” (Disegno di legge n. 207, p. 3). Venivano così evidenziati i diversi scopi dei due istituti: laddove la separazione offriva la possibilità di risolvere dissidi che, pur turbando l’ordine familiare, non impedivano il conseguimento degli scopi precipui del matrimonio, il divorzio era invece considerato una misura facoltativa da applicarsi solo in casi estremi. Ciò si accompagnava ad una riflessione 51sulle funzioni e i compiti del legislatore, il quale doveva sì garantire la stabilità del nucleo familiare – e quindi ribadirne l’‘indissolubilità relativa’, per recuperare la definizione di Villa –, ma aveva anche il dovere di concedere ai cittadini gli strumenti per interrompere il rapporto qualora necessario:
Quando da fatti accertati, da documenti irrefragabili, risulti impossibile la comunione, cessi del tutto la finalità della vita coniugale, e, in luogo dei morti affetti, si facciano più vivi i sentimenti che rendono incompatibili gli animi, impossibile la convivenza; quando sia avvenuta la dissoluzione, è chiaro che l’indissolubilità rimane una formula astratta, un simbolo; il matrimonio non sussiste più, perché manca di scopo; è nominale (ibid., p. 5).
Continuando a raffrontare gli istituti del divorzio e della separazione, i relatori osservavano poi che i danni procurati dal primo “sono temuti: il giudizio è sull’ipotesi. I mali della separazione sono constatati: il giudizio è sui fatti” (ibid., p. 9). Veniva inoltre sottolineato come la separazione fosse priva di quella carica punitiva che era invece propria del divorzio: al coniuge che subiva un qualsivoglia affronto non era resa giustizia, ma era invece imposto di rimanere legato al partner colpevole:
Ma, quando tra i due coniugi si frappone il disonore, l’abbandono fraudolento, l’attentato alla vita, la condanna a pena gravissima, quando la disistima reciproca trova eco nel giudizio del pubblico, e cresce con gli anni per forza stessa di cose la repulsione e l’odio, non basta la separazione, anzi rappresenta un’ipocrisia, una deformità logica e giuridica: o meglio, senza averne il nome, è un divorzio nel suo effetto negativo di dividere definitivamente, mentre non ne ha l’effetto positivo di sollevare l’innocente e punire il colpevole (ibid., p. 9).
Poiché non si poteva imporre un ‘celibato forzoso’ né contare sullo spirito di sacrificio dei coniugi separati, il mantenimento dell’obbligo matrimoniale alla fedeltà dava spesso luogo, come già osservato, a famiglie illegittime, con pesanti conseguenze sul riconoscimento della prole.12 Da ciò derivava anche, da parte di altre nazioni, un giudizio negativo nei confronti dei costumi degli italiani, che tolleravano situazioni di 52anomalia e irregolarità. La separazione aveva, infine, secondo Zanardelli e Cocco-Ortu, pesanti conseguenze di genere, dato che “snatura la famiglia, dà privilegio e vita libera all’uomo, sconsacra la donna, che rimane quasi una sotto-specie, né libera, né coniugata, né vedova” (ibid.).
Alla luce del confronto tra separazione e divorzio, i relatori si soffermavano quindi sulle riserve espresse dagli anti-divorzisti. Zanardelli e Cocco-Ortu liquidavano i timori di un abuso della pratica del divorzio e di un conseguente decadimento del valore del matrimonio, tema lungamente dibattuto nelle precedenti discussioni parlamentari, ricordando i limitati casi in cui sarebbe stato possibile accedere al divorzio. Una seconda riserva era quella relativa al presunto svilimento della ‘dignità della donna’ derivante dal divorzio, altro tema cardine fin dall’enciclica Arcanum divinae. In proposito i relatori affermavano:
Qualche preoccupazione anche negli spiriti più temperati desta, in rapporto ai possibili abusi, la naturale disparità che per molte ragioni esiste fra i coniugi. Il divorzio potrebbe, dicesi, rappresentare un privilegio per l’uomo, un’ingiustizia per la donna. Non occorre dimostrare la inferiorità di questa per l’organismo e la minore possibilità di provvedere ai mezzi di sussistenza. Il femminismo può emancipare lo spirito, non mutare la necessità o le debolezze del sesso e della natura (ibid., p. 10).
