Scribere condecenter vulgare L’italiano negli atti e nell’educazione linguistica dei notai vercellesi nel XVI secolo
- Type de publication : Article de revue
- Revue : Cahiers de recherches médiévales et humanistes / Journal of Medieval and Humanistic Studies
2014 – 2, n° 28. varia - Auteur : Musazzo (Andrea)
- Pages : 153 à 182
- Revue : Cahiers de recherches médiévales et humanistes - Journal of Medieval and Humanistic Studies
Scribere condecenter vulgare
L’italiano negli atti e nell’educazione linguistica
dei notai vercellesi nel XVI secolo1
Il 1561 rappresenta un momento di particolare importanza per le vicende dell’italiano in Piemonte, infatti il 29 maggio di quell’anno il duca Emanuele Filiberto emanò gli Ordini nuovi, che prescrivevano, tra le altre disposizioni, l’uso del volgare nei documenti pubblici2. Tale provvedimento, che confermava quanto già disposto nel 1560 per i territori d’oltralpe, diede un impulso decisivo alla promozione dell’italiano: per la prima volta se ne favorì una diffusione capillare mediante una disposizione resa cogente da sanzioni, operando così in maniera efficace dove fino a quel momento aveva agito, in via del tutto occasionale, la letteratura popolare laica e religiosa3. A tal proposito pare opportuno ricordare che il Piemonte sabaudo arrivò tardi, rispetto
ad altri stati, all’adozione dell’italiano negli atti burocratici: per citare qualche esempio relativo all’area settentrionale, il primo documento in volgare della cancelleria del ducato di Milano risale al 14264, a Mantova compaiono lettere in volgare dal 1401, a Ferrara dal 1427 e a Venezia la legislazione inizia a essere redatta anche nella nuova lingua dal 14205. In ogni caso, però, l’intervento di Emanuele Filiberto non ebbe eguali altrove, nemmeno nella Toscana di Cosimo o del figlio Francesco, dove nel 1585 furono emanate disposizioni che ebbero semmai un intento programmatico, diverso dall’obbligo imposto dal duca sabaudo, che costrinse all’uso dell’italiano un gran numero di persone6.
Sarebbe d’altra parte sbagliato pensare che fino all’emanazione dei decreti ducali ci fosse stato un vuoto nell’impiego scritto del volgare da parte dei notai e che improvvisamente essi fossero in grado di redigere atti nella nuova lingua dell’amministrazione, rivelando in certi casi una discreta competenza. Se è vero che prima del giugno 1561 è raro trovare atti in volgare, ciò non è impossibile, e man mano che ci si avvicina alla data del passaggio dall’una all’altra lingua, casi di questo tipo sono sempre più frequenti7.
Il presente contributo intende dimostrare che prima dell’emanazione degli Ordini nuovi ci fu spazio per l’italiano nell’attività e nell’educazione linguistica dei notai, di coloro cioè che più di ogni altro dovevano fare i conti quotidianamente con la scrittura. Come avremo modo di spiegare, ciò pare confermato da un documento, per certi versi eccezionale, riguardante l’ammissione al collegio dei notai di Vercelli nel Cinquecento.
Si è scelto di circoscrivere le ricerche sul materiale conservato presso l’Archivio storico del Comune di Vercelli in primo luogo perché si tratta spesso di documenti non ancora analizzati dal punto di vista linguistico, inoltre la città nel XVI secolo era assai importante nel panorama dei domini sabaudi e fu una delle poche terre rimaste in mano ai Savoia durante l’occupazione francese, periodo in cui divenne sede del Senato8; non a caso gli Ordini nuovi furono stampati proprio qui, dal Pellipari, il 29 maggio 1561. La posizione geografica della città, posta sul confine con il ducato di Milano, dunque con un territorio che al tempo si poteva considerare più «italiano» dal punto di vista culturale e linguistico rispetto al Piemonte, consente di integrare con risultati del tutto originali quanto già si conosce sulla storia della lingua italiana in area pedemontana, regione che, come ha insegnato Marazzini, in fatto di lingua conobbe una decisa spinta in direzione italianizzante solo sotto il dominio di Emanuele Filiberto9.
È noto che qualsiasi ricerca relativa all’istruzione nel periodo oggetto d’indagine deve fare i conti con la scarsità della documentazione disponibile, ma ciò vale solo in parte per il settore di cui in questa sede ci occupiamo, poiché si possono ricavare utili informazioni anzitutto dalle norme che regolavano l’attività dei notai. Esse affrontavano, per esempio, l’importante capitolo dell’accesso all’esercizio della professione, che spesso si concretizzava mediante un esame di ammissione. Si noterà la grande attenzione dedicata all’analisi di questi documenti e, più in generale, alle fonti che consentono di verificare l’utilizzo del volgare prima e dopo il 1561; esse rappresentano infatti il punto di partenza obbligato per qualsiasi ipotesi sull’educazione linguistica dei giovani destinati alla professione, percorso che verosimilmente continuava e si perfezionava durante l’apprendimento dell’ars notariae, disciplina
tradizionalmente legata a grammatica e retorica. Come avremo modo di vedere, tale legame fu assai duraturo e la grammatica, prima latina e poi italiana, ebbe sempre un posto preminente nella formazione del ceto notarile.
Diventare notai: le procedure di ammissione nelle norme statutarie dal Trecento al Cinquecento
Le prime notizie su una scuola di notariato a Vercelli risalgono alla metà del Trecento, ed è stata avanzata l’ipotesi che essa fosse attiva già nel secolo precedente10. Negli statuti comunali del 1341 si concedeva ai magistri et doctoribus artis gram(m)atice et notarie legentibus in civitatis (sic) Vercellarum l’esenzione da qualunque onere, purché insegnassero gratuitamente ai poveri11. Questa, dunque, la prova dell’esistenza di un insegnamento di notaria a Vercelli nel XIV secolo. La scuola sopravvisse, a intermittenza, per un certo periodo, infatti sappiamo che nel 1461 il comune la ripristinò in seguito a una sospensione temporanea12. L’interesse degli statuti comunali per la formazione dei notai potrebbe stupire, se paragonata alla scarsa considerazione riservata ad altri settori professionali. Ciò è dovuto all’importanza di questa figura nelle città medievali, dove, in assenza di una vera e propria cancelleria comunale o vescovile, il notaio lavorava sia per privati sia per enti locali; si comprende dunque la particolare attenzione riservata dal comune alla cultura dei notai, la cui competenza rappresentava un beneficio per l’intera collettività13. Anche la necessità di accompagnare l’insegnamento dell’ars notariae a quello della grammatica era legato alla funzione del notaio in seno alla vita comunale. Come mise in luce Novati in un saggio datato, ma tuttora
valido per un primo approccio alla materia, quando questa figura fu incaricata di occuparsi di vari aspetti della vita cittadina, si rese utile una cura maggiore per la veste formale degli atti:
L’importanza dei documenti, che i notai erano chiamati a scrivere come pubblici ufficiali, faceva parere sempre più necessario che la forma corrispondesse non solo ai principî del giure, ma obbedisse altresì ai precetti della grammatica e si adornasse dei colori della retorica14.
Occorre fin d’ora segnalare che nel Medioevo, e almeno fino a tutto il Cinquecento, ciò che si richiedeva al notaio, più che una eccellente preparazione tecnico-giuridica di livello universitario, era una buona padronanza della grammatica, unita alla conoscenza dei principali istituti15. Non è un caso che in tutta la Penisola le norme statutarie spesso non dicano nulla, o quasi, sulle competenze giuridiche richieste agli aspiranti notai, limitandosi semmai a prevedere un periodo di pratica professionale16.
Anche gli statuti vercellesi si occupano dell’ammissione alla professione e della partecipazione dei notai alla vita pubblica, aspetti per i quali già nel XIII secolo erano previsti requisiti ben precisi, come si evince dalla redazione del 1241-1242. Vi si legge infatti che ai futuri notai, affinché potessero esercitare, si richiedeva di aver compiuto vent’anni; essi, dopo un praticantato di due o più anni avrebbero dovuto sostenere un esame, di cui però non conosciamo le modalità17. Nel 1341 gli statuti, oltre ad abbassare l’età richiesta a 18 anni e il periodo di tirocinio a un solo anno, diedero maggiori indicazioni sull’esame, al quale fu dedicato un intero capitolo, «De examinatione notariorum qualiter fiant (sic)», dove si legge che il candidato avrebbe dovuto recitare ad minus sex cartas bene et sufficie(n)ter et facere tria latina18. Bisogna ritenere che durante la prova le carte fossero lette e tradotte oralmente dal latino al volgare; l’ipotesi sarebbe avvalorata dal confronto con quanto previsto dalle raccolte statutarie di altre città, infatti la capacità di mediazione linguistica,
connaturata alla professione fin dall’Alto Medioevo, era implicitamente richiesta ovunque. Il notaio, incaricato di affidare all’eternità dell’archivio la memoria delle cose, di fronte alla committenza, pubblica o privata che fosse, doveva pure essere in grado di ricorrere alla traduzione orale dalla lingua dell’eternità a quella della quotidianità19. Per esempio, gli statuti notarili di Milano del 1396 prevedevano che l’aspirante notaio, una volta redatto l’instrumentum estratto a sorte dagli esaminatori, fosse in grado di divulgare vulgariter contractum20. Una norma simile, contenuta negli statuti di Bologna del 1246, invitava la commissione a verificare qualiter sciunt scribere et qualiter legere scripturas quas fecerint vulgariter et litteraliter, et qualiter latinare et dictare21.
Per conoscere la procedura d’ammissione al collegio dei notai di Vercelli nel Cinquecento occorre tenere presenti le disposizioni contenute negli statuti della corporazione cittadina, risalenti al 1397, dove era previsto un esame diverso da quello di cui abbiamo parlato in precedenza. Il candidato, di età compresa tra i 18 e i 40 anni, doveva infatti essere in grado di scrivere un tema in latino, estratto a sorte
tra i centum latina scripta in centum cedulis riposti in un’urna; cadeva invece ogni riferimento alla parte orale della prova e al periodo di praticantato22. Queste, a grandi linee, le modalità d’esame ancora nel XVI secolo, anche se l’interessante documento che stiamo per presentare contiene un’innovazione che mi pare non conosca eguali altrove, almeno a quest’altezza cronologica.
