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Classiques Garnier

«Gli auttori dal cui fonte il ruscelletto di questa mia grammatica si derriva» L’esemplificazione nelle grammatiche volgari del Cinquecento

  • Type de publication : Article de revue
  • Revue : Cahiers de recherches médiévales et humanistes / Journal of Medieval and Humanistic Studies
    2014 – 2, n° 28
    . varia
  • Auteur : Demuru (Cecilia)
  • Résumé : Cet article examine ­l’exemplification dans les grammaires du vulgaire italien du xvie siècle, avec une attention particulière portée à la dimension éducative. Fortunio, avec les Regole, inaugure la tradition de la grammaire italienne qui fonde la norme sur ­l’autorité des « trois couronnes » ; dans le Compendio, dédié à un jeune homme qui doit apprendre la langue, Flaminio limite ­considérablement les exemples ; parmi les abrégés et les grammaires inspirées par les Prose de Bembo, on peut distinguer de simples « riduzioni a metodo » ­d’œuvres moins dépendantes du modèle, fondées sur le principe que les auteurs doivent être lus avec discernement ; dans la grammaire de Giambullari se trouvent aussi des exempla ficta ; le canon ­s’étendra au milieu du siècle. ­C’est sur la base des exemples littéraires que les grammairiens fondent leurs règles ; dans une perspective ­d’enseignement, les exemples des auteurs ­constituent un moyen ­d’apprentissage et représentent un modèle ­concret pour ­l’écriture.
  • Pages : 183 à 213
  • Revue : Cahiers de recherches médiévales et humanistes - Journal of Medieval and Humanistic Studies
  • Thème CLIL : 4027 -- SCIENCES HUMAINES ET SOCIALES, LETTRES -- Lettres et Sciences du langage -- Lettres -- Etudes littéraires générales et thématiques
  • EAN : 9782812445682
  • ISBN : 978-2-8124-4568-2
  • ISSN : 2273-0893
  • DOI : 10.15122/isbn.978-2-8124-4568-2.p.0183
  • Éditeur : Classiques Garnier
  • Mise en ligne : 29/04/2015
  • Périodicité : Semestrielle
  • Langue : Italien
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«Gli auttori dal cui fonte il ruscelletto di questa mia grammatica si derriva»

Lesemplificazione nelle grammatiche volgari
del Cinquecento

Larticolo affronta il problema dellesemplificazione nelle grammatiche volgari del Cinquecento, sulla scorta delle indicazioni di Danilo Poggiogalli, che ha notato come emerga «con chiarezza dallesemplificazione addotta da ciascun grammatico labitudine di vincolare alla testimonianza delle Tre Corone (o Due, per lesclusione di Dante) ogni regola o descrizione»; Poggiogalli, evidenziando inoltre i casi di Pier Francesco Giambullari, che affianca exempla ficta a quelli letterari, e di Lionardo Salviati, che allarga il canone degli autori includendo soprattutto esempi di prosa non boccacciana del Due-Trecento e volgarizzamenti, conclude che comunque «in genere il fondamento letterario della norma linguistica non viene intaccato1».

Oggetto della presente analisi sono le principali grammatiche2 pubblicate a partire dalle Regole grammaticali della volgar lingua di Giovanni Francesco Fortunio (1516): viene assunto come limite cronologico dellindagine il 1552, data di pubblicazione delle Regole della lingua fiorentina di Piefrancesco Giambullari, prima grammatica opera

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di un fiorentino3. Particolare attenzione viene riservata ai compendi delle Prose della volgar lingua di Pietro Bembo (1525) e al ruolo che lesemplificazione attraverso passi dautore riveste nella divulgazione della grammatica volgare in prospettiva didattica4.

Se è vero infatti che nel Cinquecento le grammatiche volgari non erano direttamente destinate alla scuola, il problema dellinsegnamento linguistico è ben presente soprattutto agli autori che si occupano di compendiare testi grammaticali che nascono spesso come riflesso di discussioni tra letterati e non con lintento primario di insegnare la lingua. Il proposito di rendere accessibile la descrizione grammaticale agli studenti è spesso esplicitato nelle lettere dedicatorie: in questottica la selezione degli esempi dautore si rivela strumento efficace al pari della schematizzazione e razionalizzazione della struttura dellopera.

Mentre per gli altri autori citati si daranno notizie trattando delle singole grammatiche, nel capitolo conclusivo si proporranno alcune statistiche ricavate dai dati raccolti relativi alle citazioni dalle Tre Corone5.

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Si tenga presente che nelle statistiche difficilmente si riuscirà a dare conto del fatto che un brano può essere citato come forma di uso antico o da evitare: spesso un grammatico che adotta una linea petrarchista può ricorrere a una citazione dantesca per opporla a un verso dei Rerum vulgarium fragmenta, su cui cade lopzione e la prescrizione normativa; così per esempio, come si vedrà, Fortunio, a proposito della formazione del plurale dei nomi, cita sia un uso dantesco sia uno petrarchesco, per pronunciarsi decisamente a favore di questultimo: «Il perché io mi aviso doversi seguire quello che più frequentemente usano gli auttori nostri; pur peccati diremo, come Petrarca, non peccata, come Dante6.» Gli esempi permettono allora di delineare un canone anche in negativo: risulta spesso più efficace per stabilire una regola mostrare soprattutto come non si deve scrivere.

Nella conclusione si concentrerà lattenzione anche su alcuni esempi-bandiera, che si impongono a partire dal Fortunio e dal Bembo: si tratta di citazioni di brani che transitano da grammatico a grammatico, in maniera non sempre fedele e talvolta per essere discussi.

Ricordando che il ricorso a passi dautore è una costante in quasi tutti i grammatici7, si ritiene opportuno in limine soffermarsi su alcune caratteristiche delle modalità di citazione: i brani possono essere citati senza alcuna attribuzione, oppure possono riportare il nome dellautore, o ancora lindicazione dellopera, o, con sempre maggior precisione, della

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poesia o della novella. Un generico richiamo al nome dellautore, senza esempi testuali, è presente soprattutto quando questi potrebbero essere numerosi8; scrive per esempio Fortunio: «Voglio, dinfiniti essempi, delli sopratoccati rimanermi contento9». Al contrario, lo stesso brano può essere citato più volte per aspetti diversi; avverte per esempio Lodovico Dolce, riprendendo per la terza volta il medesimo esempio dal Canzoniere: «che da noi sè allegato più volte10».

Le lezioni delle citazioni sono spesso differenti da quelle accolte dalle edizioni moderne: per questo si rimanda alle edizioni critiche di riferimento, che danno spesso conto anche del manoscritto o della stampa consultata dal grammatico; altre divergenze saranno imputabili a trascorsi di penna o al fatto che alcune citazioni possono essere fatte a memoria.

«Lo uso, et non lo abuso degli auttori dovemo seguitare»: Giovan Francesco Fortunio

Lattenzione per le auctoritates di Dante, del Petrarca e del Boccaccio, definiti «gli auttori dal cui fonte il ruscelletto di questa mia grammatica si derriva11», è programmatica in Fortunio12 già dalle prime righe

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della lettera dedicatoria agli «studiosi della regolata volgar lingua13»; come ha sottolineato Claudio Marazzini, Fortunio, anche se attinge in misura maggiore a Dante, guarda soprattutto a Petrarca come modello, considerandolo, come sarà anche per Bembo, «il maggior maestro di lingua, la più autorevole fonte a cui attingere regole grammaticali, talora riviste anche alla luce del principio dellanalogia, o sceverando in modo da distinguere l“uso” dall“abuso degli auttori”, secondo i principi di Quintiliano14».

Se è vero dunque che le citazioni dalla Commedia superano quelle dai Rerum vulgarium fragmenta, linterpretazione del dato numerico proposta da Marazzini risulta più convincente rispetto a quella di Giovanna Rabitti che, sulla base della prevalenza di citazioni dantesche, vede in Dante il «modello “guida”15» di Fortunio: in realtà, le scelte di Dante sono spesso giudicate da Fortunio come «licenziose», poiché il poeta «intento allaltezza del soggetto forse più che al regolato ordine di rime e di grammatica», ne fu «alquanto licentioso trasgressore16»; inoltre, come ha visto Brian Richardson, la «prevalenza statistica delle citazioni dantesche rispecchia il grande interesse ai problemi di critica testuale e di interpretazione che è caratteristico delle Regole17». In generale, infatti, lattenzione per i testi da citare si traduce in più punti in digressioni di tipo filologico in cui Fortunio afferma di aver consultato testimoni eccellenti, come «uno antico libbro delle cento novelle18», oppure attribuisce forme devianti dalla norma a errori «de scrittori o de stampatori19».

Pur ammettendo quindi il suo «interesse umanistico per il raro20», si noterà che nella maggior parte delle situazioni Fortunio ricorre

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allesempio dautore non con il gusto del preziosismo, ma quando questo sia rappresentivo di un uso frequente; riprendendo Quintiliano e la precettistica latina, Fortunio afferma inoltre che, anche quando una delle Tre Corone fornisca un contro esempio, questo non è sufficiente a invalidare una regola:

Ma posto che confessar bisognasse che questo et gli altri pochi pronomi negli essempi per me sopratoccati fussero posti nel caso primo, anchora sarei oso di dire la general mia regola non meritar riprensione; perché, come ensegna Quintiliano et gli altri maestri della romana grammatica et eloquentia, lo uso et non lo abuso degli auttori dovemo seguitare, cioè che non quello che una volta o poche più, ma a quello che frequentemente usino nel dire si deve haver riguardo. Ma di ciò, et di quanto ho detto et son per dire, al giuditio vostro mi soppono, sinceri e candidissimi lettori21.

Autori diversi da Dante, Petrarca e Boccaccio sono citati solo sporadicamente; si tratta per lo più di esempi eslege che stanno a rappresentare un uso da evitare: è il caso di alcuni versi tratti dalla canzone Signor, che pur di nulla fattha il tutto di Francesco Filelfo, come esempio di uso scorretto imputabile a un autore che «delle regole della volgar lingua hebbe over poca scienza o poca cura22».

Lunico esempio che Fortunio ricava dal prosimetro di Pietro Bembo, «lo ampio aria», come attestazione di un possibile uso maschile del sostantivo di derivazione latina23, viene giudicato poco adatto alla lingua volgare:

Et alcuni nomi sostantivi sono di incerto genere, che ambi li articoli, di maschio cioè, et di femina ricevono, perché nella volgar lingua, lo articolo dimostrante neutro genere non vene in consideratione, benché si legga lo ampio aria e lo tondo ethera: Dante, canto XXII del Paradiso: «Che lieta ven per questo ethera tondo». Ma tal modo di dire, alla latina si appropinqua (seguendo la inflession greca) più che alla volgar lingua24.

Come dichiarato nella lettera dedicatoria al «giovanetto» Domenico Evangelista, tra i motivi che spinsero Marcantonio Flaminio a realizzare

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nel 1521 il Compendio di la volgare grammatica25 ci furono «la tediosa lunghezza degli essempi et le spesse evagationi26» che caratterizzavano le Regole del Fortunio, con lobiettivo di ridurle per mettere a disposizione di chi studia la lingua uno strumento più agevole ed essenziale che non sottraesse tempo ad altri studi:

Hammi paruto molto più giovevole questo cupo pelago raccogliere in un picciolo ruscelletto: certo non perchio giudichi la barchetta del pellegrino vostro ingegno poter malagevolmente per costì trapassare, ma perché io so voi a maggior studi intendere27.