Zanardelli e Cocco-Ortu raggruppavano i disequilibri tra i sessi in materia di potere e di accesso alle risorse sotto un’etichetta di naturalità. Il ricorso alla fisiologia dell’uomo e della donna per giustificare le diverse aree di attinenza, i diversi ruoli e il diverso peso politico fa parte della definizione culturale della mascolinità e della femminilità propria del secondo Ottocento e del primo Novecento (Orvieto, 2002; Bellassai, 2012). Questo argomento si rivelava tuttavia un’arma a doppio taglio all’interno del discorso sul divorzio: se da un lato si sosteneva che le donne erano fisiologicamente deboli e bisognose di supporto e guida maschile, dall’altro si affermava che avrebbero tratto benefici dalla scissione del matrimonio. I firmatari delle “Disposizioni sull’ordinamento della famiglia” si rendevano conto delle contraddizioni insite nel discorso e non potevano non rilevare che, tenendo conto della condizione di inferiorità da loro stessi descritta,
l’indissolubilità assoluta del matrimonio può sembrare l’unica ancora di salvezza: sia pure smorzato nell’uomo l’affetto, il sentimento di famiglia, stimolata la curiosità della colpa o l’abitudine della vita libera; in ogni modo 53il legame non è sciolto, resta sempre il marito, il padre, il nome della famiglia. Che farà il divorzio di questa donna? Resta all’uomo la libertà, alla donna l’abbandono, il disagio, forse il disonore (Disegno di legge n. 207, p. 10).
Il rischio era evitato dalla lungimiranza dei legislatori, che avevano previsto pochi e precisi casi di accesso al divorzio: si presupponeva infatti che solo (o principalmente) il marito potesse avere un ruolo attivo nell’abbandono del tetto coniugale, mentre le inclinazioni ‘naturali’ della moglie l’avrebbero spinta a preservare il nucleo familiare. Veniva così evitata la necessità di rivedere la distribuzione del potere nella coppia, e si ripristinava al contempo la funzione di censura del comportamento attribuita già da Morelli al divorzio:
Il divorzio deve funzionare non come stimolo ma come freno; e può divenire misura preventiva di educazione domestica e civile. Il timore dell’abbandono, la caducità dell’idillio coniugale, il bisogno di trovare, non fugaci istinti, ma caratteri saldi, come pegno d’indissolubilità, può educare la donna a dominare la impressione; a scegliere bene e meglio, e, ritemprata moralmente e fisicamente, preferire alla ricerca o all’offerta di facili connubii salde unioni, che rappresentino una garanzia per l’avvenire (ibid., pp. 10-11).
Alle donne veniva dunque affidato il compito di vigilare sulla solidità del nucleo familiare: riconfermare il ruolo della donna quale ‘custode della famiglia’ era un modo per rendere accettabili gli effetti potenzialmente destabilizzanti del divorzio.
Il disegno di legge di Zanardelli e Cocco-Ortu incontrò un’inaspettata opposizione nella commissione addetta alla sua analisi, che lo rifiutò con cinque voti contrari e quattro a favore. La successiva caduta del governo Zanardelli nel 1903 segnò un accantonamento apparentemente definitivo della questione. Due figure chiave per il suo rinvio furono quelle di Giovanni Giolitti (1842-1928), che mantenne un atteggiamento ambiguo rispetto al divorzio, e di Papa Pio X (1835-1914), che revocò il non expedit emanato da Pio IX nel 1874 che proibiva ai cattolici qualsiasi coinvolgimento politico nello stato liberale. La decisione fu dettata dalla necessità di stringere una relazione più stretta fra potere temporale e secolare. Il divorzio fu inteso come un oggetto simbolico dello scontro tra l’Italia e la Chiesa, e l’atteggiamento di Giolitti verso la questione lanciò un forte segnale di intesa e potenziale compatibilità tra l’uno e l’altro istituto, ponendo le basi di una nuova alleanza tra Stato e Chiesa.
54Temi di fondo delle proposte
di legge sul divorzio
La panoramica appena tracciata sulle proposte di legge in materia di divorzio discusse nel ventennio 1878-1902 permette di individuare alcune linee comuni, anche a livello lessicale: il rapporto matrimoniale, inscindibile anche qualora fallimentare, è sempre descritto come una parvenza di unione, una catena intollerabile, un corpo in cancrena, mentre il divorzio si evolve da “usbergo della morale”, secondo la definizione di Morelli, a rimedio sgradito ma necessario nelle proposte successive.