Presso l’Archivio storico del Comune di Vercelli si conservano due cartulari risalenti alla metà del XVII secolo, i quali contengono le copie di documenti redatti tra il 1397 e il 164123. Si tratta per lo più di norme statutarie, provvisioni emanate dal collegio dei notai e lettere di conferma dei privilegi da parte del duca, tutti documenti assai rilevanti per l’attività della società notarile e per la tutela dei suoi interessi corporativi. Le raccolte sono vergate da due mani diverse, ma si può affermare che, al di là di qualche prevedibile differenza di carattere grafico o formale, si tratti di apografi per così dire gemelli, ricopiati dalle stesse fonti. È il compilatore stesso di uno dei fascicoli, il notaio Carlo Giuseppe Arborio Biamino, a informarci sull’affidabilità delle carte trascritte:
Estratti li sopra(scrit)ti statuti, provvisioni e privileggy e ogni altra cosa nel p(rese)nte volume descritta da loro propry originali e con essi collazionati, l’ho ritrovati concordare io Carlo Gioseppe Arborio Biamino, cittadino, nodaro e matricolato del med(esimo) colleggio. In fede mi sono quivi col mio solito segno manual(men)te sotto(scrit)to24.
Entrambi i fascicoli contengono una lettera rivolta al duca, con relativa risposta datata 16 ottobre 1547, nella quale il collegio chiedeva al sovrano di confermarne i privilegi e, se bene intendo il senso della missiva, di equiparare i notai collegiati e iscritti nella matricola vercellese a quelli creati per autorità ducale. Spetterà agli storici del diritto valutare il rilievo che tali documenti assumono per la storia del notariato in Piemonte, mentre dal nostro punto di vista ciò che più interessa è la parte iniziale della lettera, dove si ricordano le modalità di ammissione al collegio:
et in quo colleggio (sic) non admittitur nec recipitur aliquis notarius nisi habeat et adimpleat qualitates a dictis statutis requisitis, disponen(tes) inter cetera requisita quod nemo admittatur de dicto Collegio, nisi sit nobilis, et nobili sanguine natus, oriundus et civis ipsius civitatis, maior decem octo annis, practicaveris per triennium, examinatus et litteratus, sciens componere unum thema ex tempore quod extrahitur ex centum thematibus scriptis et positis in uno sacculo, ac sciens scribere condecenter vulgare et latinum talis thematis, et scriptura et latinitas sit approbata a toto colleggio et p(er) eu(m) stipulatur et scribatur unum instrumentu(m) tunc in pleno colleggio, data sibi substantia contractus, ex tempore viva voce per d(omi)nos consules ipsius colleggy in pleno colleggio25.
Per la prima volta, dunque, si prevedeva un esame scritto in volgare accanto alla consueta prova in latino: il candidato doveva dimostrare di saper scribere condecenter vulgare et latinum il tema estratto a sorte. Nonostante il maggior rilievo continuasse a spettare al latino (latinitas sit approbata), è notevole la presenza di una simile disposizione prima degli editti ducali del 1561. Non si può stabilire con certezza la datazione della norma, ma sappiamo che essa fu emanata prima del 16 ottobre 1547 e possiamo avanzare qualche ipotesi sul termine post quem, facendo così risalire la disposizione al periodo compreso tra il 1540 e il 154726.
Le motivazioni che spinsero all’adozione di una tale norma a livello locale furono forse simili a quelle che avrebbero portato Emanuele Filiberto, di lì a pochi anni, a prevedere nel libro terzo degli Ordini nuovi il passaggio dal latino al volgare. Mi riferisco alla volontà di tutelare la clientela da incomprensioni dovute all’impiego del latino, preoccupazione che sarà manifestata dal duca in un decreto del 1560 rivolto ai territori d’oltralpe e forse anche, implicitamente, a quelli «di qua da’ monti». Nello Style et réglement du Sénat de Savoie datato 3 aprile 1560 si legge infatti che i notai avrebbero dovuto registrare il loro atti in volgare «afin que les contrahans puissent mieux entendre leurs affaires et négotiations27»; come noto, analoghi motivi nel 1539 avevano spinto Francesco I a inserire nell’ordinanza di Villers-Cotterêts una norma che imponeva di redigere gli atti di giustizia in francese, ed è stata avanzata l’ipotesi che proprio i provvedimenti del re, di cui tra l’altro Emanuele Filiberto aveva sposato la figlia, avessero ispirato l’azione di quest’ultimo28.
Naturalmente non si vuole paragonare la portata di questi interventi di politica linguistica ai risultati che poté raggiungere nei suoi risvolti pratici la norma adottata da un collegio cittadino, ma è bene sottolineare l’eccezionalità del caso vercellese. Nemmeno Milano può vantare un simile primato, infatti un ordine del collegio dei notai della città, risalente con ogni probabilità a un paio di decenni dopo la metà del Cinquecento, si limitava a disporre che l’esaminato fosse chiamato a leggere primo latine postea vulgariter lo strumento la cui redazione gli era toccata in sorte29. Dunque nella grande città la procedura continuava a essere assai simile a quella prevista dagli statuti del 1396 sopra menzionati. Come abbiamo ricordato, a Milano l’impiego dell’italiano negli atti amministrativi era senza dubbio più avanzato rispetto a quanto avveniva nel Piemonte sabaudo, ma non mi risulta che nella città lombarda fosse stata ufficializzata la necessità di una competenza nell’uso scritto del volgare da parte dei notai, mentre
la lettera vercellese del 1547 conferma la precocità del Piemonte in questo campo. Non è da escludere che il precedente francese avesse avuto qualche peso anche nell’adozione della norma statutaria cui si fa riferimento nella lettera, infatti l’ordine di Francesco I fu applicato anche nei territori piemontesi sottratti a Carlo III il Buono di Savoia e solo la città di Torino ebbe il privilegio di conservare negli atti processuali il latino, che mantenne fino al 1562, anno in cui i francesi lasciarono definitivamente la città e gli atti iniziarono a essere scritti in italiano, secondo le direttive di Emanuele Filiberto30. Vercelli, come già accennato, rimase sempre sotto il dominio sabaudo, ma forse la vicinanza dell’esempio francese ebbe qualche effetto sulle scelte del collegio. Ci si potrebbe chiedere se, al di là dell’esempio di Milano, qualche cosa di simile a quanto accadeva a Vercelli si verificasse anche altrove. A tal proposito dobbiamo rivolgerci ancora una volta a Marazzini, il quale segnalò che secondo Quazza una norma analoga a quella sancita dagli Ordini nuovi già vigeva nella contea di Asti prima del 156131. Quest’affermazione non ha ancora ricevuto conferme da fonti di prima mano, ma alla luce della recente scoperta è forse arrivato il momento di approfondire le indagini, in modo tale da verificare se il caso vercellese sia davvero isolato. Tuttavia, siamo per ora costretti a rinviare a nuove ricerche una risposta definitiva a tale domanda.
L’esame di ammissione negli instrumenta receptionis
et investiture
Quella presentata non è l’unica testimonianza sulla maniera in cui avveniva il reclutamento dei notai collegiati. Tra i protocolli notarili conservati in gran numero nell’Archivio storico del Comune di Vercelli sono stati reperiti alcuni cartulari rogati da Gualtiero Avogadro di Benna, notaio che negli anni compresi tra il 1550 e il 1561 fu incaricato di redigere gli strumenti di ammissione dei nuovi collegiati, come si
ricava dalle formule di sottoscrizione contenute nel Liber matriculae32. All’interno di una filza dell’Avogadro abbiamo avuto al fortuna di trovare quattro atti di ricezione nella società dei notai che forniscono notizie più precise sullo svolgimento della prova33; l’instrumentum receptionis et investiture che apre la serie risale al 27 giugno 1561, dunque è solo di un mese posteriore all’editto ducale, e la lingua impiegata è già il volgare34. Gli atti riportano la stessa struttura: dopo aver indicato la data e il luogo di convocazione dei notai collegiati, il «palazo del comune di Vercelli et la camera dil consiglio di essa cità», sono elencati i presenti, tra i quali spicca la figura del podestà Pietro Valperga di Masino; segue poi la breve descrizione di ogni singola fase dell’esame. Il giovane era presentato da un notaio collegiato che ne chiedeva l’ammissione di fronte ai colleghi e al podestà, il quale poco dopo estraeva uno dei cento temi contenuti nel sacco che il sacrista del collegio gli porgeva; il tema era letto ad alta voce e composto all’istante dal candidato, il quale a sua volta riferiva oralmente la traduzione dal latino e usciva dalla stanza per lasciare spazio alla valutazione. La prova si concludeva con la stipulazione di un contratto cui seguiva l’investitura di rito: il nuovo membro del collegio teneva in mano i simboli dell’ars, penna e calamaio, e subito dopo, toccando le Sacre Scritture, prestava giuramento di fedeltà al duca e di obbedienza alle norme del collegio. Si riporta qui di seguito un estratto relativo alla parte centrale della procedura descritta, per poi passare a discutere alcuni problemi che il testo pone
in merito all’applicazione della norma statutaria. Tra i vari esempi di scrittura notarile analizzati nel corso delle ricerche, il testo trascritto si segnala per una certa rozzezza, tuttavia si tenga presente che le filze spesso contengono minute che necessitavano di una ricopiatura nei protocolli, ove l’attenzione alla forma era senz’altro maggiore. Inoltre il notaio risulta matricolato nel 1520, dunque la sua formazione, anche linguistica, risale al periodo in cui la scrittura in volgare non era ancora prevista dalle norme statutarie e si rivelava assi vicina alle forme della koinè. Ecco dunque le parole dell’Avogadro:
Poy domandato deto Alberto p(er) il deto bidello, et stante nel mezo di deta camera, separato da li p(re)deti notary, et p(re)sentato il sacheto de li themati al deto podestà p(er) il deto Jo. Thoma Rubeis, sacrista dil deto colegio, deto signor podestà à extratto uno de li thema posti nel deto sacheto, poy l’à letto in p(re)sentia de tuti li soprano(min)ati, il quale thema poy leto p(er) li sapienti del deto colegio, e visto, e dato al deto Alberto ché legesse, et (con)ponesse dil tenor in(frascri)tto: «Camillo ha ferito Anthonio». Et composto deto thema, quello ha promulgato, cioè: «Camillus vulneravit Anthonium». Et p(ar)tito fora di la camera deto Alberto, e p(er) deto podestà, c(on)soli, sapienti et notary a(pro)bato deto composito, l’ano fato domandare et ivi comparendo li hano dato uno instrumento di credito a stipulare, recitare e scrivere, le qual cose tute ha fatto bene, in laude de tuti35.
Come si sarà notato, il documento testimonia l’applicazione di tutte le fasi elencate nella lettera del 1547, ma ciò che qui interessa maggiormente è la prova di traduzione, la quale ricorda da vicino gli esercizi, chiamati tecnicamente themata, che costituivano fin dal XIII secolo la base dell’insegnamento della grammatica latina36.