Nella metafora del ruscelletto si legge in filigrana quella di Fortunio («gli auttori dal cui fonte il ruscelletto di questa mia grammatica si derriva28»); Flaminio, con il suo compendio, intende perfezionare lopera, semplificando quello che giudica un «pelago» reso cupo dalla difficoltà e dalla complessità degli esempi per renderlo più accessibile a un giovane del cui ingegno non dubita29, ma che sa impegnato anche in altri studi oltre che nellacquisizione della lingua. Riprendendo poco oltre nella lettera dedicatoria la stessa immagine, scrive:

Et se per aventura alcuni saranno che dicano vana esser istata lopera mia, con ciò sia cosa che molto meglio sia duna fonte bevere che duno canaletto che indi discenda, a questi rispondo che si movano da questa oppenione, se non vogliono essere annoverati tra quelli sciocchi de quai si fa beffe il venusin

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poeta, perciò che egli volendo uno orcioletto riempir dacqua, più volontieri a qualche grande fiume che ad una piccioletta fonte se ne vanno30.

In questa operazione di riduzione dellapparato di esempi31, la situazione che si rileva più spesso prevede un richiamo generico al nome degli autori, laddove in Fortunio era presente una citazione testuale estesa:

Ma cerca li articoli del primo numero maschile è da notare che variatamente si pongono el più de le volte, perciò che quando la dittione seguente incomincia da vocale si dice lo non il, come: lo ostaculo; ma se comincia da consonante si dice il, come: il mio amico. Et questo osserva il Petrarcha. Ma Dante, men limitato poeta e più licentioso, spesso questa regola confunde [Flaminio 1521, p. 257].

Ma degli articoli del minor numero maschile è da sapere che non si pongono senza diferentia, perché, dove la voce seguente comincia da vocale, lo si dice, non il, come Petrarca: «Lo ardente nodo ovio fui dora in hora»; «Loro e le perle e i fior vermigli e bianchi», et così altrove. Et dove la voce che segue ha principio da consonante, il si dice, come «Il mio adversario», «Il successor di Carlo», «Il mal mi preme», «Il cantar nuoce»; et rarissime volte altrimenti disse il Petrarca. Ma Dante senza diferentia molto spesso luno et laltro giunse a consonanti, come nel canto II: «Lo giorno se nandava», et nel canto VII: «Mal dar e mal tener lo mondo pulcro / ha tolto loro», et nel medesimo canto: «Lo buon maestro disse», et nel canto VIII: «E il buon maestro disse: Homai figliuolo», havendo poco innanzi detto: «Lo duca mio discese nella barca», «Lo collo poi con le braccia mavinse», et così in infiniti lochi delli seguenti canti, che troppo a me sarebbe il trascriver tedioso et altrui il leggere [Fortunio 1516, p. 65-66].

Nella semplificazione di un lungo elenco di nomi sovrabbondanti con lappoggio di numerosi esempi tratti da Petrarca e Dante, Flaminio innanzitutto riduce drasticamente la casistica e inoltre, nellultima coppia, propone il solo richiamo a Dante, presente anche in Fortunio, ma omettendo lopzione per lallotropo petrarchesco:

Sono alcuni nomi nel menor numero in o terminanti, li quai nel maggiore non solamente in i ma etiandio in a finiscono, come: cigli, ciglia; castelli, castella; stridi, strida; deti, deta; peccati, peccata, che così usa Dante [Flaminio 1521, p. 252].

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Un ciglio et più cigli et ciglia dir si puote, se lauttorità di Dante appo noi vale, nel canto III del Purgatorio dicendo: «ma lun dei cigli un colpo havea diviso», et nel canto XXIX: «che tutti ardesser disopra dai cigli», et nel canto XIX del Paradiso: «cotal si fece, e sì levai li cigli», et nel canto XV dellInferno: «et sì ver noi aguzzavan le ciglia», et nel VII del Purgatorio: «chinò le ciglia»; Petrarca nel sonetto CLXVI: «gli occhi sereni e le stellanti ciglia», et altrove: «Dal bel seren delle tranquille ciglia». Questi medesimi finimenti ritrovo in queste voci castello, strido, dito: Petrarca nella canzone XXXIII: «per oro, per cittadi o per castella»; Dante nel canto penultimo dellInferno: «dhaver tradito te con le castella», et nel canto XV: «per difender lor ville e lor castelli», et nel canto XVIII: «più e più fossi cingon li castelli». Petrarca nella canzone XXX: «se nol temprasser dolorosi stridi», et nel sonetto CCXXII, et nella canzone ultima: «et ho già da vicin lultime strida». Dante nel canto primo dellInferno: «ove udirai le disperate strida»; Petrarca nel sonetto CLXVI: «deti schietti soavi, a tempo ignudi»; Dante nel canto XII del Purgatorio: «et con le deta della destra scempie». [] Coltella, frutta, letta, ramora, et altri tali si apparano in molti lochi avanti a chi legge la prosa del volgar Cicerone certaldese; però non trascrivo essempi. Il perché io mi aviso doversi seguire quello che più frequentemente usano gli auttori nostri; pur peccati diremo, come Petrarca, non peccata, come Dante [Fortunio 1516, p. 20-21; p. 23-24].

In alcuni casi la citazione è presente, anche se in forma meno evidente32:

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In loco de voi si pone vi, come: dissivi o vi dissi; et in terza persona parlando di voce maschile: dissili over li dissi; perciò che parlando di femminile dirassi: le diss<i> et non li dissi, le scrissi non li scrissi; né potrassi, parlando di femina, dire: un pensier angoscia dalli ma dalle, né basciali el piede, ma basciale, né dilli ma dille. Questo è sempre osservato dal Petrarcha, da Dante e dal Boccaccio [Flaminio 1521, p. 255].

In loco veramente di voi si pone vi, come dissevi, fecivi, vi dissi, vi feci; né bisognano a ciò essempi. Et in terza persona singular dissiti o ti dissi, dissili o li dissi, parlando di voce maschile; perché, parlando di feminile, dirassi le dissi et non li dissi, come Petrarca nella canzone IV, parlando della memoria, disse: «et un pensier che solo angoscia dàlle», et nel sonetto CLXXVII: «Basciale il piede, o la man bella e bianca; / dille, il basciar sie in vece di parole», et così in più lochi; et Dante, parlando di Beatrice: «Dille, dille! / che ti diseti con le dolci stille». Et questo sempre osserva il Boccaccio [] [Fortunio 1516, p. 62-63].

La canzone di Cino da Pistoia, qui attribuita a Guido Cavalcanti, è richiamata in due punti che interrompono il paradigma dei verbi haggio e sono33:

Io haverò over haraggio, come usa Guido Cavalcante [] Io sarò over saraggio, secondo la inflessione de Guido Cavalcante [Flaminio 1521, p. 258].

Da questo finimento Guido Cavalcante prese il futuro tempo nella sua canzone VII, che incomincia «Tanta paura mè giunta damor», dicendo: «I non ho posa mai e non haraggio, / pauroso son sempre, e più saraggio». Habbo solo Dante dice, et solamente due volte, luna nel canto XV dellInferno: «et quanto

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lhabbo grato, in fin chio vivo», et nel canto XXXII: «più pienamente; ma perché non lhabbo» [Fortunio 1516, p. 88-89].

Sono pochi i casi in cui invece il Flaminio inserisce un esempio testuale non presente nel suo modello; a sostegno del paragrafo aggiunto dedicato al pronome chente34, per esempio, allega tre esempi tratti dal Decameron:

Chente quello stesso dinota che quale, et sempre qualità significa, et ponesi così nel maggior numero come nel minore: Boccaccio nella giornata VIII, nella novella del scolare: «Io temo che costui non me habbia voluta dare una notte chente io diedi allui». Et poco dissotto: «Quantunque tu molto la mia bellezza biasimi, breve et pocho cara mostrandola; la quale, chente che ella insieme con quella delle altre si sia, pur so che se per altro non fusse di haver chara, sì è perciò che vaghezza et trastullo et diletto è della giovanezza degli huomeni». Il medesimo nella iscusatione de il Decameron, parlando delle sue novelle, dice: «Le quai, chente che ell<e> si siano, et nuocere et giovare possono» [Flaminio 1521, p. 256].

In un altro paragrafo presente solo nel Compendio, sulla cui importanza si sofferma Paolo Bongrani nellIntroduzione, compare un riferimento al Cortegiano del Castiglione35:

Altresì per simelmente usa Dante et il Boccaccio in molti luoghi. Nelle rime dil Petrarcha mai tale dittione non si trova. Onde noi questa voce et altre simili, tropo antiche né mai dal Petrarcha usate, come: guari, testé, testeso, avaccio, forsennato, non facilmente devemo usare, sì come lo illustre Conte Baldesera Castiglione ci ammonisse nel suo Cortigiano. [Flaminio 1521, p. 262]

In un caso lesempio non presente nel modello si giustifica con la volontà esplicita di allargare la possibilità di un uso che Fortunio aveva registrato con un unico esempio dantesco:

Presto in tal significatione come nome sovente si ritrova, ma posto adverbialmente (sì come dice il Fortunio) non si legge, senone una volta appo Dante, nel canto VII del Purgatorio, ove dice: «Alcun inditio / dà noi, per che venir possiam più presto». Ma io trovo questa particola anchora così posta dal

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Boccaccio nella giornata IX, nelle novella de Pinuccio, ove dice: «Ma pur di giorno in giorno moltiplicando lardore, venne desiderio a Pinuccio doversi acconciamente et presto con costei ritrovare» [Flaminio 1521, p. 263].

In tal significatione adverbialmente questa voce presto non ritrovo usata, se nonne una volta da Dante nel canto VII del Purgatorio, ove dice: «alcun inditio / dà noi per che venir possiam più presto» [Fortunio 1516, p. 115].

Se nella prima grammatica della lingua volgare, dunque, le citazioni dautore costituivano lossatura della trattazione e ogni regola veniva convalidata da esempi, sia in positivo sia in negativo, nel Compendio di Flaminio, in cui il principale intento dellopera è la prospettiva didattica, le citazioni non vengono considerate essenziali, anzi si ritiene più opportuno eliminarle per rendere più agevole lacquisizione della lingua e per non sottrarre tempo ad altri e più impegnativi studi: lopera, infatti, è programmaticamente offerta non «alli otiosi», ma a un giovane che, «per esser in maggior studi occupato», non può «tanto di tempo nelle Regole del Fortunio porre di quanto egli ha mestieri36».

«Leggere gli scrittori con giudicio»: citazioni e autorità nei compendi e nelle grammatiche bembiane

Se le Regole di Fortunio sono la prima grammatica del volgare a stampa, un ruolo centrale nella «questione della lingua» del Cinquecento, per la sua indiscutibile influenza nella successiva stabilizzazione della norma linguistica, è rivestito, come è noto, dalle Prose della volgar lingua37:

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nella parte più propriamente grammaticale, il terzo libro del dialogo38, numerose sono le citazioni soprattutto da Boccaccio e Petrarca, quindi da Dante e da altri autori del Due-Trecento39.

