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Classiques Garnier

Introduzione

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Introduzione

Premessa

Il 1° dicembre del 1970 veniva approvata con 319 voti a favore e 286 contrari la legge Fortuna-Baslini sul divorzio. Si trattava dellultimo atto di circa un secolo di discussioni che, dallItalia liberale a quella repubblicana, passando per due guerre e il fascismo, avevano inevitabilmente toccato gli stessi problemi: il rapporto conflittuale tra Stato e Chiesa, la necessaria contrattazione tra bene comune e interessi dei singoli, il ruolo della famiglia (come istituto e come simbolo) nella nazione e dei coniugi al suo interno. Come quelle che lavevano preceduta, anche la legge Fortuna-Baslini rischiò di non sopravvivere ai tempi dei lavori parlamentari. Ciò tuttavia non accadde perché, per la prima volta, la questione del divorzio venne seguita con attenzione dallopinione pubblica e tenuta in vita dallo sforzo coordinato della stampa (sia maschile sia femminile) e dei comitati pro-divorzio creati ad hoc. La legge fu così approvata, ma ad una condizione: che fosse il popolo ad avere lultima parola. I risultati del referendum abrogativo del 1974, con un quorum dell87,7 %, confermarono che il 59,1 % degli italiani e delle italiane era favorevole al divorzio. Da quel momento in poi il Parlamento italiano ha lavorato per snellire le pratiche relative allinterruzione del vincolo matrimoniale, fino ad arrivare al cosiddetto divorzio breve (legge n. 55/2015), che riduce a sei o dodici mesi il tempo di separazione necessario per ottenere il divorzio.

Ai tempi della società liquida, “la definizione romantica dellamore come vincolo che dura finché morte non vi separi è decisamente fuori moda – resa obsoleta dal radicale sconvolgimento delle strutture di parentela su cui fondava e dalle quali traeva vigore e rilevanza” (Bauman, [2003] 2017, p. 8). Il matrimonio, a cui la legge Cirinnà (20 maggio 82016, n. 76) ha affiancato le coppie di fatto e le unioni civili, ha smesso di essere lunica forma per ufficializzare i legami affettivi; inoltre, seppur lentamente, sta emergendo in campo normativo la necessità di riconoscere anche alle coppie omosessuali il “diritto damore” (Rodotà, 2015).

Tale cambiamento nel modo di intendere la vita familiare era impensabile 150 anni fa, quando ebbe inizio liter legislativo del divorzio in Italia. È con il codice Pisanelli, emanato nel 1865, che venne introdotto un primo, fondamentale, cambiamento di paradigma, stabilendo la precedenza del matrimonio civile su quello religioso. Nei primissimi anni dellItalia unita si intervenne quindi su uno dei miti fondanti della nazione e si cercò di ridefinirne i modelli e le dinamiche; unoperazione problematica, perché, oltre a delineare un nucleo familiare che corrispondesse allimpostazione laica e moderna della nuova Italia, doveva anche riuscire a garantirne la stabilità. Il compromesso fu quello di istituzionalizzare un matrimonio laico, ma indissolubile: una soluzione non pacifica, come dimostrano le varie proposte di legge in materia di divorzio discusse in Parlamento già dal 1878, proposte che generarono un dibattito culturale dalle ampie implicazioni politiche e sociali.

Tra i numerosi attori coinvolti nel dibattito sul divorzio si è deciso di privilegiare una categoria specifica: quella delle scrittrici che hanno affrontato tale tema nelle loro opere letterarie. Questo lavoro si inserisce quindi in una più generale volontà di valorizzare la narrativa e le voci femminili, a tuttoggi escluse dal canone letterario, come fonti per ricostruire il dibattito relativo al divorzio in Italia tra il XIX e il XX secolo. Malgrado gli ormai numerosi studi sulla letteratura delle donne in età postunitaria,1 gran parte di quella che è stata chiamata la “galassia sommersa” (Arslan – Chemotti, 2008) delle scrittrici rimane ancora in attesa di essere indagata, mediante riedizioni di testi e studi di carattere storico o critico-letterario.