Resta tuttavia di difficile interpretazione l’effettiva procedura seguita durante l’esame scritto. Sembrerebbe infatti che il candidato, dopo aver letto il tema in italiano, l’avesse tradotto in latino; ma le norme esposte nella lettera sopra citata imponevano verosimilmente qualcosa di diverso, scribere condecenter vulgare et latinum talis tematis. È da escludere che nel 1561 la necessità di una tale disposizione
avesse iniziato a perdere vigore, poiché proprio con il passaggio dal latino al volgare imposto dal duca le norme approvate dalla società anni prima avrebbero finalmente trovato una maggiore utilità. Forse quello che Gualtiero Avogadro chiama «thema» non è altro che una traccia da sviluppare sia in volgare sia in latino, desta infatti qualche sospetto una prova consistente nella traduzione di tre parole, per di più molto semplici. Del resto sappiamo che gli statuti del 1397, riferendosi all’esame che allora si svolgeva interamente in latino, prevedevano proprio lo sviluppo di una traccia estratta a sorte, come avveniva in altre città della Penisola37. Anche se saremmo propensi ad accettare quest’ultima ipotesi, non si può escludere che la procedura di ammissione a quest’altezza cronologica fosse diventata una mera formalità e che il periodo di praticantato fosse ormai avvertito come prova sufficiente della capacità di scrivere tanto in latino quanto in volgare; inoltre, si ricordi che uno dei requisiti di accesso al collegio era la nobiltà di sangue, come riportato dalla lettera del 1547: nemo admittatur de dicto Collegio, nisi sit nobilis, et nobili sanguine natus, oriundus et civis ipsius civitatis. L’insistenza su questa norma da parte dei notai, che anche negli anni precedenti erano tornati spesso sull’argomento, può far pensare a un radicato interesse corporativo volto a favorire l’ingresso dei soli figli e parenti dei notai stessi a discapito della serietà della prova.
Gli altri tre atti conservati non offrono ulteriori notizie in proposito, ma sono accomunati a quello sopra trascritto dalla brevità e dalla facilità del tema38. L’ultima parte della prova prevedeva la stipulazione di un instrumentum, che doveva poi essere recitato di fronte ai notai collegiati. Non sappiamo se esso dovesse essere scritto in entrambe le lingue, ma possiamo ritenere che la lettura di fronte all’uditorio prevedesse una traduzione in volgare, essendo applicabile al XVI secolo quanto scritto a proposito degli statuti del 1341.
Un documento rintracciato tra le filze di Giacomo Antonio Bulgaro, il notaio che precedette l’Avogadro nell’attività di registrazione delle nuove ammissioni, consente di aggiungere qualche considerazione39. L’atto risale al 22 giugno 1549, è dunque redatto in latino, ma a causa della pessima grafia risulta di assai difficile lettura; un confronto con il Liber matriculae lascia però intuire che si tratti dell’instrumentum receptionis et investiture di Giovanni Vincenzo Agaciis, iscritto nella matricola alla stessa data, poiché il suo nome compare nell’atto insieme ad altri indizi che fanno pensare a uno strumento di ammissione: il luogo indicato è sempre la camera del consiglio del palazzo comunale, sono presenti i notai collegiati e si leggono parole come composito, che si riferisce forse al tema, e admisso iuravit. Seguono poi due scritte che per nostra fortuna presentano una veste grafica decisamente migliore. Esse ricordano i temi di traduzione sopra presentati, anche per l’assenza di elementi linguistici locali, ma, a differenza dei primi, danno un’idea di maggiore aderenza alla realtà degli atti notarili e la difficoltà sembra lievemente accentuata.
Se no(n) saray sufficiente, voglio che sij privato de tal officio quale haveray.
Si no(n) fueris sufficiens volo q(uod) sis privatus tali officio quod habebis40.
Anche in questo caso non è possibile stabilire se il candidato dovesse scrivere entrambe le frasi e poi sviluppare un tema più ampio, o solo tradurre le poche parole dal volgare in latino, ma la maggiore difficoltà può far ritenere che nel 1549 la prova fosse ancora avvertita come davvero vincolante. Benché siamo costretti a rimanere sul terreno delle ipotesi, pare evidente che in qualche maniera il volgare riuscisse a penetrare nell’attività dei notai nel ventennio precedente l’emanazione degli Ordini nuovi.
Il volgare negli atti dei notai
Resta ora da chiedersi in che misura l’italiano potesse entrare nelle carte notarili prima del «cambiamento di stile». Intanto occorre precisare che vi sono particolari tipologie di atti i quali per loro natura richiedono la compilazione di inventari, si pensi per esempio ai testamenti, alle doti o agli atti di tutela di minori, nei quali occorre elencare nel dettaglio tutti i beni degli interessati. È facile immaginare la difficoltà del notaio o del suo scrivano di fronte alla nominazione degli oggetti di uso quotidiano, che solo con difficoltà avrebbero potuto essere designati in latino; mi riferisco per esempio agli arnesi da cucina o agli elementi del corredo, di cui si conosceva con certezza solo il corrispettivo dialettale41. Pertanto in qualche caso si optava per il volgare, come accade in un instrumentum tutele datato 6 settembre 1546, nel quale la parte formulare è redatta in latino, mentre l’inventario è in volgare42. Lo sforzo di adeguamento all’italiano, visibile in altri testi analizzati nel corso delle ricerche su materiale più recente, è qui molto debole, infatti spesso compaiono forme dialettali per le quali non si è neppure tentato un avvicinamento alla fonetica italiana. È ciò che si verifica in parole come «taule», «turta», «curti», «gialdo». Un altro sintomo della scarsa competenza linguistica è rappresentato dall’assenza del dittongamento toscano, mentre è presente quello piemontese derivante da «é» chiusa in «peisa». Talvolta, inoltre, le vocali finali delle parole femminili plurali risentono del vocalismo dialettale, abbiamo pertanto «patelli», «cadeni» e «spadi43».
Anche laddove lo strumento sia redatto interamente in latino, il dialetto affiora comunque in veste latinizzata in parole che non sempre
consuonavo con il latino tardo. Un esempio di questo fenomeno è visibile nell’inventario dei beni appartenuti a un nobile cittadino, risalente al 1548, dove si leggono termini come «arbre» («di pioppo»), «astas a rosto» («spiedi»), «bernazum» («pala da focolare»), «frustos» («logori»), «mantilia» («tovaglie»), «salinos» («salieri»), «sigillinum» («secchiellino»), tutti regionalismi filtrati attraverso il latino44.
Un ulteriore spazio potenzialmente fertile per l’uso del volgare è poi rappresentato dalla sezione indicata con il titolo «capitoli e patti» in alcuni contratti di locazione: l’italiano era senza dubbio compreso meglio rispetto al latino da chi nella comunicazione quotidiana si serviva del dialetto, pertanto il suo impiego poteva garantire l’assenza di equivoci sulle questioni più tecniche del contratto, che avrebbero potuto dar luogo a eventuali rivendicazioni45. La chiarezza degli atti è infatti preoccupazione costante del notaio, la cui funzione nei rapporti tra privati è anche quella di limitare al massimo la litigiosità per evitare il primo grado di giudizio.
Per studiare il rapporto tra le due lingue negli anni a cavallo della riforma di Emanuele Filiberto, può ancora una volta fornire spunti interessanti la raccolta degli atti vergati da Gualtiero Avogadro di Benna, il quale negli spazi dei notulari rimasti bianchi spesso annotava brevi scritte di carattere personale, oltre a preghiere e proverbi, secondo un’abitudine assai diffusa tra i notai del passato, come dimostra il noto esempio dei Memoriali bolognesi. La maggior parte delle annotazioni precedenti l’entrata in vigore degli Ordini nuovi è in latino, mentre il notulario in cui si dà notizia della pubblicazione dei decreti ducali contiene un proverbio in volgare e, nella stessa lingua, alcune considerazioni sulla vecchiaia e sull’amicizia accanto ad altre note in latino46. L’uso pressoché simultaneo delle due lingue in scritture che non hanno nulla a che vedere con il mestiere di notaio lascia intravedere la permanenza del latino come lingua di servizio anche dopo il «cambiamento di stile»; a tal proposito è interessante notare che, sebbene tutti gli strumenti registrati
dal 2 giugno 1561 in poi siano scritti in volgare, le rubriche, che per la loro funzione ancillare farebbero pensare alla scelta della stessa lingua, risultano ancora compilate in latino fino al 156547. Nel contempo, però, confrontando la quantità delle annotazioni in volgare con i pochissimi esempi presenti nei cartulari anteriori, non si può fare a meno di notare l’impulso dato dalla politica linguistica del principe all’uso dell’italiano anche in scritture di carattere privato. Una cosa infatti è l’applicazione della norma nei documenti ufficiali, rispettata sistematicamente dal momento stesso dell’entrata in vigore dei decreti, pur con rarissime eccezioni probabilmente dovute alla «sopravvivenza meccanica di un uso ininterrotto o nella volontà deliberatamente conservativa» di alcuni notai48; altra cosa è la scelta dell’italiano in ambito privato, che nel notulario di Gualtiero Avogadro di Benna sembra influenzata proprio dalle direttive ducali. Infatti, mentre tutti i fascicoli di atti risalenti agli anni 1522-1560 contengono in tutto tre proverbi in volgare, il notulario in questione riporta sei annotazioni in questa lingua, ben il doppio49. Ciò dimostra, se ce ne fosse ancora bisogno, che le norme di cui si parla nella lettera del 1547 presero atto per la prima volta in maniera ufficiale dell’esigenza di un uso del volgare scritto da parte dei notai, ma si sarebbe dovuto attendere il 1561 perché tale competenza potesse essere sfruttata appieno, dando impulso a uno sforzo sempre maggiore di allontanamento dalle caratteristiche tipiche della koinè settentrionale, in direzione italiana.
Come si è accennato, la lingua dell’Avogadro era ancora assai legata alle forme di una lingua comune genericamente padana; possiamo darne un ultimo saggio trascrivendo il più antico dei proverbi reperiti: «piova de ramoliva tuto lo anno se desira50». Esso riconduce all’ambiente contadino ed evidentemente fa riferimento alla credenza popolare secondo cui alla pioggia nella domenica delle Palme sarebbe seguito un anno di siccità,
come conferma la versione in latino del proverbio scritta nella stessa carta. Oltre allo scempiamento in «tuto», saltano all’occhio i piemontesismi «piova» («pioggia») e «ramoliva» («ramo d’ulivo»)51. Questo dunque un esempio della contaminazione con la parlata locale che poteva realizzarsi nelle carte di un notaio formatosi nei primi decenni del secolo.