Il canone, limitato in Fortunio alle Tre Corone, si apre con Bembo a includere i volgarizzamenti di Pietro de Crescenzi e di Guido delle Colonne, alcuni poeti del Duecento per la poesia (in particolare Guido Guinizzelli, Guido Cavalcanti, il Dante lirico e Cino da Pistoia, che, come ha ben visto Corrado Bologna, si dispongono secondo una linea stilnovista orientata in funzione di Petrarca)40 e il Novellino e la Nuova cronica di Giovanni Villani41 per la prosa.

Ci si propone in questa sede di analizzare soprattutto come avviene il trattamento delle citazioni nelle «riduzioni a metodo» dellopera bembiana, verificando cioè quale funzione venga assegnata dai grammatici allesempio dautore nel passaggio da un trattato destinato a un pubblico colto, pervaso dal riflesso di dibattiti sulla natura del volgare e basato sul primato della letteratura a opere che hanno come principale intento

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quello didattico e come pubblico ideale quanti desiderano acquisire la lingua.

Già Ciro Trabalza, citando I fonti toscani di Orazio Lombardelli (1598), notava:

La grammatica del Bembo è tuttaltro che metodica. Già sul finir del Cinquecento il Lombardelli ne suoi noti Fonti, osserverà che le Prose «richiedon leggitore introdotto bene, attento, assentito e valoroso, che ne sappia cavar que tesori, che vi son quasimente affogati nel Dialogo, ed in una maniera di trattarli anzi stravagante, che no42».

Il tentativo di normalizzazione e sistematizzazione avviene dunque in una prima fase con laggiunta di indici43, quindi con opere di riduzione a metodo più o meno dipendenti dal modello bembiano. Come evidenzia Bongrani nella recensione al volume di Pasquale Sabbatino Il modello bembiano a Napoli nel Cinquecento44, nella sua Storia della grammatica italiana Ciro Trabalza annoverava solo due compendi del terzo libro delle Prose: la Grammatica volgare dellAccarisio (Venezia, 1538) e le Regole della Toschana lingua di Vincentio Menni (Perugia, 1568)45. Pasquale Sabbatino ha inoltre segnalato in area napoletana lesistenza di Intorno alla volgar lingua di Luca Peto, che ha tradizione solo mano-scritta46, e ha offerto unedizione delle Prose del Bembo ridotte a metodo del Flaminio, del 156947. A questi si aggiunge inoltre lopera di Reginaldo

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Accetto, il Thesoro della volgar lingua (Napoli, 1572), in cui il magistero di Bembo è «miscidato» con le Regole del Fortunio e le Osservazioni del Dolce48. Attenendosi al limite cronologico stabilito per la presente ricerca, lattenzione si concentrerà qui sulla Grammatica volgare dellAcarisio49.

La Grammatica volgare di Acarisio viene definita da Trabalza come uno di quegli «zibaldoni tra lessicali e grammaticali e spositivi quali eran richiesti dai bisogni di chi sintroduce nello studio e nel culto del volgare con la guida di Bembo50».

Nella prima versione era molto più evidente lintento didattico e la grammatica veniva proposta come uno studio propedeutico alla lettura diretta dei migliori autori:

Io me sonno sforzato di scemare la fatica alli discepoli, à cui era mistiero, che simili regole da sé ciascuno si ordinasse, perché altramente, ò che con lungo tempo haverebbe imparato, ò che pensando di non potere imparare, lasciato haverebbe lincominciato studio, tanto necessario et utile. Pigliate adunque ingegnosi discepoli questi miei principij, et nella mente vostra adduceteli, et imparati che gli haverete, leggete le prose del Bembo, e l Boccaccio, e l Petrarcha, Dante, et gli altri professori di questa lingua51.

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Se nella lettera dedicatoria alla prima edizione Acarisio afferma che le sue regole «saranno spositioni delle prose del Bembo in brevità redotte52», nella versione del 1543 il nome del Bembo non compare nella dedicatoria e il suo magistero viene in più punti contraddetto. Lesemplificazione dautore svolge in questambito un ruolo centrale; gli esempi, drasticamente ridotti nel 1536, riaffiorano nella nuova versione, per lo più ricalcando quelli di Bembo; in molti casi, però, Acarisio attinge dagli autori altre occorrenze che gli consentono di confutare singoli aspetti della trattazione bembiana.

Così, subito nelle prime pagine contesta unaffermazione sulluso dellarticolo («ben che il Bembo dica che Il non hà nel numero del più se non larticolo I; et che larticolo I è il plurale dellarticolo Lo53») attraverso il ricorso a numerosi luoghi di Boccaccio e addirittura a Bembo stesso, che nella pratica della sua scrittura si comporta in maniera opposta a quanto prescrive nelle regole: «et egli stesso dove ragiona de nomi dice li due54». Allo stesso modo, trattando degli avverbi locali, per dimostrare come sia inesatta laffermazione del Bembo che luso della «particola Là» fosse proprio solo della poesia, porta a sostegno due passi del Decameron55. Conclude la trattazione grammaticale un elenco di undici pagine su due colonne di voci «simili a le Latine» usate dal Boccaccio56, che serve a rintuzzare chi afferma che sia necessario discostarsi dalle voci latine: obiettivo polemico non dichiarato, ma chiaramente individuabile, è il Fortunio57. Introducendo questo elenco, Acarisio torna a esplicitare il criterio che bisogna seguire nellimitazione dei modelli e che lo ha guidato nella scelta degli esempi su cui fondare la sua grammatica, che, pur nascendo come schematizzazione di quella di Bembo, non lo fa in modo acritico:

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Noi dobbiamo seguire le pedate de gli auttori da noi approvati, et usare le voci da loro usate, et altre simili, le quali da tutti sono intese, et quelle che meno hanno di leggiadria, che in bocca del popolo sono, schivare58.

Nel corso del secolo, altre opere grammaticali, pur non inserendosi programmaticamente nella linea di manualizzazione delle Prose alla quale può essere ascritta la Grammatica dellAcarisio, sono grandemente debitrici dellopera bembiana; già Sansovino, inserendo le Regole grammaticali di Iacomo Gabriele nella sua raccolta nel 1562, avverte: «In questo Dialogo adunque, voi havrete le regole medesime del Bembo, ma piu soccinte et forse piu chiare, con qualche avvertimento di più59».

Le Regole grammaticali escono nel 1545 (Venezia, Giovanni de Farri) senza lautorizzazione dellautore, che nel 1548 provvederà a una revisione60, giudicata da Pierluigi Ortolano come «ledizione del 1545 palesemente ampliata e non una nuova edizione della grammatica caratterizzata da correzioni formali rispetto alla precedente redazione dellopera (come lautore sosteneva nella dedicatoria delledizione del 1548)61».

Lopera si struttura sotto forma di un dialogo che non è, come nel caso bembiano, espediente narrativo per la messa in scena delle differenti tesi, ma simulazione di uno scambio tra docente e discente, dove chi impara si limita ad avanzare qualche dubbio e a rivolgere timide domande allinsegnante. Giacomo Gabriele, che nella finzione riveste la parte del discepolo che raccoglie gli insegnamenti dello zio, il più noto Trifone Gabriele62, pubblicando il dialogo si fa intermediario di questa

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lezione affinché anche nuovi studiosi della lingua volgare ne possano godere i frutti.

Gabriele si propone la «brevità» come obiettivo:

Con quella più brevità, che mi sarà dal moderator de cieli conceduta, et non come gli altri ampiamente fanno, ti narrerò volontieri quello che io ho di questa favella in molto tempo da diversi autori raccolto. Scegliendo solamente quelle voci che possano far bello et leggiadro il parlare pensatamente, in modo che, se non minganno, satisfato rimarrai63.

La seconda redazione dellopera si accresce soprattutto attraverso laggiunta di esempi64, che non sono dettati però dalla volontà di una maggiore precisione didattica, ma, sulla scia degli sviluppi della questione della lingua e del sempre più decisivo affermarsi del canone delle Tre Corone, dallintento di adeguarsi alle Prose del Bembo65, esplicitamente indicato come modello; nella seconda versione trova spazio anche un verso tratto dagli Asolani di Bembo, significativamente definito «ornamento del secolo nostro66»:

Sarà voce di maschio, al numero del meno lo orecchio dicendosi come fece il Bembo, ornamento del secolo nostro ne suoi Asolani:

Così quello orecchio che amore non purga, a le picchianti dolcezze non può dar via67.

Di solito, Gabriele si limita ad aggiungere qualche citazione, per lo più tratta da Petrarca, utile solo ad ampliare la casistica o a

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convalidare affermazioni che nella prima versione non erano supportate da esempi:

Appresso essi duo ultimi articoli ad ogni voce si danno che da vocale comincia, oltra le condition poste non havendo più a luno che a laltro riguardo, pure gli più sovente ne buoni scrittori si trova:

Gli angeli eletti, et lanime beate.

Et altrove:

Qual Pharaone in perseguir li hebrei.

Quelli de la femina, veramente, o da vocale la parola a cui essi dinanzi dimorano, overo da consonante incominciando, sempre ad uno istesso modo si dicono: la stella, la acqua, le stelle, le acque. Il Petrarca:

Questa Phenice da la aurata piuma.

Et:

La bella donna che cotanto amavi.

Et altrove:

Et le chiome hor avolte in perle e n gemme.

Et:

Col disio non potendo mover le ali68.

Sfruttando la forma del dialogo, in alcuni casi Gabriele inserisce alcune aggiunte, motivandole come richiesta di chiarimento da parte del suo personaggio; per esempio, a proposito dei segni dei casi Iacomo chiede: «Anzi a me pare che faccia mestiero che io li sappia, come oscuri et difficili che mi sono a ciò che in questa parte scrivendo non possa errare. Onde vi prego di gratia che non vi sia grave far sì che essi et palesi et agevoli mi siano69

In entrambe le edizioni lo spazio per lesemplificazione oscilla tra il numero minimo richiesto dalla chiarezza dellesposizione e il gusto della lettura del passo dautore:

Parmi che bastar ti debbiano gli esempi che io ti ho sopra queste voci recati, quegli de laltre hora non mi sovengono. Credo bene che essi si ritroveriano,

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se non ne la legata, almeno ne la sciolta orazione, il campo de la quale molto più largo et spatioso è che quello de laltra70.

Si leggeva inoltre nelledizione del 1545:

Anchora che io non creda, che faccia mestiero darti di queste voci gli exempi, per essere usatissime, pure istimando, che di esse ti sarebbe caro udirgli, volentieri te gli darò71.

In alcuni casi Gabriele porta a paragone luso latino per spiegare meglio una forma del volgare: confronta per esempio il valore temporale di anzi con la medesima funzione dellavverbio ante in Virgilio («Ante Iovem nulli subigebant arva coloni», Georgiche, I, 125)72.

Per i suoi Fondamenti del parlar thoscano (1549)73 Rinaldo Corso attinge quasi esclusivamente a esempi di Petrarca per la poesia e di Boccaccio per la prosa, definendoli «i due lumi della lingua nostra74». Dante viene citato esplicitamente, trattando delle «Figure», come esempio di uno stile da evitare: «Il parlar di cose alte con basse parole, nel qual vitio si mostrò assai licentioso Dante75»; in tutta lopera si contano in totale meno di dieci passi danteschi, spesso giudicati come costruzioni figurate: è il caso del verso «Farinata, el Teggiaio, che fur sì degni», ripreso due volte come esempio di un uso tipico dei poeti76.