La definizione ben si adatta a quella costellazione di autrici, attive tra Otto e Novecento, che si mossero in un contesto culturale che 9prevedeva – anche se non legittimava pienamente – lesercizio della scrittura come forma di riconoscimento sociale e professionale per le donne (Zancan, 1998, p. 272). Ciò avvenne grazie alle campagne di alfabetizzazione che interessarono la penisola e ai cambiamenti sociali che, a seguito dellUnità, contribuirono anche alla creazione di una fetta di mercato editoriale inesplorata: quella delle lettrici.2 La scrittura delle donne fu dunque non solo ricercata per soddisfare le richieste del nuovo pubblico, ma anche valorizzata per la sua specificità di genere (Zambon, 1994, p. 272). Una specificità, daltro canto, che rappresentò uno dei fattori dellesclusione della scrittura femminile dalla letteratura alta, frequentata unicamente da autori di sesso maschile.3 Alla narrativa delle donne furono piuttosto applicate le etichette di letteratura rosa o di consumo, definizioni che riassumono un giudizio critico tarato sui contenuti veicolati e sul largo successo di pubblico. Proprio la sua popolarità tra destinatari non appartenenti allélite intellettuale dimostra tuttavia la capacità di tale scrittura di colmare una lacuna significativa della letteratura dautore (Kroha, 2000, p. 166).

Dallidea che le opere scritte da donne siano più accessibili al pubblico deriva anche la vulgata di una certa sciatteria formale e della banalità delle storie narrate. Al contrario, malgrado la formazione da autodidatte che caratterizza il percorso educativo standard delle donne che scrivono,4 le autrici dimostrano generalmente unottima padronanza delle tecniche scrittorie; inoltre, lapparente reiterazione di temi e motivi si rivela strumento per riflettere sullidentità femminile e su una sua possibile ridefinizione. Ragionando su testi letterari composti da donne nel tardo Ottocento, Marina Zancan (2000, pp. 90-96) ha proposto di distinguere due filoni tematici. Il primo è dedicato alla questione della donna, analizzata da un punto di vista economico, giuridico e soprattutto sociale, con particolare interesse per il tema del lavoro: si pensi a romanzi come Una fra tante (1878) di Emma (pseudonimo di Emilia Ferretti Viola, 1844-1929), In risaia (1878) della Marchesa Colombi (pseudonimo di Maria Antonietta Torriani, 1840-1920) e La fabbrica (1894) di Beatrice Speraz (1843-1923), nota al suo pubblico con lo pseudonimo Bruno 10Sperani. Il secondo filone, che è quello che più da vicino interessa questo studio, predilige invece la rappresentazione di interni familiari come luoghi fisici e simbolici di espressione femminile. Questi testi mettono in scena, in qualità di protagoniste, figure topiche dellambiente domestico: la donna in cerca di marito; la giovane sposa innocente alle prese con un coniuge già assuefatto alle esperienze amorose; la moglie in costante soggezione di fronte al marito; ladultera; e, più raramente, ma pur sempre con una certa frequenza, la donna separata o desiderosa di abbandonare il nucleo familiare (Zambon, 1994, pp. 283-292).

Marina Beer (1996, pp. 456) considera i testi di mano femminile come “potenzialmente femministi”, poiché, pur senza sfidare il proprio ambiente culturale, rappresentano le protagoniste come vittime di diversi meccanismi oppressivi, compreso il matrimonio. Allo stesso modo, Anna Nozzoli (1978, p. 3) vi rinviene un femminismo di grado zero, affermando che “in una storia della narrativa femminile tra i due secoli i tabù prevaricano quasi sempre la coscienza che si fa luce faticosamente, quando non addirittura contro la volontà dellautrice”. Arslan (1998, pp. 54-57) ha proposto di interpretare il dichiarato antifemminismo di gran parte delle scrittrici attive nellItalia postunitaria come un segno di consapevolezza dello scarto esistente tra le rivendicazioni del movimento emancipazionista e lhumus socio-culturale condiviso dalle lettrici. Queste ultime, né emancipate né culturalmente indipendenti, condividevano, in parte o del tutto, il discorso dominante sulla donna e sul suo ruolo nella società; di conseguenza, invece di proporre protagoniste straordinarie, la cui eccezionalità avrebbe reso difficoltosa limmedesimazione delle lettrici, le narratrici tratteggiavano figure femminili più dimesse e più vicine alla realtà del pubblico di riferimento. Lo scopo non era quello di attivare unaperta ribellione contro il contesto socio-culturale in cui le donne si muovevano, quanto piuttosto quello di introdurre spunti di riflessione e dibattito sullingiustizia e sul grigiore che connotavano la condizione femminile: “per le loro recessive eroine le autrici sollecitano dalle lettrici una simpatia, unaffinità profonda determinata dalla comune condizione femminili, una solidarietà fra oppressi” (Arslan, 1998, p. 50), innescata dallesperienza, attraverso la lettura.