Solo uno studio sistematico delle fonti documentarie superstiti potrà precisare l’effettivo percorso di adeguamento alle norme dell’italiano dalla metà del secolo fino agli anni successivi all’emanazione degli Ordini nuovi, ma per ora possiamo dare qualche notizia sintetica sulle caratteristiche della lingua scritta in uso a Vercelli nel momento stesso del passaggio dal latino all’italiano52. Dagli atti analizzati emerge una sostanziale omogeneità nella permanenza di tratti ancora riconducibili a una scripta di koinè genericamente settentrionale: i latinismi e i dialettismi spesso surrogano le forme toscane sconosciute, i primi soprattutto nelle formule, i secondi nella nominazione di oggetti che toccano vari aspetti della vita quotidiana. Non stupiscono poi i prevedibili scempiamenti e ipercorrettismi, mentre si nota uno sforzo di allontanamento da forme eccessivamente municipali, per esempio nell’assenza di metafonesi. Al contrario, l’anafonesi guadagna terreno in maniera faticosa, rivelando la resistenza a un fenomeno avvertito come troppo distante dalla lingua parlata ogni giorno. Quest’ultima agisce soprattutto nei documenti in cui vi è una forte presenza di elementi lessicali dialettali e di un tessuto fonetico riconducibili al dialetto, ciò che accade, come abbiamo visto, negli
inventari, testi in cui il notaio o il suo scrivano difficilmente avrebbero potuto ricorrere a forme toscane o latine. D’altro canto vi sono atti in cui i tratti settentrionali più macroscopici sono quasi del tutto assenti e dai quali emergono con sistematicità fenomeni tipici del toscano, primo fra tutti il dittongamento spontaneo. In particolare, un sintomo del progressivo avvicinamento alla norma imposta dai grammatici bembiani nel corso del Cinquecento è dato dall’uso sistematico dell’articolo «il» in luogo di «el», tipico, quest’ultimo, della koinè settentrionale oltre che del toscano argenteo. In generale si può affermare che, nonostante le spinte operanti in diverse direzioni, la volontà degli scriventi sia ormai decisamente quella di scrivere in italiano, anche se talvolta il risultato può dare ancora un’impressione di arretratezza.
L’italiano dei notai tra grammatica e formulario
Dopo aver discusso della presenza del volgare nell’attività dei notai prima dell’emanazione degli Ordini nuovi e delle caratteristiche della lingua impiegata immediatamente dopo, non resta che interrogarsi sui canali di apprendimento dell’italiano.
La prova di scrittura prevista per accedere al collegio testimonia l’esigenza di un’educazione linguistica ormai in grado di uscire dai confini della grammatica latina, che ancora nel Cinquecento rappresentava la base dell’insegnamento rivolto ai giovani aspiranti al notariato. Si è già visto che quella dei notai era una cultura per lo più tecnica, di livello modesto, che non richiedeva la conoscenza di trattati teorici, né il conseguimento del titolo dottorale, ma si fondava piuttosto su una buona conoscenza della grammatica. Proprio all’insegnamento di questa disciplina ci si deve rivolgere per studiare il primo ingresso del volgare nella scuola. Tuttavia, poiché l’istruzione di livello elementare era con ogni probabilità comune a quella di allievi destinati ad altre professioni, dedicheremo ad essa solo qualche breve cenno, per trattare poi la formazione che contraddistingue la categoria notarile.
Sappiamo che già nel XIII secolo il volgare si insinuava in maniera clandestina nella didattica del latino, la lingua in cui si imparava a leggere
e scrivere. Lo spazio riservato al volgare era in primo luogo quello della comunicazione orale, poiché nella spiegazione delle norme grammaticali e, a un livello superiore, nel commento degli autori, occorreva una lingua di scambio comune a maestro e allievi. Di questa prassi rimane traccia nello scritto, infatti tale metodo didattico, assai diffuso nel Medioevo e nel Rinascimento, ha contribuito alla conservazione di molti documenti che contengono esempi dialettali anche molto antichi53. Ciò accade per esempio nelle glosse al Dottrinale di Mayfredo di Belmonte, opera grammaticale composta a Vercelli nel 1225, in cui compaiono undici parole in volgare che testimoniano la necessità di spiegare il latino con la lingua parlata quotidianamente, secondo uno schema del tipo pelvis vulgariter dicitur concha54. Un’altra via attraverso la quale il volgare entrava nelle scuole era rappresentato dai themata, esercizi di traduzione simili a quelli presenti negli atti notarili di cui abbiamo discusso55. Tra l’altro, dato l’impiego di questi esercizi nella procedura di accesso al collegio nel XVI secolo, si nota una certa continuità delle pratiche didattiche medievali, anche se naturalmente la lingua impiegata nei testi analizzati è ormai molto diversa da quella presente negli antichi documenti piemontesi supersiti, caratterizzati da una notevole componente municipale. Complice di questo fenomeno di «conguaglio superdialettale» avviatosi nel Medioevo fu senz’altro la nascita di una comune tradizione relativa all’insegnamento della grammatica, che sarebbe provata dalla presenza degli stessi temi e addirittura degli stessi esempi in opere prodotte in centri diversi dell’Italia settentrionale56.
Un libro di Francesco Filelfo, il più grande esponente dell’umanesimo lombardo, dimostra che nel Cinquecento si dava ancora molto spazio agli esercizi di traduzione: vi si trovano lettere in latino accompagnate dalla versione in volgare, inserite affinché gli allievi potessero cogliere i fiori
della lingua antica e dell’italiana57. Dunque possiamo immaginare che il desiderio di conoscere l’italiano fosse diffuso, nonostante la scarsità dei canali disponibili, e abbiamo modo di farci un’idea sul tipo di lingua che poteva circolare attraverso opere come quella descritta58. Prima che le Prose del Bembo iniziassero a operare anche a un livello di scrittura medio-basso, un altro modello di volgare per l’uso scritto era offerto dalle grammatiche latine umanistiche. In queste opere erano spesso presenti liste di parole che rappresentavano il solo contatto degli allievi con una lingua di koinè sopraregionale; i vocaboli, infatti, non erano ricavati da uno spoglio dei grandi autori toscani del Trecento, ma permettevano comunque un confronto con esperienze linguistiche diverse, poiché i libri spesso erano stampati fuori dal Piemonte59. Furono probabilmente opere di questo tipo a influire sulla scrittura di notai come Gualtiero Avogadro di Benna, che, come si è visto, compì il percorso di studi nei primi decenni del XVI secolo. In ogni caso, sul livello di toscanizzazione
che ogni allievo era in grado di raggiungere pesavano, come ovvio, la cultura e le inclinazioni personali; con le cautele richieste dalla diversa situazione socioculturale, potremmo estendere alla nostra trattazione, quanto scritto da Vitale a proposito della cultura volgare dei cancellieri milanesi nel Quattrocento. Secondo lo studioso, oltre alla preparazione notarile e cancelleresca, alla formazione di tali funzionari contribuiva la conoscenza della letteratura settentrionale, unita a quella dei grandi trecentisti60. A Vercelli è probabile che soltanto la prima avesse potuto influire in qualche maniera sulla cultura dei notai, poiché sappiamo che l’editoria piemontese delle origini diede alle stampe soprattutto opere di carattere popolare, scritte in un italiano semiletterario venato di settentrionalismi61; d’altra parte non si può escludere che la vivacità dell’ambiente culturale milanese avesse avuto dei riverberi sulla vicina città di confine.
Per avere un’idea della lingua di comunicazione tra maestro e allievi negli anni immediatamente successivi all’emanazione degli Ordini nuovi, bisogna guardare all’opera di un maestro originario di Napoli che compose un piccolo vocabolario bilingue ad uso degli studenti monregalesi. Mi riferisco al Promptuarium di Michele Vopisco, stampato nel 1564 a Mondovì, le cui voci «costituiscono un documento dell’italiano così come poteva essere parlato allora in Piemonte, italianizzando parole dialettali nel caso in cui non fosse nota la parola toscana corrispondente. Era un italiano che poteva servire, ad esempio, da strumento di comunicazione tra gli studenti e un insegnante forestiero come Vopisco62». Il Promptuarium, nonostante la data di pubblicazione, più che essere collegato alla politica italianizzante del duca, va ancora ricondotto alla tradizione delle grammatiche medievali e umanistiche cui abbiamo accennato. I risultati cui potevano giungere i notai durante la loro formazione linguistica non dovevano essere molto diversi dalla soluzione appena descritta, almeno prima delle disposizioni di Emanuele Filiberto. A tali norme si ricollega forse
il trattato De octo partibus orationis di Cesare Vitale di Mondovì, del 1573. Il libro torinese rientra nella tipologia delle rare grammatiche latine in cui erano inserite nozioni d’italiano, in questo caso limitate all’uso dell’articolo e dei verbi, e non è da escludere che la parte relativa al volgare fosse introdotta proprio per andare incontro ai burocrati alle prese con il «cambiamento di stile63». Dunque i provvedimenti del duca ebbero una funzione di stimolo per l’editoria torinese, che si dimostrò più disponibile al volgare, come confermano le traduzioni della Summa rolandina di cui avremo modo di discutere.
Nell’ultimo stadio del percorso di formazione un ruolo fondamentale spettava al tirocinio previsto dagli statuti, periodo che si svolgeva presso un notaio più anziano, spesso il padre dell’interessato. Qui il giovane prendeva dimestichezza con i diversi tipi di atti che avrebbe poi dovuto rogare e imparava a usare lo strumento principe dell’attività notarile, il formulario. A tal proposito non si può fare a meno di citare la Summa artis notariae, meglio nota col titolo di Summa rolandina, il formulario confezionato dal grande maestro bolognese di notaria Rolandino de’ Passaggeri. Essa fece la sua comparsa nel 1255 e rapidamente sostituì l’opera rivale di Salatiele, che dedicava molto spazio alla trattazione dottrinale basata sul diritto romano; Rolandino seppe invece dare il dovuto rilievo alla pratica e a questa scelta bisogna ricondurre lo straordinario successo del formulario, che molto presto fu in grado di varcare i confini della scuola bolognese, per diffondersi rapidamente nella Penisola e in Europa. Le numerose edizioni a stampa, che a partire dalla princeps del 1476 si unirono a quelle manoscritte circolanti da tempo, testimoniano la perdurante vitalità della Summa ancora in età moderna64.