Se si esclude il Compendio del Flaminio, tra le grammatiche che costituiscono il corpus del presente lavoro, è proprio nei Fondamenti del parlar thoscano che si fa meno ricorso allesemplificazione dautore: la maggior parte delle citazioni sono riprese dallopera di Bembo; Corso inserisce inoltre alcuni exempla ficta nella trattazione, in molti casi costruendo frasi in cui compaiono come personaggi lui stesso e la moglie, dedicataria dellopera77,

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come in «Rinaldo ama Hiparcha smisuratamente78», oppure Petrarca: «Morto il Petrarcha morì il fior della poesia Toschana79».

Ulteriore prodotto grammaticale delleditoria veneziana sono i quattro libri80 delle Osservazioni di Lodovico Dolce (1550)81.

Nella lettera dedicatoria a Gabriele Giolito de Ferrari, Dolce riconosce il magistero sia di Fortunio sia di Bembo, ma, giudicando luno di essere «più copioso nelle cose necessarie» e accusando laltro di rivolgersi «solamente a dotti», giustifica la sua grammatica come rivolta soprattutto a coloro «i quali per non havere alcuno intendimento delle Lettere Latine, niun frutto possono raccogliere, o pochissimo dellopre loro82». Dolce si paragona alla cote che aguzza il coltello e si pone nei confronti dei «novelli discepoli [che] hanno a caminare verso il colle della Thoscana eloquenza» come colui che di notte portando il lume in mano mostra il sentiero a chi lo segue83.

Nelle Osservationi la maggior parte degli esempi è tratta da Petrarca (dal Canzoniere e in misura minore dai Trionfi), ma sono presenti anche altri autori, come Guido Cavalcanti, Franco Sacchetti, Pietro Bembo, Jacopo Sannazaro, Ludovico Ariosto, fino ai contemporanei come Luigi Pulci, Bernardo Tasso, Francesco Berni, Girolamo Muzio; alcuni di questi autori, non ancora entrati nel canone di altri grammatici, già sporadicamente presenti nella prima edizione del 1550, nella quale

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Dolce citava lArcadia di Sannazaro84, gli Asolani di Bembo85, il Furioso di Ariosto86, troveranno sempre più posto nelle redazioni successive.

Se nelle prime grammatiche analizzate lautorità dei classici volgari era indiscussa, man mano che il volgare assume una sua fisionomia precisa, i grammatici iniziano ad applicare un criterio più selettivo nella scelta degli esempi: Dolce arriva anche a contrapporre luso del Boccaccio, che si discosta alcune volte nel Decameron da una regola, e quello dei moderni, sottolineando che «il Bembo e i buoni scrittori dhoggidì lhanno sempre osservata87».

Nellattenzione per la scelta degli esempi influisce sicuramente lattività editoriale del Dolce88: così, a proposito di un passo di Petrarca che nei «libri stampati» portava una lezione discorde rispetto alla norma, Dolce rivendica di averlo restituito alla lezione originale nella sua edizione del 1547 per i tipi di Giolito grazie alla consultazione dellautografo, che era in possesso di Pietro Bembo89.

Gli usi peregrini attestati da Petrarca o Boccaccio vengono registrati, ma Dolce avverte in più punti che limitazione non deve essere acritica: «Bisogna adunque, che ci serviamo del costume e dellautorità90»; «Ma debbonsi leggere gli scrittori con giudicio; e seguitarli in quello, onde essi sono più copiosi: e appresso habbiamo a considerar, che tal voce, dove ella fu posta dal Petrarca, o da altro scrittore, sta bene che altrove non quadrerebbe91». Rivolgendosi ai giovani che imparano la lingua, ribadisce infine in conclusione del libro III:

Gioverà più al giovane, studioso della Thoscana favella, leggere accuratamente le carte de buoni scrittori, che lo havere apparato benissimo tutti i precetti

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della grammatica, non meno, che della ortografia, e delle distintioni, che in questi tre libri si contengono. Anzi non potrà alcuno pienamente apprendergli, se insieme non procaccierà di farsi famigliari, col mezzo della continova lettione, il Boccaccio, et il Petrarca; da i quali tutte le nostre osservationi sono prese. Habbiano adunque glimparanti le rime delluno, e le prose dellaltro (cioè Il libro delle dieci giornate) di continovo alle mani; né lascino da parte Dante. Percioche ancora che egli non sia (come nel vero non si può negare) molto colto e delle regole pieno osservatore; dal suo divino Poema molte belle forme di dire si potranno apprendere92.

Le aperture del canone nel secondo Cinquecento

Un ricorso quasi esclusivo a Dante, Petrarca e Boccaccio si registra nelle Regole della lingua fiorentina di Pierfrancesco Giambullari93, che pure nella lettera dedicatoria a Francesco de Medici dichiara di essersi proposto di «mettere insieme, sotto nome et forma di Regole, quanto io ho saputo ritrarre de l vero uso degli antichi buoni scrittori et de miglior moderni che abbiamo94». Contrariamente a quanto affermato, nel trattato sono rare le citazioni di autori contemporanei95.

Versi di Luigi Alamanni e Lodovico Martelli sono inseriti nel capitolo dedicato alle costruzioni figurate, dove esempi letterari in volgare si alternano a modelli latini e greci: alla citazione di Alamanni segue, posta sullo stesso piano e senza alcuna indicazione che si tratti di un

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volgarizzamento, una frase tratta da una orazione del greco Iperide96; un brano di unegloga di Martelli esemplifica la prosopopea insieme a una canzone di Dante e a rimandi a Cicerone e Virgilio97.

La ricchissima esemplificazione, che prevede anche autori del Duecento, come Franceschino degli Albizzi o Dante da Maiano, si basa però in maniera preponderante sulle Tre Corone, con esempi dautore spesso alternati con exempla ficta; la maggior parte degli esempi di reggenze verbali98 è tratta dal Decameron, con pochi casi di citazioni dantesche e petrarchesche; a questi esempi dautore si alternano brani che Ilaria Bonomi considera «creati dallautore stesso (o che, comunque, ho considerato tali, non avendo per essi individuato una fonte letteraria)99».

La dichiarazione in apertura relativa al ruolo dei moderni non va dunque intesa come relativa agli esempi proposti, ma come atteggiamento mentale nei confronti di una lingua che ha bisogno di essere in qualche modo dominata e regolamentata dal grammatico, ma che si propone come oggetto vivo:

La retta regola non è quella solamente, che i migliori et più approvati scrittori osservarono ne loro scritti, il che ha luogo propriamente nelle lingue già morte: ma quella ancora delluso comune delle persone qualificate, che la parlano et che la scrivono ne tempi nostri, et che la parleranno et la scriveranno per lo advenire, mentre durerà questa lingua nello esser suo100.

Pur nellalveo del canone delineato, maggiori aperture si avranno nella seconda metà del secolo; si offrirà in questa sede solo qualche

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cenno relativo a due opere particolarmente significative: la Giunta fatta al ragionamento degli articoli et de verbi di messer Pietro Bembo di Lodovico Castelvetro101, che si struttura come un commento alle Prose di Bembo, e gli Avvertimenti della lingua sopra l Decamerone di Lionardo Salviati, fondatore dellAccademia della Crusca, per linflusso che le teorie linguistiche dellautore ebbero nella realizzazione del Vocabolario e dunque nella successiva definizione del canone.

In Castelvetro prevale la linea dantesca102 e sono frequenti le citazioni da autori del Due e Trecento, solo in parte riprese dalle Prose, per le quali Castelvetro ricorre anche allo spoglio delle migliori edizioni disponibili, tra cui la ristampa veneziana della Giuntina di rime antiche del 1532: come ha dimostrato Matteo Motolese, da lì provengono le citazioni da Onesto da Bologna, Dante da Maiano, Fazio degli Uberti, Giacomo da Lentini, Cino da Pistoia, Guido Cavalcanti, Guittone dArezzo103. Gli esempi presi da questi autori rappresentano un uso antico, che viene spesso giudicato negativamente da Castelvetro; un verso di Fazio degli Uberti ricorre in due occasioni con la chiosa «vie più che arditamente disse»:

chogni dolor sospir, che al cuor saduna104.

Luso dellarticolo testimoniato da un distico di una «ballata antica» di Franco Sacchetti viene giudicato proprio «più della favella vile che della nobile105»; allo stesso modo Castelvetro rappresenta un uso degli antichi attraverso una serie di attestazioni da Dante da Maiano106 e Cione Ballione.

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Negli Avvertimenti della lingua sopra l Decamerone di Lionardo Salviati107, che, pur non essendo una vera e propria grammatica, affrontano alcuni dei principali aspetti del dibattito grammaticale cinquecentesco, viene significativamente ampliato il canone; come ha notato Claudio Marazzini, Salviati «trasformò la selettiva e aristocratica teoria umanistica e ciceroniana della lingua, propria di Bembo, in qualche cosa di molto diverso»: accanto a Dante, Petrarca e Boccaccio «trovavano posto scrittori minori e minimi, spesso di livello popolare, spesso privi di intento darte, i quali non avevano avuto altro merito se non quello di essere vissuti nel Trecento e di essere fiorentini108».

Sarà sufficiente scorrere le tavole poste in apertura del volume per rendersi conto dellampio ventaglio di autori citati, in un arco cronologico che non si estende oltre la fine del Trecento; secondo Salviati, infatti, le regole del volgare si devono prendere

da nostri vecchi Autori, cioè da quelli, che scrissero dallanno milletrecento, fino al millequattrocento: perciocché innanzi non era ancora venuto al colmo del suo bel fiore il linguaggio; e dopo, senza alcun dubbio, subitamente diede principio a sfiorire109.

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Lesempio dautore tra dibattito ed educazione linguistica: un primo bilancio

Lo spoglio delle citazioni di brani dautore è stato effettuato, secondo i criteri esplicitati nella premessa, a cui si rimanda, sulle opere grammaticali edite prima del 1552110; si propone nella tabella seguente il numero di occorrenze delle citazioni dalle opere di Petrarca, Dante e Boccaccio111.

Fortunio

Flaminio

Bembo

Acarisio

Gabriele

Corso

Dolce

Giambullari

RVF

281

22

114

48

144

90

247

469

Decameron

49

8

289

149

3

52

56

659

Inferno

251

5

24

16

10

5

15

104

Purgatorio

99

5

11

3

11

/

5

115

Paradiso

69

/

3

2

2

1

1

34

Boccaccio

/

/

10

/

/

1

/

4

Dante

12

/

8

/

/

1

/

7

Trionfi

21

2

4

13

10

9

42

23

Il grafico, in cui vengono riportate solo le occorrenze relative a RVF, Decameron e Commedia, mette in evidenza innanzitutto il maggiore o minore ricorso di ogni grammatico agli esempi delle Tre

210

Corone; si evidenzia che, mentre Petrarca costituisce un modello condiviso, è più varia la presenza di Dante e Boccaccio: la Commedia, maggioritaria in Fortunio, è solo sporadicamente presente nella maggior parte delle grammatiche; di Boccaccio, spicca la quasi totale assenza in Gabriele.

Fortunio

Flaminio

Bembo

Acarisio

Gabriele

Corso

Dolce

Giambullari

0 200 400 600 800 1000 1200 1400 1600

Lo spoglio complessivo e la visione dinsieme dei dati relativi alle citazioni dei singoli versi e delle singole novelle112 ha permesso inoltre di verificare quali sono i testi che maggiormente sono stati presi a modello dai grammatici.