La riflessione sul divorzio, proposto quale ratifica di una rottura insanabile, è sempre legata a una ridefinizione del matrimonio e dei suoi scopi sociali, a partire dalla procreazione legittima. Negli obblighi coniugali alla fedeltà e alla mutua assistenza si riconosce invece il valore simbolico del matrimonio, inteso quale garanzia della stabilità della cellula sociale per eccellenza, ossia la famiglia. Su questa base si possono giudicare le diverse circostanze per le quali i legislatori proponevano di consentire il divorzio, circostanze soggette a pochi cambiamenti da una proposta di legge all’altra. Rimangono in primo piano la tutela della fecondità della coppia e la punizione dell’adulterio, nonché la causa per lunga prigionia o ergastolo, che miravano sia a tutelare l’onore del coniuge innocente, sia a prevenire la formazione di nuclei illeciti. Inoltre, il fatto che il divorzio potesse essere concesso solo dopo un periodo di separazione dai tre ai sei anni era un modo per sanzionare comportamenti ingiuriosi o violenti nel nucleo familiare e per prevenire l’uxoricidio.
Problema delicato e di lunga durata era quello del benessere della prole: se i sostenitori del divorzio ritenevano paragonabili tutte le situazioni in cui i figli vivevano in nuclei monogenitoriali,13 e consideravano i dissidi esistenti in una coppia in crisi fortemente diseducativi, l’interesse dimostrato dagli antidivorzisti “è dettato, a ben guardare, non tanto dalle normali esigenze affettive, magari un po’ esagerate, quanto dalla preoccupazione che essi [i figli] non impostino la propria vita su schemi 55differenti da quelli che la famiglia unita può trasmettere” (Coletti, 1970, p. 59).
Il tema del divorzio obbligava a ripensare non solo il ruolo della famiglia all’interno dello Stato, ma anche l’ingerenza di quest’ultimo nei confronti dei cittadini e delle cittadine. Sin dalla prima proposta di Salvatore Morelli si era imposta una linea divorzista che cercava di interpretare i bisogni della comunità, giacché
le moltitudini non domandano, perché i popoli […] sono sventuratamente ignoranti, e come i fanciulli, sentono dolore di qua, dolore di là, pungolo di qua, pungolo di là, ma non sanno determinare il punto donde nasce la loro sventura; essi non sanno indicare la causa di questo strazio (Atti del Parlamento italiano. Discussioni della Camera dei Deputati. Sessione dal 13/05/1878 al 17/06/1878, p. 1102).
Emergeva una visione paternalista dello Stato e della figura del legislatore, chiamato a interpretare sintomi e segnali di un degrado sociale (da Villa in poi, rigorosamente attestati da studi statistici) e a proporre revisioni ai corpora legali esistenti. Da questa funzione dei rappresentanti delle istituzioni derivavano le accuse di indifferenza e ipocrisia lanciate contro la fazione antidivorzista.
Le tesi dei relatori erano inoltre supportate da un’attenzione non soltanto per la situazione italiana, ma anche per quella di altri paesi: di qui gli studi statistici, condotti sia in territorio nazionale sia oltreconfine, che accompagnano le proposte di legge dal 1881 in poi. Lo scopo era duplice: da un lato, dimostrare gli effetti di una legislazione sul divorzio attraverso prove tangibili relative a coppie che avevano usufruito di tale istituto, alla più o meno crescente diffusione di ménage illegittimi, e all’affidamento della prole; dall’altro lato, rendere evidente l’obsolescenza della legislazione italiana rispetto a quella di altri paesi e, conseguentemente, misurare il progresso e la ‘civiltà’ della penisola, come dimostra bene la proposta di legge socialista.
Per quanto riguarda la questione di genere, dalle affermazioni del dibattito parlamentare emerge chiaramente che il divorzio non era considerato una possibilità per le donne di scindere un rapporto fallimentare, bensì uno strumento di censura del comportamento (principalmente femminile) nel nucleo. Sebbene i relatori dei vari progetti di legge accennino alle differenze tra i sessi all’interno della società 56italiana, queste differenze erano il più delle volte riportate in termini di ‘naturalità’ e di ‘fisiologia’. Non vi era, o almeno non emerge, un reale lavoro di scavo nel disagio femminile, né tantomeno un tentativo di lenire le cause sociali e legali che sottostavano alla posizione svantaggiata delle donne.
Ai fini della presente analisi è necessario ribadire il fatto che, benché il tema delle discussioni parlamentari riguardasse in egual misura entrambi i sessi, il discorso portato avanti rispecchiava la natura sessuata del linguaggio legale tout court: come ricorda Lucinda Finley (1989, p. 893), infatti, “the legal system and its reasoning structure and language have been framed on the basis of life experiences typical to empowered white males”, ai cui modelli di socializzazione, esperienza e valori rispondono le leggi.