Accanto alla grande opera del maestro bolognese esistevano fin da tempi molto antichi raccolte manoscritte di atti modello approntate in ambito famigliare e destinate una circolazione per lo più
ristretta a questo solo ambiente65. Esse non nascevano con finalità didattiche, ma come supporto all’esercizio della professione, eppure spesso finirono per colmare le carenze nell’insegnamento notarile. È probabile che oltre a diffondere un sapere destinato alla pratica, i formulari «domestici» avessero contribuito all’educazione linguistica dei notai, che proprio attraverso l’uso di questi strumenti poterono affinare le competenze elementari di grammatica acquisite in precedenza. L’attività principale del giovane apprendista era infatti quella di copiatura, e se attraverso essa imparava meccanicamente le più comuni formule, ne assimilava nel contempo le modalità espressive e stilistiche – se di stile si può parlare – diverse ancora oggi da notaio a notaio, da città a città.
Dai risultati di ricerche condotte sul notariato nel periodo oggetto d’indagine emerge che l’apprendistato consisteva essenzialmente nella ricopiatura di modelli presi dai formulari o dalle minute, e di sovente esso rappresentava l’ultima tappa di un percorso iniziato molto prima66. Come abbiamo visto, a Vercelli fino al Quattrocento è documentata l’esistenza di una scuola, mentre per il secolo successivo si possono formulare solo ipotesi. Solo un dato è certo: il coronamento della formazione continuava a essere rappresentato da un periodo di tirocinio della durata di tre anni, secondo quanto previsto dalle norme statutarie sopra esaminate. Non di rado i cartulari dei notai vercellesi del XVI secolo, che si conservano in abbondanza, risultano scritti da mani diverse: accanto all’opera di scrivani stipendiati è dunque lecito supporre la presenza di uno o più apprendisti impegnati nell’attività di copiatura. Sappiamo anche che talvolta era il giovane stesso a pagare per poter imparare il mestiere, come emerge dalla testimonianza di un notaio originario di Poirino, Giovanni Loyra, il quale annotò sul suo formulario:
1552, die XXVII octobris Taurini, applicavi et me firmavi pro scriba cum nobili Dominico Ellia Taurinensi causidico pretio scutorum 22 qui per patrem meum fuerunt soluti67.
Inoltre, bisogna prendere in considerazione l’ipotesi che ancora nel Cinquecento i primi rudimenti di grammatica fossero in qualche caso affidati alle cure di un notaio, come accadeva talvolta in epoca più antica68.
Per valutare in che misura il formulario poté esercitare la sua influenza sul volgare impiegato negli atti notarili dobbiamo rivolgerci a un’opera assai interessante alla quale si è già accennato, la Summa rolandina volgarizzata ad uso dei notai piemontesi69. Nel 1580 il tipografo torinese Cristoforo Bellone decise di pubblicare questo libro per andare incontro alle esigenze dei notai alle prese con la nuova lingua della burocrazia e l’operazione fu affidata al prete lucchese Gregorio Benvenuti, il quale, essendo toscano, ne avrebbe garantito l’esito positivo; il titolo scelto per l’opera era tuttavia poco veritiero, infatti l’autore non solo modificò le formule «secondo lo stile di molti moderni notari», ma eliminò altresì tutta la parte teorica insieme con la materia processuale e unì le formule di Rolandino a quelle di altre due opere dello stesso genere, il Formularium instrumentorum del piacentino Pietro Domenico Mussi e il Formularium florentinum70. Il Benvenuti rimaneggiò insomma il tradizionale manuale tenendo conto delle esigenze specifiche avvertite in Piemonte, dove esso non era l’unico in circolazione. L’intento pratico dell’opera era reso manifesto, oltre che dai numerosi tagli operati su «i proemii,
le alegationi, le dispute, e altre cose, le quali ai notai sono superflue71», dalle istruzioni inserite nel corpo del testo e dalla raccomandazione di imparare a memoria almeno i principali istituti, esercizio reso ora possibile dalla semplificazione del formulario.
Alle finalità del libro si faceva riferimento nella prefazione, dove erano spiegate le circostanze da cui prese le mosse l’iniziativa tipografica:
Poi che nello stato del Ser. Duca di Savoia di qua da monti, i contratti, e gl’altri publici atti, che prima in Latino si scriveano, si sono cominciati a scrivere in volgar lingua Italiana, il che fu ordinato l’anno 1561, alcuni notari si vede, i quali per la lunga prattica pareva che in Latino mediocremente dittassino, in questo nuovo stile, parte per non intender bene alcune parole Latine, e parte per la corrotta lingua del paese, assai grossettamente dittare, e per questo haver bisogno dell’aiuto di qualcuno. Al qual bisogno non essendosi ancor posto nessuno a provedere, è parso non pur util cosa, ma quasi necessaria di cercarsi almeno in qualche parte di sovvenirci72.
Ancora nelle prefazione si riconosceva la necessità di integrare l’opera, che già di per sé avrebbe potuto aiutare i notai a migliorare la lingua, con «un libretto, dalle cui regole imparassono il modo di correttamente scrivere73». Esso non ci è pervenuto, o perché non fu stampato o forse per il logoramento materiale cui vanno incontro i testi popolari di uso pratico74. L’autore cercava però di sopperire a tale mancanza con un espediente originale, invitando cioè i lettori a correggere i refusi servendosi delle «Regolette per emendatione»:
Con queste regolette potrete emendare gli errori in tali parole in questo libro occorsi e questa emendazione non poco vi gioverà a scriver più correttamente75.
L’attenzione maggiore era riservata agli errori più comuni per gli scriventi settentrionali, quelli dati dall’incertezza nell’uso delle doppie. Vi si trovano pertanto esempi come «Ottenere con doi T», «Roba con un B» e simili; compare poi qualche indicazione sulla
demarcazione delle parole e sul corretto impiego di «h» etimologica, apostrofo e accenti76.
Benché la Summa volgarizzata fosse arrivata con vent’anni di ritardo, ebbe forse modo di esercitare la sua influenza sull’italiano dei notai di Vercelli, che avevano d’altra parte dimostrato di non essere troppo a disagio con l’uso della nuova lingua. Dobbiamo ritenere che il libro, grazie alla semplificazione del formulario rolandiniano, avesse inciso in primo luogo sulla formazione pratica dei notai e sulla veste esteriore degli atti, ma non si può negare la possibilità di un suo effetto positivo sulle abitudini scrittorie del ceto notarile77. Come si legge in una ristampa del formulario pubblicata nel 1627, l’opera del Benvenuti fu apprezzata dai notai, a tal punto che dopo pochi decenni era quasi scomparsa dai banchi dei librai: «se ben in gran numero se ne dasseno in luce, hor a pena se ne ritrova vestigio78».
La nuova edizione secentesca della Rolandina si basava sul testo del Benvenuti, con qualche modifica resa necessaria dalle esigenze dei notai. Furono aggiunte ad esempio le formule processuali e «molti istrumenti moderni di cure, di censi, e simili79». Il vero interesse dell’opera è dato però dagli «Avvertimenti» grammaticali posti in appendice, che rappresentano verosimilmente una soluzione assai vicina al libretto pensato dal precedente curatore80. La breve trattazione si apre con il capitolo
«Della volgar Gramatica», dove si trovano, stilate in maniera schematica, indicazioni improntate a un chiaro intento didattico. La teoria è ridotta al minimo e sembra prendere a modello, almeno nella tassonomia, la tradizione grammaticale latina: «La Gram(m)atica si divide in quattro parti, lettera come a, sillaba con an, dittione come Antonio, oratione come Antonio ama le virtù81». Questa prima sezione è dedicata alle terminazioni di nomi e aggettivi, all’articolo, alle preposizioni semplici e articolate, ai pronomi personali e ad alcuni indefiniti. L’insegnamento delle grammatiche di stampo bembiano a quest’altezza cronologica aveva ormai trovato terreno fertile anche in un’opera come questa, rivolta non a letterati, ma a tecnici del diritto. Lo dimostrerebbero norme identiche a quelle contenute nel libro terzo delle Prose: «Due sono gli articoli del maschio, il e lo […]», «Egli, e ella si usano solamente nel primo caso, lui, lei, loro negli obliqui82». Il contenuto del secondo e ultimo capitolo, «Dei verbi», tradisce in parte il titolo, infatti, oltre ai paradigmi dei principali verbi e a istruzioni sul corretto uso degli avverbi, vi si trovano indicazioni ortografiche simili a quelle contenute nelle «Regolette» del Benvenuti, con l’aggiunta di qualche esempio che dovette essere accolto con favore dagli scriventi piemontesi: «Buono, nuovo, fuori […] e altri simili si scrivono sempre con V», «Et Ghiaccio nome si scrive con h. Giaccio verbo senza h83». Si noti, tra l’altro, che quest’ultima regola fu applicata a suo tempo dall’Ariosto, il quale nell’edizione del 1532 dell’Orlando furioso, introdusse la correzione del settentrionalismo «giaccio» presente nell’edizione del 152184. Gli «Avvertimenti» si concludono poi con la trattazione dei segni diacritici. Non stupirà, a questo punto, che per mostrarne il corretto impiego l’autore ricorresse a esempi tratti da Petrarca e Boccaccio, confermando ancora una volta la sua dipendenza dal classicismo volgare.
Un nuovo strumento dedicato all’italiano faceva quindi la sua prima comparsa nella formazione dei notai. Questi, che fino all’emanazione dei decreti ducali poterono entrare in contatto con l’uso scritto del volgare
solo in maniera occasionale, attraverso i canali di cui si è parlato, disponevano ora di un mezzo dedicato espressamente loro, attraverso il quale avrebbero potuto affinare le proprie competenze grammaticali.
È dunque possibile, alla luce di quanto scritto finora, abbozzare il percorso che portò i notai vercellesi a impadronirsi dell’italiano. Le norme statutarie che prevedevano l’esame di volgare scritto nella procedura di accesso al collegio rappresentano la prima importante testimonianza dell’esigenza di un impiego di tale lingua che non si limitasse alla sola oralità, ed è probabile che proprio grazie alla presenza di una disposizione simile i notai avessero iniziato a cercare un rimedio alle proprie carenze, anche se in un primo tempo dovettero confrontarsi con la mancanza di adeguati canali di diffusione dell’italiano a un livello scolastico. Gli Ordini nuovi diedero poi un forte impulso all’impiego della nuova lingua nelle scritture di carattere pubblico, stimolando in maniera decisiva l’adeguamento alle norme dell’italiano. Si deve infine a opere come la Rolandina volgarizzata, in particolare all’edizione del 1627, la diffusione di quelle regole, che comparvero finalmente in veste semplificata nelle brevi appendici di carattere pratico sulle quali ci siamo soffermati.