Per Petrarca, si nota innanzitutto che i grammatici attingono soprattutto alle rime in vita di Laura, con due eccezioni principali rappresentate da RVF, 360 e RVF, 366; tra le liriche più citate, si colloca il testo proemiale, che Dolce cita addirittura per intero113. Il testo che in assoluto conta il maggior numero di occorrenze è però RVF, 23114, citata in tutte le grammatiche del corpus e soprattutto da Fortunio (13 occorrenze) e da Giambullari (47 occorrenze); significative anche le 4 occorrenze in Flaminio, che costituiscono quasi un decimo del totale delle citazioni del Compendio. Tra i Trionfi, citati per lo più da

RVF

Decameron

Commedia

211

Fortunio e Dolce, vengono selezionati soprattutto brani dal Trionfo dAmore e dal Trionfo della Morte.

Nella scelta degli esempi dal Decameron raramente i grammatici si discostano dalle indicazioni di Bembo, che indicava come modello la prosa di Boccaccio nelle sezioni diegetiche e non in quelle dialogiche:

Né il Boccaccio altresì con la bocca del popolo ragionò; quantunque alle prose ella molto meno si disconvenga, che al verso. Che come che egli alcuna volta, massimamente nelle novelle, secondo le proposte materie, persone di volgo a ragionare traponendo, singegnasse di farle parlare con le voci con le quali il volgo parlava, nondimeno egli si vede che in tutto l corpo delle composizioni sue esso è così di belle figure, di vaghi modi e dal popolo non usati, ripieno, che meraviglia non è se egli ancora vive, e lunghissimi secoli viverà115.

Numerose sono quindi le occorrenze di esempi tratti dal Proemio e dalla cornice, ma anche da alcune novelle già diventate canoniche, come quella di Ser Ciappelletto (Dec., I 1) o di Andreuccio da Perugia (Dec., II 5). Le citazioni da altre opere di Boccaccio sono limitate quasi esclusivamente allElegia di Madonna Fiammetta.

La frequenza di citazioni dantesche risente ovviamente dellideale di volgare del grammatico e in alcuni casi, come si è già specificato, il verso della Commedia viene portato come esempio di una forma da evitare. Se si escludono Fortunio e Giambullari, che ammettono il modello dantesco quasi al pari di quello petrarchesco, le citazioni dantesche diventano sporadiche, soprattutto per lultima cantica.

Dallo spoglio del corpus è inoltre risultata con particolare evidenza la ricorrenza di alcuni passi. Come ha notato Gunver Skytte:

Col Fortunio, e soprattutto col Bembo, inizia il lungo elenco di esempi «vaganti» che si tramandano di grammatica in grammatica fino ai giorni nostri116.

Alcuni esempi transitano da opera a opera spesso in maniera automatica, come citazioni di seconda mano; questo è evidente soprattutto nei compendi, dove non vengono corretti gli errori di attribuzione: si

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pensi al caso già esaminato della lirica di Cino attribuita a Cavalcanti sia da Fortunio sia da Flaminio. Si può spiegare come ripreso direttamente da Fortunio anche lesempio «Felice terra, ch e begli occhi ammanta» presente nelle Osservationi di Lodovico Dolce, che contamina il primo emistichio di RVF, 276, 11 e il secondo di RVF, 297, 7, pertinente per la citazione della forma ammantare117. La citazione di un passo può servire a stabilire la successione cronologica di due opere: è quanto dimostra Mirko Tavosanis a proposito della lezione di Dec., VII presente sia in Bembo sia in Fortunio118.

Come si è visto, spesso invece si riprende lo stesso esempio del modello per approfondirlo oppure per confutarlo, anche senza dichiarare lobiettivo polemico: se Corso aveva accennato, come possibile uso licenzioso di Petrarca, «Il Pet. forse in quel sonetto Cara la vita, e dopo di lei mi pare119», Dolce, nel riprendere lo stesso passo, avrebbe precisato: «E se il Petrarca si abbassò alquanto in quel sonetto [] egli ciò fece, per serbar la convenevolezza di Madonna Laura: che, come femina, a parlare con altra femina introduceva120».

Danilo Poggiogalli ha ricostruito numerose querelles intorno a punti critici del dibattito grammaticale cinquecentesco121, nelle quali lesempio dautore viene allegato a sostegno della propria tesi oppure sembra invalidare una regola e necessita quindi di essere discusso: interessante in particolare lanalisi del caso di latrando in Inf., XXXI, 105, che costituisce «una delle più violente tirate contro Dante che si trovino nelle Prose. Dante viene biasimato per aver usato come soggetto del gerundio il pronome personale dorigine obliqua lei, ma tale biasimo va ben oltre questo “errore”, perché finisce con lestendersi a tutta la lingua del poeta, che non va presa a modello», e il conseguente comportamento dei vari grammatici in relazione alla loro considerazione complessiva del modello dantesco122.

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I primi risultati di questa ricerca123 consentono di considerare il ricorso agli esempi dautore nelle grammatiche da diverse prospettive: come riflesso dellidea di volgare del grammatico, come strumento di dibattito e come efficace elemento didattico. La selezione di citazioni assunte non solo come modello, ma anche come casistica di errori da evitare, caratterizza limpianto normativo della maggior parte delle grammatiche volgari. Attraverso la cospicua presenza di esempi dautore, soprattutto nei compendi e nelle grammatiche interessate più alla prospettiva didattica che al dibattito teorico, vengono messi a disposizione degli studiosi concreti modelli di riferimento per la pratica della scrittura.

Cecilia Demuru

Università di Pavia

1 D. Poggiogalli, La sintassi nelle grammatiche del Cinquecento, Firenze, presso lAccademia, 1999, p. 16.

2 Dove non diversamente specificato per ragioni particolari, di ogni opera si prende in considerazione leditio princeps, con eventuali informazioni relative a varianti di rilievo nelle versioni successive. Secondo un criterio di uniformità, le opere si citano con nome dellautore, anno della prima edizione e numero di pagina delledizione di riferimento, anche nei casi in cui ledizione critica presenti una suddivisione in paragrafi. Nei casi in cui è disponibile ledizione critica, per lindividuazione delle citazioni si è fatto riferimento agli indici o alle note; quando sono state consultate edizioni che non dispongono di questi apparati, si è proceduto a uno spoglio.

3 Se si esclude, naturalmente, la Grammatichetta di Leon Battista Alberti, che però non ebbe alcuna diffusione: trasmessa dal codice Reginense Latino 1370 della Biblioteca Apostolica Vaticana, è stata edita per la prima volta da Ciro Trabalza in appendice alla Storia della grammatica italiana, Milano, Hoepli, 1908 [ristampa anastatica Bologna, Forni, 1963]; nel 1964 Cecil Grayson ne ha procurato una prima edizione critica (con riproduzione fotografica integrale; Bologna, Commissione per i testi di lingua); Giuseppe Patota ha curato unedizione critica nel 1996 (Roma, Salerno).

4 Per un inquadramento generale si rimanda a M. Vitale, La questione della lingua, nuova edizione, Palermo, Palumbo, 1984; C. Marazzini, Il secondo Cinquecento e il Seicento, Bologna, il Mulino, 1993; P. Trovato, Il primo Cinquecento, Bologna, il Mulino, 1994; in particolare sulla grammatica si vedano G. A. Padley, Grammatical Theory in Western Europe 1500-1700. Trends in Vernacular Grammar, II, Cambridge, Cambridge University Press, 1988; T. Poggi Salani, «Italienisch: Grammatikographie / Storia delle grammatiche», Lexikon der Romanistischen Linguistik, IV, Italienisch, Korsisch, Sardisch / Italiano, corso, sardo, ed. M. Holtus, C. Metzeltin e C. Schmitt, Tübingen, Niemeyer, 1988, p. 774-786; G. Patota, «I percorsi grammaticali», Storia della lingua italiana, I, ed. L. Serianni e P. Trifone, Torino, Einaudi, 1993, p. 93-137; M. Tavoni,
«Scrivere la grammatica. Appunti sulle prime grammatiche dellitaliano manoscritte e a stampa», Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa, XXVIII, 1993, p. 759-796; I. Bonomi, La grammaticografia italiana attraverso i secoli, Milano, CUEM, 1998; C. Robustelli, Grammatici italiani del Cinque e Seicento. Vie daccesso ai testi, Modena, Mucchi, 2006.

5 Un caso particolare è rappresentato da Marco Antonio «Ateneo» Carlino. Fermo restando il magistero di Petrarca, lAteneo seleziona diversi modelli di riferimento per la sua Gramatica volgar (Napoli, Giannes Sultzbach, 1533): gli Asolani del Bembo e lArcadia di Sannazaro. Come ha notato Maria Corti: «Se interesse quindi può suscitare lAteneo, ciò non accade sul terreno teorico della questione della lingua, ove egli gioca il ruolo di uno scialbo epigono, bensì su quello delle opzioni e rifiuti degli scrittori da assumere a modello: egli sostituisce a Dante e al Boccaccio il Sannazaro e il Bembo, con particolari conseguenze linguistiche nella sua prassi di grammatico, in quanto lauctoritas del nuovo modello gli giustifica sul piano della lingua comune alcuni tipici napoletanismi», M. Corti, Nuovi metodi e fantasmi, Milano, Feltrinelli, 2001, p. 218-249, in particolare p. 245. La scelta dellautore napoletano è supportata anche dal giudizio del veneto Trissino, che lo indicava a modello nel Castellano.

6 Giovan Francesco Fortunio, Regole grammaticali della volgar lingua, ed. B. Richardson, Roma/Padova, Antenore, 2001, p. 24.

7 Leccezione più evidente è costituita da Gian Giorgio Trissino, Grammatichetta, Stampata in Vicenza per Tolomeo Ianiculo, 1529, che si legge oggi in Gian Giorgio Trissino, Scritti linguistici, ed. A. Castelvecchi, Roma, Salerno, 1986; come ha notato Alberto Castelvecchi, «è, intenzionalmente, una grammatica del volgare senza autori, senza letteratura. Essa si propone fin troppo trasparentemente di fornire un semplice elenco di forme, con specchietti di base, e con brevi passi di riepilogo», Introduzione a Gian Giorgio Trissino, Scritti linguistici, p. LV; nella Grammatichetta è presente ununica citazione dautore tratta dal Canzoniere, ma senza nessuna attribuzione a Petrarca: nel capitolo relativo alle preposizioni Trissino cita «che tanti affanni huom mai sotto la luna» (RVF, CCXXXVII, 10), Gian Giorgio Trissino, Scritti linguistici, p. 167.

8 Vengono accolti nelle statistiche solo quei casi in cui la citazione di un lemma riconduce senza dubbio a un determinato passo dautore.

9 Fortunio, Regole grammaticali della volgar lingua, p. 109.

10 Lodovico Dolce, I quattro libri delle Osservationi, ed. P. Guidotti, Pescara, Libreria dellUniversità, 2004, p. 362.

11 Fortunio, Regole grammaticali della volgar lingua, p. 158. È interessante notare come analoga immagine accomuni la prima grammatica e la prima opera lessicografica compilate sul modello delle Tre Corone: nel 1526 sono pubblicate Le Tre fontane di messer Nicolo Liburnio in tre libbri diuise, sopra la grammatica, et eloquenza di Dante, Petrarcha, et Boccaccio … Et ciascuno delli tre libbri ha nel fine un Vocabolario … Saggiunge ultimamente un Dialogo sopra certe lettere, ouer charatteri trouati per messer Giouan Giorgio Trissino, Stampata in Vinegia, per Gregorio de Gregorii; si veda oggi Nicolò Liburnio, Le vulgari eleganzie; Le tre fontane, San Mauro Torinese, Res, 2005.