Per questo, la sistematica esclusione delle voci femminili, non solo dalla costruzione del potere istituzionale, ma anche dalla elaborazione delle leggi, ha fatto sì che sia stata la visione che gli uomini avevano delle donne e delle loro esperienze a incidere sul corpus legislativo, senza tenere conto della definizione che le donne hanno dato di se stesse (ibid., p. 894). Questo sbilanciamento è tangibile nelle discussioni parlamentari fin qui osservate, da cui emerge una figura di donna non problematizzata e, a parte alcune eccezioni, ancora aderente al modello dell’angelo del focolare di matrice risorgimentale.14 Il dibattito parlamentare, dunque, riproponendo uno stereotipo muliebre incentrato sul sacrificio e sull’abnegazione, non fa che riconfermare il matrimonio e la famiglia come luoghi privilegiati della femminilità. La parziale e non sistematica trattazione del tema della debolezza femminile all’interno del nucleo familiare si univa poi alla mancanza di proposte relative al futuro delle donne divorziate. Questa lacuna permette di comprendere almeno in parte le ragioni per cui alcune donne erano contrarie al divorzio: la discussione della legge, difatti, risultava del tutto svincolata dalla realtà storica, connotata da disuguaglianze di genere di tipo economico e formativo. Laddove il matrimonio, anche se fallimentare, assicurava alla moglie una posizione istituzionale stabile e ne determinava l’identità sociale e giuridica, l’introduzione del divorzio non avrebbe offerto alcuna garanzia di benessere.
Sarà scopo di questo studio evidenziare come la letteratura d’autrice di questo stesso ventennio rielabori le linee tematiche del discorso 57politico sul divorzio qui presentate, apportandovi un contributo originale e innovativo. Lo sguardo straniante con cui Virginia Tedeschi Treves, Beatrice Speraz, Anna Franchi, Grazia Deledda e Fanny Zampini Salazar osservano le tematiche dell’infelicità matrimoniale e del divorzio arricchisce il discorso di prospettive inedite, e testimonia dell’attenzione critica con cui le scrittrici guardano alla società e alle politiche in essa vigenti, dimostrando acuta comprensione delle dinamiche di genere, sempre denunciate e messe in crisi.
1 La tesi secondo la quale, nel corso dell’Ottocento, si sarebbe gradualmente acquisita una maggiore libertà nella scelta del partner e nella composizione del nucleo familiare, spostando il matrimonio dal dominio pubblico a quello privato, è stata in parte ridimensionata dagli studi contenuti nel volume curato da Wanrooij, 2004, che dimostrano la permanenza di alcune forme di ingerenza da parte di terzi nella costruzione della coppia.
2 Sull’autorizzazione maritale nell’ordinamento italiano pre- e postunitario si veda Galeotti, 2005.
3 Sulle donne protestanti e ebree in Occidente si vedano rispettivamente Baubérot, 1991 e Green, 1991. Specificatamente sui rapporti tra minoranze religiose e femminismo in Italia si veda Gazzetta, 2018, pp. 100-106; in particolare sulle donne ebree cfr. Miniati, 2008.
4 Per uno studio del periodo risorgimentale rimando al volume Banti – Ginsborg, 2007: in particolare, per i temi che qui interessano, i contributi di Bizzocchi, 2007, Bonsanti, 2007, Porciani, 2007, Riall, 2007, Soldani, 2007; cfr. inoltre D’Amelia, 2012.
5 Sulla figura di Salvatore Morelli e, in particolare, sul suo legame con la questione femminile si vedano Pieroni Bortolotti,1963; Conti Odorisio, 1992; Valsecchi, 2004; Sarogni, 2004 e 2007. Sulle conseguenze che la legislazione sul divorzio ebbe sulle relazioni tra i sessi, soprattutto alla luce delle due proposte di Morelli, cfr. Seymour, 2005.