Si può concludere sottolineando ancora una volta il legame tra grammatica e notariato, nesso che perdurò senza interruzione dal Medioevo al XVIII secolo, e forse oltre. Il manuale settecentesco di Belmondo, l’ultima grande opera di cui i notai sabaudi si servirono sino all’avvento dei codici, dedicava ancora spazio all’importanza della grammatica nella formazione del ceto professionale:
Chiunque aspiri al notariato deve avere ben istudiate quelle scienze preliminari, come sarebbono la grammatica, le umane lettere, la rettorica ec., senza delle quali giammai non potrà né intendere, né tampoco imparare quelle istituzioni, le quali debbonsi senza meno da qualunque Notajo sufficientemente sapere85.
Nell’introduzione si faceva poi riferimento alla diffusa ignoranza dei notai in materia giuridica nei secoli precedenti, ma risulta ormai chiaro che il settore dell’educazione linguistica può condurre a conclusioni almeno in parte diverse. Nonostante il livello di istruzione cui la classe notarile poteva aspirare fosse rimasto sempre abbastanza basso, si può
affermare che nessun’altra categoria professionale poté accedere con la medesima continuità allo studio della grammatica, prima latina e poi volgare. Come si è visto, gli strumenti per raggiungere una discreta conoscenza dell’italiano esistevano. Resta ora da precisare attraverso dati documentari la loro reale incidenza sul grado di italianizzazione dei notai nei decenni successivi all’entrata in vigore degli Ordini nuovi. I dati esposti nel presente intervento ci rendono fin d’ora fiduciosi sul futuro esito delle ricerche.
Andrea Musazzo
Università del Piemonte Orientale «A. Avogadro»
1 L’idea di questo articolo è nata durante una conversazione con il professor Giuseppe Polimeni, al quale ho manifestato il mio interesse per l’educazione linguistica dei notai, ricevendo così l’invito a scrivere il presente intervento; i risultati delle ricerche condotte sono almeno in parte frutto di questo stimolo, di cui gli sono riconoscente. Esprimo inoltre la mia gratitudine ai professori Gian Savino Pene Vidari, Isidoro Soffietti e Claudio Rosso per i consigli di cui sono stati generosi. Ringrazio la responsabile dell’Archivio storico del Comune di Vercelli, Patrizia Carpo, che ha accompagnato il mio lavoro con grande disponibilità, e il dott. Leonardo Mineo dell’Archivio di Stato di Torino, che mi ha dato qualche utile suggerimento. Desidero infine ringraziare vivamente il mio maestro Claudio Marazzini.
2 Vedi De gli Ordini nuovi. Libro terzo. Della forma et stile che si ha da osservar nelle cause civili, Vercelli, Pellipari, 1561, fol. 1r. Il volume è attualmente conservato presso la Biblioteca civica di Vercelli. Alla Biblioteca Reale di Torino se ne trova una copia identica, oltre a un’altra dello stesso tipografo che riporta la medesima data, ma dal titolo leggermente diverso, Della forma et stile che si ha da osservar nelle cause civili. Libro tertio.
3 Vedi C. Marazzini, Piemonte e Italia. Storia di un confronto linguistico, Torino, Centro Studi Piemontesi, 1984, p. 75; sull’argomento vedi anche Marazzini, «Il Piemonte e la Valle d’Aosta», L’italiano nelle regioni. Lingua nazionale e identità regionali, a cura di F. Bruni, Torino, UTET, 1992, t. I, p. 1-44, qui p. 14; per una sintesi recente sulla politica culturale e linguistica di Emanuele Filiberto vedi Marazzini, Storia linguistica di Torino, Roma, Carocci, 2012, p. 39-54.
4 Vedi M. Vitale, La lingua volgare della cancelleria visconteo-sforzesca nel Quattrocento, Varese-Milano, Istituto editoriale Cisalpino, 1953.
5 Vedi M. Tavoni, Storia della lingua italiana. Il Quattrocento, Bologna, il Mulino, 1992, p. 49.
6 Vedi P. Fiorelli, «La lingua del diritto e dell’amministrazione», Storia della lingua italiana, vol. II, Scritto e parlato, a cura di. L. Serianni e P. Trifone, Torino, Einaudi, 1994, p. 553-597, qui p. 577, ora in Fiorelli, Intorno alle parole del diritto, p. 37. D’ora in poi citerò da quest’ultima edizione. Sul medesimo argomento vedi anche Marazzini, «La lingua degli Stati italiani. L’uso pubblico e burocratico prima dell’Unità», La lingua d’Italia. Usi pubblici e istituzionali, Atti del XXIX Congresso SLI, Malta, 3-5 novembre 1995, Roma, Bulzoni, 1998, p. 1-27, qui p. 13.
7 Le considerazioni sulla lingua impiegata dai notai vercellesi nel momento del passaggio dal latino al volgare sono in larga misura il frutto del lavoro di ricerca effettuato per la compilazione dalla mia tesi di laurea il qui comtendeo é ora pubblicato nella raccolta antologica delle tesi vincitrici del Premio Gianni Oberto 2013. A. Musazzo, L’italiano a Vercelli nel 1561. I notai e la ricezione degli Ordini nuovi di Emanuele Filiberto. Torino, Consiglio Regionale del Piemonte, 2014, p. 69-124.
8 Vedi P. Merlin, «Il Cinquecento», in P. Merlin, C. Rosso, G. Symcox, G. Ricuperati, Il Piemonte Sabaudo. Stato e territori in età moderna, Torino, UTET, 1994, t. VIII, vol. I, p. 3-170, qui p. 29, 58. Il Senato, cioè il tribunale di seconda appellazione, rimase a Vercelli fino al dicembre 1560; dopo questa data la sua sede fu fissata provvisoriamente a Carignano, per poi essere trasferita a Torino nel 1563. Vedi Merlin, «Il Cinquecento», p. 106. Vercelli continuò comunque a godere di un certo rilievo in quanto terra di frontiera destinata a diventare una delle più importanti piazzeforti sabaude. Vedi D. Piemontino, «Il paesaggio urbano in età moderna», Storia di Vercelli in età moderna e contemporanea, a cura di E. Tortarolo, Torino, UTET, 2011, t. I, p. 7-33, qui p. 7.
9 Vedi almeno Marazzini, «Il Piemonte e la Valle d’Aosta», t. I, p. 13-15.
10 Vedi I. Soffietti, «Problemi relativi al notariato vercellese nel XIII secolo», Problemi di notariato dal Medioevo all’età moderna, Torino, Giappichelli, 2006, p. 25-43, qui p. 37.
11 Hec sunt statuta communis et alme civitatis Vercellarum, Vercelli, Pellipari, 1541, fol. 164v.
12 Vedi E. Durando, Il tabellionato o notariato nelle leggi romane, nelle leggi medioevali italiane e nelle posteriori specialmente piemontesi, Torino, Fratelli Bocca Editori, 1897, p. 184.
13 Vedi G. S. Pene Vidari, «Le città subalpine settentrionali», Il notaio e la città. Essere notaio: i tempi e i luoghi (secc. XII-XV), Atti del Convegno di studi storici, Genova, 9-10 novembre2007, Milano, Giuffrè, 2009, p. 155-202, qui p. 168-169.
14 F. Novati, «Il notaio nella vita e nella letteratura italiana delle origini», Freschi e minii del Dugento, Milano, Cogliati, 19252, p. 241-264, qui p. 245-246.
15 Vedi C. Pecorella, Studi sul notariato a Piacenza nel secolo XIII, Milano, Giuffrè, 1968, p. 33.
16 Vedi L. Sinisi, Formulari e cultura giuridica notarile nell’età moderna. L’esperienza genovese, Milano, Giuffrè, 1997, p. 169n.
17 Vedi Soffietti, «Problemi relativi al notariato vercellese nel XIII secolo», p. 33-34.
18 Hec sunt statuta, fol. 148v-149r.
19 Vedi G. Polimeni, «Per spatium temporis et studii assiduitatem. Note su gramatica e rhetorica nel Medioevo volgare tra Bologna e Firenze», Retorica ed educazione delle élites nell’antica Roma, Atti della VI Giornata ghisleriana di Filologia classica, Pavia, 4-5 aprile 2006, a cura di Fabio Gasti e Elisa Romano, Como/Pavia, Ibis, 2008, p. 251-276, qui p. 255; vedi anche Fiorelli, Intorno alle parole del diritto, p. 20.
20 A. Liva, Notariato e documento notarile a Milano dall’Alto Medioevo alla fine del Settecento, Roma, Consiglio Nazionale del Notariato, 1979, p. 147.
21 Riprendo la citazione da Polimeni, «Per spatium temporis et studii assiduitatem», p. 257; vedi anche R. Ferrara, «Licentia exercendi ed esame di notariato a Bologna nel secolo XIII», Notariato medievale bolognese, Atti di un convegno, febbraio 1976, Roma, Consiglio Nazionale del Notariato, 1977, t. I, p. 47-120, qui p. 99n. Già a Novati non sfuggì l’interessante documento, che interpretò così: «promulgando nel 1246 i proprî statuti la Società de’ notai v’introdusse la prescrizione che chiunque aspirasse al notariato dovesse dar prova di saper scrivere correttamente tanto in volgare quanto in latino, di possedere, in una parola, l’arte del dettare» (Novati, «Il notaio nella vita e nella letteratura italiana delle origini», p. 246). Cortelazzo interpretò le norme allo stesso modo, ipotizzando che la prima stesura di ogni strumento avvenisse in volgare e che esso fosse poi trasferito nella veste latina. Vedi M. Cortelazzo, I dialetti e la dialettologia in Italia (fino al 1800), Tubinga, G. Narr, 1980, p. 17. Si potrebbe tuttavia ritenere che l’avverbio vulgariter si riferisca al solo verbo legere, come sembrano confermare le successive redazioni degli statuti. In quelli del 1252 il dettato della norma pare inequivocabile: legere et reccitare scripturas quas fecerint et instrumenta que dixerint vel vulgariter vel litteraliter (cito da G. Polimeni, «Per spatium temporis et studii assiduitatem», p. 257). Nello statuto della società dei notai dell’anno 1288 cade infine qualsiasi riferimento al volgare, con una soluzione simile a quella della disposizione vercellese. Vedi l’appendice al citato volume Notariato medievale bolognese, p. 263.