12 Fortunio, Regole grammaticali della volgar lingua, In Ancona, per Bernardin Vercellese, 1516; edizione di riferimento: Giovan Francesco Fortunio, Regole grammaticali della volgar lingua, dora in poi Fortunio 1516. Gli esempi citati sono stati riscontrati anche sulla riproduzione anastatica della princeps (ed. C. Marazzini e S. Fornara, Pordenone, Accademia San Marco, 1999); si veda in particolare lintroduzione di Claudio Marazzini, a p. 7-32.

13 Fortunio 1516, p. 3.

14 Marazzini, Introduzione, p. 16-17.

15 G. Rabitti, «Tra Bembo e Fortunio: una generazione inquieta», “Prose della volgar” lingua di Pietro Bembo, Gargnano del Garda (4-7 ottobre 2000), ed. S. Morgana, M. Piotti, M. Prada, Milano, Cisalpino, 2000, p. 77-94, in particolare p. 91.

16 Fortunio 1516, p. 15.

17 Richardson, Introduzione, p. XLVIII; sulla presenza di Dante nelle Regole, si veda G. G. Ferrero, «Dante e i grammatici nella prima metà del Cinquecento», Giornale storico della letteratura italiana, CV, 1935, p. 1-59.

18 Fortunio 1516, p. 80.

19 Fortunio 1516, p. 45. A questo proposito, si veda C. Dionisotti, «Il Fortunio e la filologia umanistica», Rinascimento europeo e Rinascimento veneziano, ed. V. Branca, Firenze, Sansoni, 1967, p. 11-23.

20 Così Richardson, Introduzione, p. LIII.

21 Fortunio 1516, p. 49-50.

22 Fortunio 1516, p. 109-110; sono citati i v. 73-74 e i v. 81-82.

23 «lampio aere» (Asolani II, XIX), presente nelleditio princeps del 1505, verrà sostituito nella revisione del 1530 (si veda Pietro Bembo, Prose e rime, ed. C. Dionisotti, Torino, UTET, 19662, p. 420).

24 Fortunio 1516, p. 29.

25 Lunica copia del Compendio di la volgare grammatica di Marcantonio Flaminio, pubblicato a Bologna il 10 febbraio 1521 presso Girolamo Benedetti, conservata nella Biblioteca Universitaria di Pavia, è stata riportata allattenzione degli studiosi da Alessandro Pastore, che ne ha dato conto in A. Pastore, «Di un perduto e ritrovato Compendio di la volgare grammatica di Marcantonio Flaminio», Italia medioevale e umanistica, XXVII, 1984, p. 349-356. Paolo Bongrani ne ha offerto quindi unedizione arricchita da una penetrante introduzione in P. Bongrani, «Breviata con mirabile artificio. Il Compendio di la volgare grammatica di Marcantonio Flaminio. Edizione e introduzione», Per Cesare Bozzetti. Studi di letteratura e filologia italiana, ed. S. Albonico, A. Comboni, G. Panizza, C. Vela, Milano, Mondadori, 1996, p. 219-267 (il testo del Compendio si trova a p. 249-267: dora in poi Flaminio 1521).

26 Flaminio 1521, p. 250. In realtà, come ha messo in evidenza Marazzini: «La sovrabbondanza degli esempi si giustifica in nome della chiarezza e dellimpressività, oltre che per il suo potere di convincimento. In realtà, nella ricerca dellesempio sta la vera motivazione del libro», Marazzini, Introduzione, p. 16.

27 Flaminio 1521, p. 250.

28 Fortunio 1516, p. 158, per cui si veda supra.

29 Chiara lallusione dantesca alla «navicella del mio ingegno» di Purg., I, 1-3.

30 Flaminio 1521, p. 250. Il riferimento è a Orazio, Sermones I, I, 54-56: ut tibi si sit opus liquidi non amplius urna / vel cyatho et dicas «magno de flumine mallem quam ex hoc fonticulo tantundem sumere».

31 Non si considerano qui i casi di citazione esplicita, per i quali si rimanda alle conclusioni.

32 Si tratta della modalità più frequente: «Unquanche si legge nella Commedia di Dante» [Flaminio 1521, p. 261] richiama «Unquanche dice Dante nel canto penultimo dellInferno: “ché Branca Doria non morì unquanche”» [Fortunio 1516, p. 110]; «Assai è voce posta dal Petrarcha et Dante sempre in luogo de multum over satis adverbialmnete, fuor che nel Triompho primo dellAmore et nel canto XII et XXIII dellInferno e nel canto XXII del Purgatorio, ne quali lochi si pone come nome adiettivo. Ma il Boccaccio nelle prose soe parimente lo usa alluno et laltro modo. Stranamente nelle prose del detto Boccaccio dinota molto» [Flaminio 1521, p. 261-262] semplifica lelenco «Dico che questa voce assai da Petrarca sempre è posta in loco di multum overo satis adverbialmente, fuor che nel Triumpho primo dellAmor: “et dentro assai dolor con breve gioco”. Et il medesimo si trova usato da Dante, se nonne nel canto XII dellInferno: “et di costor assai riconobbi io”, et nel canto XXIII: “I udi già dir a Bologna / del diavol vitii assai”, et nel canto XXII del Purgatorio: “Costoro, Persio et io et altri assai”. Ma posto è poi per adverbio dambi li poeti in lochi moltissimi, come Petrarca: “et dissi: Anima, assai ringratiar dei / che fosti a tanto honor degnata allhora”, et nella canzone “Mai non vo più cantar”: “et tra le fronde il vischio. Assai mi doglio”, et nel Triumpho II dellAmor: “ma assai fu bel paese ondio ti piacqui”; Dante nel canto XVIII dellInferno: “Assai leggieramente quel salimmo”, et nel XIII del Purgatorio: “gratioso fia lor vederti assai”. Il Boccaccio nelle opere sue senza diferentia lo pone ad uno et altro modo, come nel principio della prima Giornata delle sue diece, ove dice: “Dalle qual cose et da assai altre”, et poco più oltre: “ad un fine tiravano assai crudele”. Voglio, dinfiniti essempi, delli sopratoccati rimanermi contento. [] In loco di molto adverbio, o grandemente pone sovente il Boccaccio stranamente, come nella settima giornata nella novella di un geloso, nel principio: “Stranamente parve a tutti madonna Beatrice esser stata malitiosa”» [Fortunio 1516, p. 107-109; p. 119]; un più generico «Pongonsi spesso insieme dal Petrarcha et da Dante questi adverbii, come: hor quindi hor quinci, cioè di qua et di là» [Flaminio 1521, p. 263] corrisponde a «Pongonsi insieme da Petrarca et da Dante questi dui adverbii: nel canto XIV dellInferno: “Senza riposo mai era la tresca / delle misere mani, hor quindi hor quinci”, cioè di qua et di là, come nel canto predetto: “di qua, di là soccorron con le mani”» [Fortunio 1516, p. 124], che già presentava una selezione degli esempi possibili.

33 Lerrore di attribuzione è stato definitivamente spiegato da Gino Belloni, che ha individuato il testimone consultato dal Fortunio, cioè il Codice Marc. It. IX 191 (= 6754) o codice Mezzabarba, nel suo contributo «Alle origini della filologia e della grammatica italiana: il Fortunio», Linguistica e Filologia, Atti del VII Convegno internazionale di linguisti, ed. G. Bolognesi e V. Pisani, Brescia, Paideia, 1987, p. 189-204; si veda anche Bongrani, «Breviata con mirabile artificio. Il Compendio di la volgare grammatica di Marcantonio Flaminio», p. 235 n. 37. Allo stesso modo lunico altro richiamo a un autore presente in questo elenco («Io hebbi overo hei, secondo la inflessione che usa Dante» [Flaminio 1521, p. 258]) corrisponde a una puntuale citazione dantesca nelle Regole: «io hebbi, overo hei (Dante nel canto primo dellInferno: “Poi chei posato un poco il corpo lasso”)» [Fortunio 1516, p. 73].

34 Sulla novità di questo pronome nella trattazione del Compendio, si veda Bongrani, «Breviata con mirabile artificio», p. 232.

35 Bongrani, «Breviata con mirabile artificio», p. 237-239. Flaminio nomina Castiglione anche nella lettera dedicatoria, insieme a Sannazaro e Bembo, come uno di quegli scrittori che «como che a tempi nostri nel latino tengano el principato, non menor studio nel volgar pongono, scrivendo versi e prose laudevolissime», Flaminio 1521, p. 250.

36 Flaminio 1521, p. 250.

37 Alleditio princeps (Prose di M. Pietro Bembo nelle quali si ragiona della volgar lingua scritte al Cardinale de Medici che poi è stato creato a sommo pontefice et detto papa Clemente Settimo divise in tre libri, In Vinegia, per Giovan Tacuino, 1525, dora in poi Bembo 1525) seguono una seconda edizione nel 1538 (In Vinegia, per Francesco Marcolini) e la terza edizione uscita postuma nel 1549 (In Firenze, per Lorenzo Torrentino). La stampa Torrentino è messa a testo nelledizione di Carlo Dionisotti (Torino, UTET, 1931, poi ripresa nel 1966 nel volume Prose e Rime); i contributi di Dionisotti sul Bembo, usciti tra 1950 e 1981, sono oggi raccolti in C. Dionisotti, Scritti su Bembo, ed. C. Vela, Torino, Einaudi, 2002. Per un inquadramento generale, sarà utile inoltre M. Tavoni, «Le Prose della volgar lingua di Pietro Bembo», Letteratura italiana. Le Opere, diretta da A. Asor Rosa, Torino, Einaudi, 4 vol., vol. I (Dalle origini al Cinquecento), p. 1065-1088. Claudio Vela e Mirko Tavosanis hanno inoltre recentemente procurato due edizioni dellautografo Vaticano latino 3210, con metodi e intenzioni diverse: Pietro Bembo, Prose della volgar lingua. Leditio princeps del 1525 riscontrata con lautografo Vaticano latino 3210, ed. C. Vela, Bologna, Clueb, 2001; M. Tavosanis, La prima stesura delle Prose della volgar lingua: fonti e correzioni (con edizione del testo), Pisa, ETS, 2002.

38 Come ha messo in evidenza Giovanni Nencioni, però, le Prose «non sono grammatica solo nel terzo libro, ma anche nei primi due, nonostante la meno evidente sistematicità della trattazione. Grammatica completa della lingua, cioè regolazione sia delle strutture fonetiche, morfologiche e sintattiche, che degli stilemi», G. Nencioni, Fra grammatica e retorica: un caso di polimorfia della lingua letteraria dal secolo XIII al XVI, Firenze, Olschki, 1955, p. 112, ora in Nencioni, Saggi di lingua antica e moderna, Torino, Rosenberg & Sellier, 1989, p. 11-188, con il titolo «Un caso di polimorfia della lingua letteraria dal sec. XIII al XVI», in particolare p. 120.