6 Il termine ‘uxoricidio’ indica l’omicidio volontario della moglie da parte del marito e, per estensione, l’uccisione del coniuge (cfr. Battaglia, 1961-2002, ad vocem). In questo lavoro, ove non altrimenti specificato, il termine sarà inteso sempre nel senso più ampio. Interessante è la scelta di Salvatore Morelli di utilizzare la parola neutra ‘consorticidio’ perché la lingua italiana non ha un termine preciso per indicare l’uccisione del marito per mano della moglie. Si tratta di una lacuna significativa: uxoricidio, come altre parole consimili (parricidio, fratricidio o matricidio) offre un’informazione sul grado di parentela tra vittima e carnefice che è considerata rilevante per specificare il reato di omicidio e disciplinarne le pene. Il fatto che non sia prevista una definizione specifica dell’omicidio del marito ad opera della moglie dice molto del grado di silenziamento e di rimozione culturale di una simile possibilità, che rovesciava la percezione di quanto era considerato ‘naturale’ nei rapporti di forza e di potere nella società di riferimento. Sulla “cultura della violenza coniugale” cfr. Cavina, 2010 e 2011; per un’analisi dell’uxoricidio honoris causa nella letteratura delle donne cfr. Iaconis, 2019.
7 “Art. 1. Il divorzio è ammesso: 1. Nel caso di condanna di uno dei coniugi ai lavori forzati a vita. 2. Nel caso di separazione personale completa dopo sei anni, quando vi sono figli, e dopo tre anni quando non ve ne sono. Art. 2. Il procedimento pel divorzio sarà identico a quello stabilito dalla legge per la separazione personale” (Atti del Parlamento italiano, tornata del 21 febbraio 1880, p. 63).
8 Cfr. il testo di una petizione preparata dal Comitato permanente dei congressi cattolici (e, in particolare, da Scipione Salviati, 1823-1892, e Giambattista Casoni, 1830-1919) inviata al Parlamento italiano nel febbraio del 1881: “Signori senatori e deputati, un deplorevole progetto di legge minaccia di colpire il sacro vincolo della unione coniugale; è l’attentato alla sua indissolubilità. Noi cattolici italiani detestiamo con tutta l’anima il divorzio, ed ossequenti, com’è giusto, agli insegnamenti della Chiesa, dichiariamo che non si violi tra noi la santità del Sacramento e sia tutelata la stabilità del matrimonio. In nome della religione e del pubblico bene noi chiediamo che in nessun caso si faccia il divorzio. Aperta una volta ad esso la via non vi sarà più freno, né ritegno. Le più funeste conseguenze ne deriveranno. Non vogliate pertanto preparare all’Italia tanta sciagura. Non permettete che, divenendo mutabili le nozze, s’indebolisca l’amore e la fedeltà coniugale; che si comprometta l’educazione della prole; che si semini la discordia nel focolare domestico; che siano scosse le basi della società. Noi ve ne scongiuriamo: non vogliate portare un colpo fatale alla famiglia se non volete rovinare la patria” (cit. in Coletti, 1970, pp. 33-34).
9 L’irreperibilità della rivista è confermata dalle ricerche di Majolo Molinari, 1963; Coletti, 1970: Montaldo, 2000; Seymour, 2006.
10 Sul ruolo della massoneria e della reazione cattolica alla proposta di legge Berenini e Borciani si rinvia a Cordova, 1985.
11 Su questa proposta di legge e, in generale, sulla questione della ricerca di paternità si vedano Montesi, 2007; Galeotti, 2009 e Valsecchi, 2015.
12 “Pur riconoscendo la correttezza del costume in molti coniugi separati, l’abnegazione, il sacrificio di se stessi a un alto ideale, o all’avvenire dei figli, specialmente della donna, deve ammettersi il fatto prevalente, o, per lo meno, la maggiore probabilità della colpa, stimolata dall’organismo, tollerata dal pubblico. Non si può imporre un celibato forzoso: e l’eroismo non può costituire una media di fronte alla legge, come nella vita e nella natura” (Disegno di legge n. 207, p. 9).
13 Va ricordato che non era soltanto il vedovato a comportare la formazione di nuclei monogenitoriali, ma, a fine Ottocento, anche l’alta frequenza dell’emigrazione maschile: sul punto cfr. Palazzi, 1997.
14 Su questo aspetto si veda Re, 2001.
- Thème CLIL : 4027 -- SCIENCES HUMAINES ET SOCIALES, LETTRES -- Lettres et Sciences du langage -- Lettres -- Etudes littéraires générales et thématiques
- ISBN : 978-2-406-10976-1
- EAN : 9782406109761
- ISSN : 2497-4846
- DOI : 10.15122/isbn.978-2-406-10976-1.p.0023
- Éditeur : Classiques Garnier
- Mise en ligne : 09/02/2021
- Langue : Italien