22 Hec sunt statuta, fol. 212v. Gli statuti del collegio furono pubblicati nel 1541 insieme a quelli del Comune. Sul collegio vedi anche A. Olivieri, «La società dei notai di Vercelli e i suoi statuti alla fine del Trecento», Vercelli nel secolo XIV, Atti del quinto congresso storico vercellese, a cura di A. Barbero e R. Comba, Vercelli, Saviolo edizioni, 2010, p. 117-140. Il medesimo autore ne ha recentemente curato l’edizione: Olivieri, «Gli statuti del collegio dei notai della città di Vercelli del 1397. Edizione», Bollettino storico-bibliografico subalpino, CIX, 2011, p. 223-279.
23 I fascicoli si trovano nell’Archivio storico del Comune di Vercelli (d’ora in avanti ASCV), Collegio dei notai nobili (1345-1597), armadio 51, corda 81. Uno di essi, che in mancanza di una più precisa classificazione archivistica chiameremo Fascicolo A, presenta una veste più elegante, è dotato di rubrica e conserva intatto il primo foglio, che funge da copertina; su di esso compare la numerazione antica «num. 401» e vi si legge il titolo «Iura». Il Fascicolo B, il secondo cartulario, è vergato da altra mano e risulta privo di qualsiasi indicazione, fatta eccezione per i numeri delle carte, presenti anche nel Fascicolo A. Ad essi si farà riferimento nelle seguenti citazioni.
24 Trascrivo dal fol. 76v del Fascicolo A. L’annotazione non è presente nel Fascicolo B. Qui e nelle successive trascrizioni di documenti inediti ho adottato criteri conservativi, limitandomi a sciogliere le abbreviazioni tra parentesi tonde e a normalizzare la punteggiatura e le maiuscole secondo l’uso moderno.
25 Fascicolo A, fol. 20v-21r. Le medesime parole si leggono in Fascicolo B, fol. 16v-17r, con minime differenze formali (la parola «collegium» non presenta ipercorrezione, e «per eum» è scritto senza l’uso di abbreviazioni).
26 La lettera che nei fascicoli precede quella sopra riportata risale al 1540 e contiene il riferimento al solo triennio di praticantato, del resto presente anche in una provvisione datata 1516; in entrambi i documenti non si fa invece menzione delle norme relative all’esame, che probabilmente rimasero le stesse previste dagli statuti del 1397. Dunque, benché allo stato attuale delle ricerche non si disponga di altre testimonianze documentarie, possiamo ipotizzare che tra il 1540 e il 1547 il collegio avesse modificato le procedure di ammissione, introducendo la prova di scrittura in volgare. Dato il silenzio della lettera del 1540, rimane in ogni caso la possibilità, a nostro avviso assai remota, di retrodatare l’approvazione della norma.
27 F. A. Duboin, Raccolta per ordine di materia delle leggi, cioè editti, patenti e manifesti … emanati negli antichi Stati di terraferma sino all’8 dicembre 1798, Torino, Davico e Picco e altri, 1818-1860, t. XXV, p. 8.
28 Vedi Marazzini, «Il Piemonte e la Valle d’Aosta», p. 15; vedi anche Fiorelli, Intorno alle parole del diritto, p. 36.
29 Liva, Notariato e documento notarile a Milano, p. 161.
30 Vedi Marazzini, Piemonte e Italia, p. 79; Fiorelli, Intorno alle parole del diritto, p. 36.
31 Vedi Marazzini, Piemonte e Italia, p. 74n; R. Quazza, Preponderanze straniere, Milano, Vallardi, 1938, p. 372.
32 L’iscrizione al libro della matricola era previsto dagli statuti del 1397 come ultima tappa del rito di ingresso di un notaio nella società. Si tratta di un codice pergamenaceo contenente i nomi dei notai iscritti al collegio dal 1397 al 1722; accanto al nome il notaio doveva scrivere di propria mano il luogo di residenza, il nome del padre e la data di ammissione al collegio, che era formalizzata attraveso un particolare atto chiamato negli statuti «instrumentum receptionis et investiture». Un’edizione del libro con riproduzione fotografica è stata pubblicata dal Comune di Vercelli su CD-Rom: Liber matriculae. Il libro della matricola dei notai di Vercelli (sec. XIV-XVIII), a cura di A. Olivieri, Vercelli, 2000 (consultabile anche in rete all’indirizzo scrineum.unipv.it/LM/home.html, ultimo accesso in data 01/04/2014).
33 ASCV, Fondo notarile, corda 138/ 52, fol. 20r-26r.
34 In un altro notulario di Gualtiero Avogadro (ASCV, Fondo notarile, corda 160, 56/8, fol. 12r) compare la notizia dell’entrata in vigore dell’editto ducale, da datarsi al 2 giugno 1561: «Mille cinquecento sesanta uno al secundo giorno di giugno in Vercelli nel palazo comune a son di tromba son stati publicati li decreti ducali dil alto ducha nostro Philiberto». Tale prassi non era estranea ad altri notai, che prima di iniziare a scrivere gli atti in italiano registravano brevi note simili a questa. Vedi Musazzo, L’italiano a Vercelli nel 1561, p. 82-83.
35 ASCV, Fondo notarile, corda 138/52, fol. 20r-v.
36 Vedi Cortelazzo, I dialetti e la dialettologia in Italia, p. 18. Per una rassegna di esempi contenuti in un antico trattato grammaticale piemontese composto nel XIII secolo vedi G. Gasca Queirazza, Documenti di antico volgare in Piemonte. III. Frammenti vari da una Miscellanea Grammaticale di Biella, Torino, Bottega d’Erasmo, 1966, p. 24-39.
37 Hec sunt statuta, fol. 212v; per una procedura assai simile vedi O. Banti, «Ricerche sul notariato a Pisa tra il secolo XIII e il secolo XIV. Note in margine al Breve collegii notariorum (1305)», Bollettino Storico Pisano, 33-35, 1964-1966, p. 131-186, qui p. 161.
38 Nel primo si legge infatti «Giohannj à acomodato il suo cavallo», ovvero «Johannes acomodavit suum equum»; il secondo esercizio, ancor più semplice, recita: «Paulo ama Anthonio», con relativa traduzione «Paulus amat Anthonium» e il terzo «Mio fratello à dato uno libro a Anthonio», ovvero «Frater meus dedit Anthonio unum librum». ASCV, Fondo notarile, corda 138/52, fol. 22v, 23v, 25v.
39 Il Bulgaro registrò atti di ammissione dal 1540 al 1549. Vedi Liber matriculae, fol. 36r-37v.
40 ASCV, Fondo notarile, corda 1087/925, fol. 108r-109r.
41 Può fornire utili esempi in proposito il volume di A. Rossebastiano, Il corredo nuziale nel Canavese nel Seicento. Contributo alla storia della lingua e della cultura, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 1988.
42 ASCV, Fondo notarile, corda 2187/2122, fol. 20r-24r.
43 Il femminile plurale in -i è tipico delle parlate del Piemonte orientale, oltre che di altre zone dell’Italia settentrionale. Vedi G. Rohlfs, Grammatica storica della lingua italiana e dei suoi dialetti. Morfologia, Torino, Einaudi, 1968, § 362, p. 26. Per una rappresentazione cartografica della diffusione di questo tipo di plurale nella zona che ci interessa, vedi ad esempio l’Atlante linguistico italiano (ALI), t. I, Il corpo umano, Roma, Istituto poligrafico e Zecca dello Stato, 1995, carta 49; K. Jaberg, J. Jud, Sprach- und Sachatlas Italiens und der Südschweiz (AIS), t. I, Familie – Menschlicher Korper, Zofingen, 1928, carta 48.
44 ASCV, Fondo notarile, corda 1777/1703, fol. 15r-17v; vedi V. di Sant’Albino, Gran dizionario piemontese-italiano, Torino, Società l’Unione tipografico-editrice, 1859, sotto le voci «arbra», «asta», «rost», «bernass», «frust», «mantil», «salin», «sigilin».
45 Si veola per esempio il contratto di locazione datato 13 luglio 1560, che contiene tra le firme dei testimoni quella del pittore Bernardino Lanino (ASCV, Fondo notarile, corda 711/551, fol. 800r-801v). Vedi Musazzo, L’italiano a Vercellli, p. 114-115.
46 ASCV, Fondo notarile, corda 160, 56/8, fol. 1v-2r. Vedi Musazzo, L’italiano a Vercelli, p. 108.
47 ASCV, Fondo notarile, corda 160, 56/8, passim.
48 Vitale, La lingua volgare della cancelleria visconteo-sforzesca nel Quattrocento, p. 18. Adattiamo al caso nostro le parole che Vitale usò riferendosi alla cancelleria milanese del secolo precedente.
49 L’esame dei cartulari superstiti si è per lo più limitato alle copertine (recto e verso), cioè alle parti più esposte, nell’uso del nostro notaio, a scritture di carattere per così dire privato. Mi riferisco ai documenti conservati in ASCV, Fondo notarile, corde 136-161.
50 ASCV, Fondo notarile, corda 143, 54/1, fol. 210r. Il proverbio compare sulla copertina di un notulario datato 1534.
51 Quest’ultimo termine è impiegato anche da Pavese, al maschile: «e il mattino dopo li trovavano morti sul letto dell’osteria, sotto il quadro della Madonna e il ramulivo», C. Pavese, La luna e i falò, Torino, Einaudi, 20056, p. 41; vedi inoltre la definizione di «ramuliva» in C. Zalli, Disionari piemontèis, italian, latin e fransèis, Carmagnola, Pres Peder Barbiè, 1815, vol. 2, p. 275: «[…] dicesi di quel ramo di olivo benedetto, che portasi in processione nella Domenica detta delle Palme in memoria dell’entrata del Nostro Signore in Gerusalemme.» La parola è ancora in uso nel dialetto contemporaneo anche per indicare la domenica delle Palme, come nel proverbio trascritto.
52 Per l’analisi linguistica dei documenti vedi: Musazzo, L’italiano a Vercelli nel 1561, p. 91-102. Una ricerca simile, condotta a un livello più alto di comunicazione, è stata effettuata da Benedict Buono, il quale ha studiato la corrispondenza diplomatica in volgare conservata presso l’archivio di Simancas, in Spagna, arrivando a descrivere la lingua impiegata prima e dopo il 1561. Vedi B. Buono, «Note sulla lingua cancelleresca sabauda nel Cinquecento da documenti dell’Archivio di Stato di Simancas (1536-1561)», Studi piemontesi, XXVII, 1998, p. 479-490; Buono, «Note sulla lingua cancelleresca sabauda nel Cinquecento da documenti dell’Archivio di Stato di Simancas (1562-1580)», Studi piemontesi, XXIX, 2000, p. 515-528.