39 Il rapporto delle Prose della volgar lingua con le citazioni dautore è stato indagato in più occasioni: basterà qui ricordare i contributi del V seminario di studi svoltosi a Gargnano del Garda dal 4 al 7 ottobre 2000 raccolti nel volume Prose della volgar lingua di Pietro Bembo. Come dichiarato dai curatori nella Presentazione, p. VIII, il volume illumina solo parzialmente il complesso rapporto tra Bembo e Boccaccio; si veda almeno C. Vecce, «Bembo, Boccaccio, e due varianti al testo delle Prose», Ævum, LIX, 1995, p. 521-531.

40 C. Bologna, «Bembo e i poeti italiani del Duecento», Prose della volgar lingua di Pietro Bembo, p. 103 e p. 119-120.

41 Claudio Vela ha dimostrato non solo lesistenza di un manoscritto della Nuova cronica di proprietà del Bembo, ma anche linfluenza del modello di Villani in unopera storiografica di Bembo, lHistoria Veneta: si veda C. Vela, «Il Villani del Bembo», Prose della volgar lingua di Pietro Bembo, p. 255-275.

42 C. Trabalza, Storia della grammatica italiana, p. 590.

43 Un indice viene allegato già alledizione fiorentina del 1549, uscita postuma. Poco sistematico lelenco dei Capi che si trattano in questopera che precede il testo delle Prose nella raccolta di grammatiche di Francesco Sansovino, Le Osservationi della lingua volgare di diversi huomini illustri, cioè Del Bembo, Del Gabriello, Del Fortunio, DellAcarisio, Et di altri Scrittori, Nelle quali si contengono utilissime cose per coloro che scrivono i concetti loro, In Venetia, appresso Francesco Sansovino, 1562, a proposito del quale si rimanda a S. Vanvolsem, «La manualizzazione delle Prose: il caso dellAcarisio», Prose della volgar lingua di Pietro Bembo, p. 591-592.

44 P. Sabbatino, Il modello bembiano a Napoli nel Cinquecento, Napoli, Ferraro, 1986.

45 P. Bongrani, «La fortuna del Bembo a Napoli e altri temi di storia linguistica rinascimentale (a proposito di un libro recente)», Giornale storico della letteratura italiana, CLXVI, 1989, p. 105-115, in particolare p. 108.

46 Ibid., p. 108-109. La grammatica, divisa in due parti datate 1540 e 1541, è conservata solo in due manoscritti della Biblioteca Vaticana.

47 Bongrani, «La fortuna del Bembo», p. 109-112. Il testo di Flaminio è stato edito da Pasquale Sabbatino in appendice al volume (Sabbatino, Il modello bembiano a Napoli nel Cinquecento, p. 223-290; si veda anche p. 125-153). Serge Vanvolsem giudica «Originali, perché a metà strada fra indice e rifacimento» le Prose ridotte a metodo da Flaminio, che «ha sintetizzato il testo bembesco in unenorme quantità di schede che vengono presentate per ordine alfabetico (da a, a, assembrare, arnese, arringo, altresì… fino a unqua, vae, verso, via via)», Vanvolsem, «La manualizzazione delle Prose: il caso dellAcarisio», p. 592. Come si è visto, Flaminio aveva in precedenza compendiato anche le Regole di Fortunio.

48 Bongrani, «La fortuna del Bembo», p. 112-114. Sulle riduzioni a metodo nel Cinquecento si veda inoltre Tavoni,
«Scrivere la grammatica», p. 796, in nota.

49 Alberto Acarisio pubblica una prima versione della Grammatica volgare nel 1536 (Bologna, Vincenzo Bonardo e MarcAntonio Compagni); la seconda versione (Vocabolario, grammatica et orthographia de la lingua volgare dAlberto Acharisio da Cento, con ispositioni di molti luoghi di Dante, del Petrarca, et del Boccaccio, stampato in Cento, in casa de lautore), completamente rivista e più autonoma rispetto al modello bembiano, esce nel 1543. Ledizione di riferimento è la ristampa anastatica delled. Cento, ed. P. Trovato, indici a cura di S. Madricardo, T. Munaro e A. Santini, Bologna, Forni, 1988, dora in poi Acarisio 1543. Sulla Grammatica dellAcarisio si vedano, oltre allIntroduzione di Trovato, gli studi di Serge Vanvolsem: «La manualizzazione delle Prose: il caso dellAcarisio», p. 589-600; «La Grammatica volgare di Acarisio nelle due versioni del 1536 e 1543», Lingua e letteratura italiana dentro e fuori la Penisola, Atti del III Convegno degli Italianisti Europei (Cracovia, 11-13 ottobre 2001), ed. S. Widlak, Cracovia, Wydawnictwo Uniwersytetu Jagiellonkiego, 2003, p. 529-538; «Alberto Acarisio: fedele seguace del Bembo o linguista ribelle?», De Florence à Venise : études en lhonneur de Christian Bec, ed. F. Livi e C. Ossola, Parigi, Presses Paris Sorbonne, 2006, p. 327-337.

50 Trabalza, Storia della grammatica italiana, p. 118.

51 Acarisio 1536, c. a3v.

52 Acarisio 1536, c. a3v.

53 Acarisio 1543, c. 1r. Si veda Bembo 1525, c. XLVIIIr (poi Pietro Bembo, Prose della volgar lingua, p. 198-200).

54 Acarisio 1543, c. 1v. Si veda: «E questi nomi altro che di due generi non sono: del maschio e della femina [] Usa tuttavia gli due, nella guisa che poi si dirà, e di loro se ne serve in quella vece», Bembo 1525, c. XLIIIv (poi Pietro Bembo, Prose della volgar lingua, p. 187).

55 Acarisio 1543, c. 19r. Si veda: «et è , che si dà al luogo, nel quale né quegli che parla è né quegli che ascolta, e talora stanza segna e talora movimento, che poscia , sì come Qui, non si disse se non da poeti», Bembo 1525, c. LXXIXv, (poi Pietro Bembo, Prose della volgar lingua, p. 270).

56 Acarisio 1543, c. 20r-25v.

57 Su questo aspetto, si veda Trovato, Introduzione, p. XXII.

58 Acarisio 1543, c. 20r.

59 Francesco Sansovino, Le Osservationi della lingua volgare di diversi huomini illustri, c. 296. Si veda anche Bonomi, La grammaticografia italiana attraverso i secoli, p. 33-34.

60 Edizioni di riferimento: Giacomo Gabriele, Regole grammaticali di m. Iacomo Cabriele non meno utili che necessarie a coloro che dirittamente scriuere ne la nostra natia lingua si dilettano, Venezia, Giovanni de Farri & fratelli, 1545 (consultata on-line: http://www.bdcrusca.it/ricerca_avan1.asp?tipologia=LG& autore=Gabriele,%20Giacomo), dora in poi Gabriele 1545; ledizione critica mette a testo ledizione Venezia, Giovanni Griffio, 1548: Jacomo Gabriele, Regole grammaticali, ed. P. Ortolano, Pescara, Opera, 2010, dora in poi Gabriele 1548. Si veda anche P. Ortolano, «Le due edizioni delle Regole grammaticali di Jacomo Gabriele (1545-1548)», Tipofilologia. Rivista internazionale di studi filologici e linguistici sui testi a stampa, 2, 2009, p. 15-60.

61 Ortolano, «Le due edizioni delle Regole grammaticali di Jacomo Gabriele (1545-1548)», Jacomo Gabriele, Regole grammaticali, p. 33-34.

62 Le Bibliothecae Patavinae manuscriptae publicae et privatae quibus diversi scriptores hactenus incogniti recensentur ac illustrantur (1639) recano notizia di unopera grammaticale di Trifon Gabriele, le Institutione della grammatica volgare di Tryphon Gabriele, che risultano oggi irriperibili, secondo quanto riportato da L. Fortini, «Gabriel (Gabriele), Trifone», Dizionario biografico degli italiani, 51, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1998, p. 44-47, in particolare p. 46.

63 Gabriele 1548, p. 84.

64 Come ha indicato Pierluigi Ortolano, nelledizione del 1548 Gabriele aggiunge 98 esempi da Petrarca (soprattutto dal Canzoniere), 6 dal Decameron e 13 dalla Commedia, Ortolano, «Le due edizioni delle Regole grammaticali di Jacomo Gabriele (1545-1548)», p. 23-31.

65 Ortolano parla di una «bembizzazione » notevole rispetto alledizione del 1545, Ortolano, «Le due edizioni», p. 28-29.

66 Nella stessa direzione va anche unaltra aggiunta; laddove nella prima edizione Gabriele proponeva solo il modello di Petrarca, nel 1548 si legge: «Leggendo adunque sovente i buoni scrittori (i quali istimo io che siano coloro che sono da la più gente approbbati) come tra i rimatori il Petrarca et tra prosatori il Boccaccio et, tra gli uni et gli altri, il Bembo, nel verso et ne la prosa tanto eccellentissimo, che si può dire che a niuno altro sia secondo», Gabriele 1548, p. 98.

67 Gabriele 1548, p. 96 (Asolani II, XXVI).

68 Gabriele 1548, p. 87-88: in Gabriele 1545 era presente solo il primo esempio (tutte le citazioni sono tratte dal Canzoniere).

69 Gabriele 1548, p. 89.

70 Gabriele 1548, p. 115.

71 Gabriele 1545, c. 16r.

72 Gabriele 1548, p. 143.

73 Edizione di riferimento: Rinaldo Corso, Fondamenti del parlar toschano di Rinaldo Corso non prima veduti corretti et accresciuti, Venezia, Melchiorre Sessa, 1549 (consultata on-line http://www.bdcrusca.it/ricerca_avan1.asp?tipologia=LG& autore=Corso,%20Rinaldo), dora in poi Corso 1549.

74 Corso 1549, c. 22r.

75 Corso 1549, c. 94v.

76 Corso 1549, c. 29v e c. 95v (Inf., VI, 79).

77 Si tratta di Lucrezia Lombardi, apostrofata con il nome di Hipparca.

78 Corso 1549, c. 87r.

79 Corso 1549, c. 75r.

80 Non si considera ai fini della statistica lultimo libro, che è una poetica piuttosto che una vera e propria trattazione grammaticale, confrontabile con le altre opere fin qui considerate.

81 Edizione di riferimento: Osservationi della volgar lingua di M. Lodovico Dolce divise in quattro libri, Venezia, Gabriel Giolito de Ferrari e fratelli, 1550 (consultata on-line http://www.bdcrusca.it/ricerca_avan1.asp?tipologia=LG&autore=Dolce,%20Lodovico), dora in poi Dolce 1550. Ledizione critica curata da P. Guidotti mette a testo lottava edizione del 1562, con unutile fascia di apparato che registra le varianti rispetto alla prima edizione del 1550. Nel commento a piè di pagina in più punti manca lidentificazione di una citazione; in alcuni casi è presente una minima differenza di lezione, ma non tale da pregiudicare lattribuzione: per esempio «Natural cosa è di ciascuno, che ci nasce» (p. 334) sarà «Natural ragione è, di ciascuno che ci nasce» (Dec., I Introd.); del tutto evidenti invece altri passi come «Mai di lagrime, né di sospiri non fosti vaga» (p. 346: Dec., VII 7), «che mi pare anzi, che no, che voi ci stiate a pigione» (p. 356: Dec., II 10), «tardo, sogliardo, e bugiardo» (p. 386: Dec., VI 10).

82 Dolce 1550, c. 5r-v.

83 Dolce 1550, c. 6r. Evidente la citazione dantesca e petrarchesca, sottolineata in Lodovico Dolce, I quattro libri delle Osservationi, p. 243 n. 3.