53 Vedi Cortelazzo, I dialetti e la dialettologia in Italia, p. 17. Sul volgare nella didattica del latino vedi Marazzini, «Per lo studio dell’educazione linguistica nella scuola italiana prima dell’Unità», Rivista Italiana di Dialettologia, IX, 1985, p. 69-88, accolto di recente in Marazzini, Unità e dintorni. Questioni linguistiche nel secolo che fece l’Italia, Alpignano, Edizioni Mercurio, 2013, p. 75-104. Alcune considerazioni sul medesimo argomento si ritrovano in Marazzini, Piemonte e Italia, p. 60-68.
54 Gasca Queirazza, Documenti di antico volgare in Piemonte, p. 16.
55 Vedi Gasca Queirazza, Documenti di antico volgare in Piemonte, p. 24-39; sul medesimo argomento vedi anche Cortelazzo, I dialetti e la dialettologia in Italia, p. 16-19.
56 Vedi Cortelazzo, I dialetti e la dialettologia in Italia, p. 19.
57 Mi riferisco a F. Filelfo, Epistole de Mesere Francesco Filelpho vulgare e latine novamente stampate a Turin e diligentemente correcte, Taurini, per magistrum Nicolaum de Benedictis, 1516. Il Filelfo, nato a Tolentino nel 1398, fu attivo a Milano per più di quarant’anni. I suoi contatti con il Piemonte sabaudo sono noti anche grazie a un altro scritto, l’Instruzione del ben vivere utilissima, un breve testo indirizzato al giovane Filiberto di Savoia nel 1479. Vedi Marazzini, Piemonte e Italia, p. 26, 67; per la biografia del Filelfo vedi P. Viti, «Filelfo, Francesco», Dizionario Biografico degli italiani, t. 47, Roma, Società Grafica Romana, 1997, p. 615-616.
58 Negli scritti in volgare del Filelfo è ravvisabile una varietà di lingua a base toscana con apporti settentrionali: nelle epistole sopra citate sono infatti presenti forme non dittongate, come il pronome «mei» (sul pronome possessivo vedi Rohlfs, Grammatica storica della lingua italiana e dei suoi dialetti. Morfologia, § 428, p. 122), compaiono consonanti sonorizzate, come in «affatigarti», vi sono oscillazioni tra esiti con o senza anafonesi: «maravigliare» e «maravegliare». Tuttavia, poiché le forme analizzate potrebbero anche essere dovute a interventi del tipografo, è opportuno confrontarle con la riproduzione fotografica della lettera autografa rivolta a Bona di Savoia nel 1477 (vedi L. Firpo, Francesco Filelfo educatore e il «Codice Sforza» della Biblioteca Reale di Torino, Torino, UTET, 1966, p. 137). La lingua impiegata sembra avere le stesse caratteristiche dell’edizione a stampa di cui si è discusso, infatti troviamo ancora forme non dittongate come «vole», interpretabili come latinismi, «soggionse» e «longo», che confermano l’uso di parole in cui non si riscontra anafonesi fiorentina, anche se non possiamo affermare con certezza se esse siano dovute a influenze settentrionali o alla provenienza del Filelfo dall’Italia centrale (sul fenomeno vedi Rohlfs, Grammatica storica della lingua italiana e dei suoi dialetti. Fonetica, Torino, Einaudi, 1966, § 70, p. 91). In ogni modo le forme eventualmente centrali in senso lato, ma non fiorentine, di cui abbiamo dato conto, finivano per consuonare perfettamente con l’uso e le tendenze degli scriventi settentrionali, dando luogo a una koinè diffusa.
59 Si pensi per esempio ai Rudimenta Grammatices di Nicolò Perotto e all’Isagogicus liber di Colla Gaggio Montano, sui quali vedi Marazzini, Piemonte e Italia, p. 62-64.
60 Vedi Vitale, La lingua volgare della cancelleria visconteo-sforzesca nel Quattrocento, p. 24.
61 Vedi Marazzini, Storia linguistica di Torino, p. 34.
62 Marazzini, «Il Piemonte e la Valle d’Aosta», L’italiano nelle regioni. Testi e strumenti, a cura di F. Bruni, Torino, UTET, 1994, t. II, p. 1-54, qui p. 25. Della rarissima opera esiste una ristampa anastatica: M. Vopisco, Promptuarium, Torino, Torrentino, 1564, ristampa anastatica dell’originale con presentazione di G. Gasca Queirazza, Torino, Bottega d’Erasmo, 1972.
63 Vedi Marazzini, Piemonte e Italia, p. 66-67. A conferma dell’utilità di un libro di questo tipo per la categoria di cui ci occupiamo, si segnala che dal 1405 la conoscenza delle otto parti della grammatica era richiesta a Venezia per accedere al notariato: vedi Cortelazzo, I dialetti e la dialettologia in Italia, p. 17. Una norma simile era in vigore a Genova dal 1462: vedi G. Costamagna, Il notariato a Genova tra prestigio e potere, Roma, Consiglio Nazionale del Notariato, 1970, p. 109.
64 Sull’argomento vedi almeno Sinisi, Formulari e cultura giuridica notarile nell’età moderna, p. 3-22.
65 Vedi Sinisi, «Alle origini del notariato latino: la Summa rolandina come modello di formulario notarile», Rolandino e l’Ars notaria da Bologna all’Europa, Atti del convegno internazionale di studi storici sulla figura e l’opera di Rolandino, Bologna, 9-10 ottobre 2000, a cura di G. Tamba, Milano, Giuffrè, 2002, p. 163-234, qui p. 167; vedi anche Novati, «Il notaio nella vita e nella letteratura italiana delle origini», p. 245.
66 J. Hilaire, La scienza dei notai. La lunga storia del notariato in Francia, prefazione all’edizione italiana di Vito Piergiovanni, Milano, Giuffrè, 2003, p. 195-196; vedi anche M. P. Pedani Fabris, Veneta auctoritate notarius. Storia del notariato veneziano (1514-1797), Milano, Giuffrè, 1996, p. 64.
67 Cito da E. Mongiano, «Attività notarile in funzione anti-processuale», Hinc publica fides. Il notaio e l’amministrazione della giustizia, Atti del convegno internazionale di studi storici, Genova, 8-9 ottobre 2004, a cura di V. Piergiovanni, Milano, Giuffrè, 2006, p. 185-214, qui p. 205n. Non deve stupire il fatto che il tirocinio avvenisse presso un causidico, infatti Domenico Elia svolgeva con ogni probabilità, magari come professione secondaria, quella di notaio; lo possiamo affermare sulla base di alcuni atti compresi nel formulario del Loyra, tra cui il modello di un instrumentum vendicionis facte a minore, che furono redatti proprio in casa del maestro.
68 Un atto genovese del 1221 testimonia la presenza di scolari presso un notaio che all’attività principale affiancava quella di maestro di scuola. Vedi Marazzini, Unità e dintorni, p. 85.
69 Summa rolandina dell’arte del notariato, volgarizzata, et in molti luoghi ordinata, et ampliata per don Gregorio Benvenuti, prete lucchese, Cavaliere della Sacra Religione dei SS. Maurizio e Lazzaro, Torino, Bellone, 1580, edizione anastatica dell’originale a cura del Consiglio Nazionale del Notariato, Bologna, Forni, 2011. Sull’opera vedi Marazzini, Piemonte e Italia, p. 79-82.
70 Summa rolandina dell’arte del notariato, primo foglio non numerato.
71 Ibid.
72 Ibid.
73 Ibid.
74 Vedi Marazzini, Piemonte e Italia, p. 81.
75 Summa rolandina dell’arte del notariato, ultimo foglio non numerato.
76 Ibid. Tra le regolette non si fa menzione del corretto uso del dittongamento toscano, che pure è oggetto in qualche caso di errori da parte del tipografo, come accade nella forma «vuolgare» (fol. 19r). Da imputarsi forse al curatore stesso è la presenza nel libro di un elemento lessicale non toscano come «cadrega» (fol. 33v), che si può interpretare come una concessione al pubblico piemontese, cui l’opera si rivolgeva.
77 Forse l’impatto più significativo dell’opera sul livello di italianizzazione va ricercato nelle carte dei notai torinesi, gli esponenti della categoria più vicini all’esperienza del Benvenuti, coloro ai quali probabilmente pensò quando si accinse a volgarizzare la Summa. Tutto ciò che sappiamo su di essi al momento dell’emanazione degli Ordini nuovi è dovuto alla ricognizione condotta da Marazzini sulle carte conservate nell’Archivio di Stato di Torino: vedi Marazzini, «La lingua degli Stati italiani», p. 15-16. Gli atti confermano un’immediata ricezione delle norme ducali, ma non mi risulta che esista uno studio sistematico della lingua dei documenti torinesi, ricerca che porterebbe forse a risultati diversi da quelli raggiunti nel caso di Vercelli.
78 Somma rolandina volgare, Torino, Appresso gl’Heredi del Pizzamiglio, 1627. Cito dalla dedicatoria Alli M.to Ill.ri Sig.ri gli Signori Sindici della Molt’Illusre Città di Torino, scritta nel 1623 da curatore-editore Luigi Pizzamiglio.
79 Somma rolandina volgare, frontespizio.
80 «Avertimenti scielti fra i più necessarij a chi si diletta di correttamente scrivere, e per quelli che n’hanno bisogno», Somma rolandina volgare, p. 307-314.
81 «Avertimenti scielti», p. 307.
82 «Avertimenti scielti», p. 308; vedi P. Bembo, Prose della volgar lingua, a cura di C. Vela, p. 122, 141.
83 Somma rolandina volgare, p. 311.
84 Vedi L. Ariosto, Orlando furioso, secondo l’edizione del 1532, con le varianti delle edizioni del 1516 e del 1521, a cura di S. Debenedetti e C. Segre, Bologna, Commissione per i testi di lingua, 1960, p. 27.
85 G. Belmondo, Istruzione per l’esercizio degli uffizj del Notajo nel Piemonte, Torino, presso Giammichele Briolo, 1777-1779, t. I, p. 4.
- Thème CLIL : 4027 -- SCIENCES HUMAINES ET SOCIALES, LETTRES -- Lettres et Sciences du langage -- Lettres -- Etudes littéraires générales et thématiques
- ISBN : 978-2-8124-4568-2
- EAN : 9782812445682
- ISSN : 2273-0893
- DOI : 10.15122/isbn.978-2-8124-4568-2.p.0153
- Éditeur : Classiques Garnier
- Mise en ligne : 29/04/2015
- Périodicité : Semestrielle
- Langue : Italien