84 Per esempio: Dolce 1550, c. 40v. Si veda anche Dolce, I quattro libri delle Osservationi, p. 346 (Jacopo Sannazaro, Arcadia, Ecloga 9, 106).

85 Per esempio: Dolce 1550, c. 47r. Si veda anche Dolce, I quattro libri delle Osservationi, p. 363 (Pietro Bembo, Asolani III, VIII).

86 Per esempio: Dolce 1550, c. 52v. Si veda anche Dolce, I quattro libri delle Osservationi, p. 378-379 (Ludovico Ariosto, Orlando furioso, I, 32).

87 Dolce 1550, c. 48v. Si veda anche Dolce, I quattro libri delle Osservationi, p. 367.

88 Si rimanda alla tavola delle edizioni nella Nota bio-bibliografica a Lodovico Dolce, I quattro libri delle Osservazioni, p. 57-61.

89 Dolce 1550, c. 19r-v. Si veda anche Dolce, I quattro libri delle Osservationi, p. 284-285. Il riferimento è al Petrarca corretto da M. Lodovico Dolce, Venezia, Gabriel Giolito de Ferrari e fratelli, 1547.

90 Dolce 1550, c. 49r. Si veda anche Dolce, I quattro libri delle Osservationi, p. 371.

91 Dolce 1550, c. 50r-v. Si veda anche Dolce, I quattro libri delle Osservationi, p. 372.

92 Dolce 1550, c. 86r. Si veda anche Dolce, I quattro libri delle Osservationi, p. 464-466.

93 Edizione di riferimento: Pierfrancesco Giambullari, Regole della lingua fiorentina, ed. I. Bonomi, Firenze, presso lAccademia, 1986, dora in poi Giambullari 1552. La grammatica di Giambullari viene pubblicata come De la lingua che si parla et scrive in Firenze (In Firenze, [Lorenzo Torrentino, 1552]): ledizione critica restituisce il titolo del mano-scritto. Lopera risponde allesigenza di una grammatica prodotta dalleditoria fiorentina, sollecitata da Cosimo I de Medici e dallAccademia Fiorentina: quella di Giambullari è però pubblicata a titolo personale.

94 Giambullari 1552, p. 3. Nella lettera dedicatoria è evidente anche lintento didattico dellopera, rivolta a «forestieri» e «giovanetti»: come ha visto Marazzini, si tratta di «una frecciata polemica contro le teorie bembiane introdotte da Varchi nella cittadella fiorentina», che sosteneva che anche i fiorentini non potessero fare a meno dello studio della lingua (Marazzini, Il secondo Cinquecento e il Seicento, p. 166).

95 Si veda anche I. Bonomi, La grammatica: struttura, norma, fortuna, Pierfrancesco Giambullari, Regole della lingua fiorentina, p. XL.

96 Giambullari 1552, p. 311-312.

97 Giambullari 1552, p. 290-291.

98 Giambullari 1552, p. 150-171.

99 Giambullari 1552, p. 150 n. 1. In alcuni casi si potrebbe trattare di locuzioni, come per «Tu ti aguzzi il palo in su l ginocchio» (Giambullari 1552, p. 151), registrata dal Vocabolario della Crusca; alcuni esempi sono identificabili: «La mortifera pestilenzia inverso loccidente sera appigliata» (Giambullari 1552, p. 151: Dec., I Introd.); «nè con tanta festa, niuna coglie li amorosi frutti» (Giambullari 1552, p. 154: Elegia di Madonna Fiammetta, 25); «quante volte tu dietro a le femmine, lo appetito dirizzi» (Giambullari 1552, p. 157: Corbaccio, IV); «il capo ti vacilla» (Giambullari 1552, p. 169: Saviozzo, Rime, 23, 20); «pentendomi, nella mia mente vacillava» (Giambullari 1552, p. 169: Elegia di Madonna Fiammetta, 16); «in quella non valendo alcun senno» (Giambullari 1552, p. 169: Dec., Proemio 5). Non è stato possibile attribuire con certezza nessuna delle altre citazioni che risultano non identificate nelledizione critica.

100 Giambullari 1552, p. 114.

101 Lodovico Castelvetro, Giunta fatta al ragionamento degli articoli et de verbi di messer Pietro Bembo, ed. M. Motolese, Roma/Padova, Antenore, 2004. Lopera fu pubblicata nel 1563 (In Modona, per gli eredi di C. Gadaldino).

102 Per la «linea Castelvetro» dantesca alternativa alla «linea Bembo» petrarchistica si veda C. Bologna, «Bembo e i poeti italiani del Duecento», p. 120 n. 55.

103 Ledizione del testo offre puntualmente in nota lindicazione del testimone consultato da Castelvetro, dove lindividuazione è stata possibile: Lodovico Castelvetro, Giunta fatta al ragionamento degli articoli et de verbi di messer Pietro Bembo, passim.

104 Castelvetro, Giunta fatta al ragionamento degli articoli, p. 79 e p. 132.

105 Ibid., p. 71: per la querelle su questo aspetto con Salviati, si rimanda a Poggiogalli, La sintassi nelle grammatiche del Cinquecento, p. 69-70.

106 In un caso lerronea attribuzione di un verso di Dante da Maiano a Dante Alighieri risale al manoscritto consultato da Castelvetro: Castelvetro, Giunta fatta al ragionamento degli articoli, p. 111 n. 161.

107 Lionardo Salviati, Degli avvertimenti della lingua sopra l Decamerone, in due volumi (il primo è pubblicato nel 1584, il secondo nel 1586 con il titolo Del secondo volume degli avvertimenti della lingua sopra il Decamerone. Libri due del cavalier Lionardo Salviati. Il primo del Nome, e duna Parte, che laccompagna. Il secondo dellArticolo, e del Vicecaso). Si veda M. Gargiulo, «Per una nuova edizione Degli avvertimenti della lingua sopra l Decamerone di Leonardo Salviati», Heliotropia, 6, 2009, p. 1-27. Salviati è anche autore di una vera e propria grammatica rimasta inedita e pubblicata nel 1991 da Anna Antonini Renieri (Firenze, presso lAccademia), le Regole della toscana favella, in cui sono presenti solo un riferimento al Galateo di Della Casa e citazioni da Dec., Proemio 2; RVF, II, 3; RVF, II, 6; RVF, II, 14. Si veda anche M. Colombo, «Un terzo testimone delle Regole della toscana favella attribuite a Lionardo Salviati», Studi di Filologia Italiana, LXIII, 2005, p. 281-305.

108 Marazzini, Il secondo Cinquecento e il Seicento, p. 160.

109 Lionardo Salviati, Degli avvertimenti della lingua sopra l Decamerone, p. 74. Come ha messo in evidenza Nicoletta Maraschio, «le regole enunciate in questopera fondamentale della trattatistica grammaticale cinquecentesca saranno adottate pressoché integralmente dagli accademici e diffuse poi dal Vocabolario della Crusca» (N. Maraschio, «Grafia e ortografia: evoluzione e codificazione», Storia della lingua italiana, ed. L. Serianni e P. Trifone, I, Torino, Einaudi, 1993, p. 181); per un esame di alcune nozioni teorico-grammaticali di Salviati rintracciabili nel Vocabolario, si veda inoltre F. Cialdini, «La norma grammaticale degli Avvertimenti della lingua sopra l Decamerone nella prima edizione del Vocabolario degli Accademici della Crusca», Studi di grammatica italiana, XXIX-XXX, 2010-2011, p. 141-176, e F. Cialdini, «La grammatica nel vocabolario: alcune osservazioni sul secondo volume degli Avvertimenti della lingua sopra l Decamerone di Lionardo Salviati e il Vocabolario degli Accademici della Crusca del 1612», Il Vocabolario degli Accademici della Crusca (1612) e la storia della lessicografia italiana, Atti del X Convegno ASLI, Associazione per la storia della lingua italiana (Padova, 29-30 novembre 2012-Venezia, 1 dicembre 2012), ed. L. Tomasin, Firenze, Franco Cesati Editore, 2013, p. 91-103. Sarebbe interessante operare un confronto sistematico tra gli autori citati negli Avvertimenti e quelli accolti nelle impressioni del Vocabolario, in particolare nella prima del 1612.

110 Si ricorda che, qualora fosse disponibile, si è fatto ricorso allindice delle citazioni; per Fortunio: Indice delle fonti citate nelle Regole, Giovan Francesco Fortunio, Regole grammaticali della volgar lingua, p. 229-233; per Bembo: Indice repertorio delle citazioni, Pietro Bembo, Prose della volgar lingua. Leditio princeps del 1525 riscontrata con lautografo Vaticano latino 3210, p. 289-303 (si veda anche Indice dei nomi, Bembo, Prose della volgar lingua, p. 725-731, riferito alledizione del 1549). Ledizione anastatica della Grammatica di Acarisio è corredata dellindice (Indice degli autori e dei luoghi citati, ed. S. Madricardo, T. Munaro, A. Santini, Alberto Acarisio, Vocabolario, grammatica et orthographia de la lingua volgare, ed. P. Trovato, p. 7-34), ma non è stato utilizzato, perché comprende anche le occorrenze del Vocabolario. Negli altri casi si è proceduto allo spoglio, con il supporto laddove disponibile dei commenti: si metta dunque in conto un certo margine di errore.

111 Si considerano separatamente i Rerum Vulgarium Fragmenta e i Trionfi; il Decameron; le tre cantiche della Commedia. Le altre opere di Boccaccio comprendono Filostrato, Filocolo, Teseida, Ninfale dAmeto, Amorosa visione, Elegia di Madonna Fiammetta, Corbaccio, Rime; le opere di Dante Vita nuova, Convivio, Rime.

112 Per ragioni di spazio non si riporteranno qui tutti i dati.

113 Dolce 1550, c. 76v-77r. Si veda anche Lodovico Dolce, I quattro libri delle Osservationi, p. 439-440.

114 Una lettura della lirica si deve a G. Rabitti, «Nel dolce tempo: sintesi o nuovo cominciamento?», Italianistica, XXXIII, 2004, p. 95-108.

115 Pietro Bembo, Prose della volgar lingua, p. 119.

116 G. Skytte, «DallAlberti al Fornaciari. Formazione della grammatica italiana», Revue Romane, 25, 3, 1990, p. 268-278, in particolare p. 273.

117 Dolce 1550, c. 70r. Si veda anche Lodovico Dolce, I quattro libri delle Osservationi, p. 422.

118 M. Tavosanis, «Le fonti grammaticali delle Prose», Prose della volgar lingua di Pietro Bembo, p. 74-76.

119 Corso 1549, c. 94v.

120 Dolce 1550, c. 53r-v. Si veda anche Dolce, I quattro libri delle Osservationi, p. 380.

121 Si veda Poggiogalli, La sintassi nelle grammatiche del Cinquecento, passim e in particolare i casi di uso dellarticolo nei sintagmi nominali costruiti con il genitivo, p. 41- 55, e di omissione di preposizione, p. 247-253.

122 Ibid., p. 197-199.

123 Il corpus delle grammatiche potrebbe essere ampliato in diverse direzioni qui solo accennate, estendendo il limite cronologico e considerando in maniera più sistematica le varianti tra le diverse edizioni della stessa grammatica, per verificare il riflesso del dibattito anche nella scelta degli esempi cassati o aggiunti.