La rosa delle possibilità con cui pensare a se stesse e al proprio ruolo di genere veniva così ad ampliarsi rispetto ai modelli della sposa e della madre. Poco importava la finale riconferma di un modello tradizionale 11di femminilità, fondato sul matrimonio, sulla maternità o sullesclusione fisica o simbolica delle protagoniste dei testi; quello che contava era mettere in scena percorsi devianti dalla norma, ma in grado di costruire un immaginario condiviso sul femminile che fosse più ricco e sfaccettato di quello altrimenti fruibile. Romanzo emblematico e citatissimo di questo processo è certamente Teresa (1886) di Neera (pseudonimo di Anna Radius Zuccari, 1846-1918), non solo perché esempio dello scollamento tra lantifemminismo dellautrice e i messaggi effettivamente veicolati dai suoi testi, ma anche perché porta in primo piano una varietà amplissima di destini femminili, tutti uniti sotto il segno di unoppressione di genere. A Teresa, omonima protagonista che rifiuta di percorrere le tappe topiche dellesistenza femminile, si accostano infatti altrettante donne che sembrano mostrarle possibili destini alternativi: dalla madre alla pretora, dalle gemelle a Calliope, tutte le donne del romanzo di Neera mettono in scena una diversa sfumatura dei rapporti tra i sessi, rapporti nei quali occupano, senza eccezione alcuna, una posizione subordinata.

Di conseguenza, tanto il nubilato, quanto la riunione con Egidio Orlandi, luomo di cui Teresa è innamorata e che le è stato impedito di sposare, si definiscono come forme di ribellione allambiente socio-culturale rappresentato; una ribellione muta nel primo caso, e iscritta allinterno di un modello di dedizione e assistenza nel secondo:

Negli ultimi giorni dellanno [Teresa] ricevette una lettera di Egidio. Egli era ammalato, povero, senza aiuto alcuno. Le scriveva come un figlio scriverebbe alla madre, con una fede illimitata. []

Teresa piegava un abito sul letto, dando le spalle allamica. Rapidamente, come si strappa un dente, disse:

– Vado via domattina (Neera, 1886, p. 201).

Ciò nonostante, pur recuperando un modello canonico di femminilità, nel romanzo filtrano prepotentemente temi come la scelta del proprio destino e la libertà individuale: “dirai agli zelanti” raccomanda Teresa alla pretora “che ho pagato con tutta la mia vita questo momento di libertà. È abbastanza caro nevvero?” (ibid., p. 202).

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La letteratura delle donne e il divorzio

Definizione del corpus

Incamminandoci tra gli interni fisici e simbolici messi in scena nelle narrazioni di mano femminile, ci si soffermerà sul legame matrimoniale. La ricorrenza del tema del matrimonio ha condotto Marina Beer a individuare nella produzione delle scrittrici del tardo Ottocento una sorta di filone matrimoniale femminile, “collocato a metà strada tra levasione, la pedagogia e il manuale di comportamento”, a cui spetta “il compito di disegnare con minuzia i lineamenti di unantropologia matrimoniale della donna borghese: e il romanzo arriva a estendere anche alle donne di altre classi le norme fondamentali del comportamento matrimoniale borghese” (Beer, 1996, p. 441). I nuclei tematici di questo filone andrebbero individuati, oltre che nella rappresentazione di una vasta gamma di tipologie di legame matrimoniale, anche nella (ri)definizione dei ruoli di genere nella coppia e nella tematizzazione dellerotismo e della sessualità intra- ed extra-matrimoniale. In questo studio si prenderà in esame un aspetto della rappresentazione del matrimonio profondamente legato al contesto sociale e giuridico-legale: il divorzio.

Questo tema rappresenta un punto di intersezione tra diversi aspetti della riflessione sulla femminilità nellItalia postunitaria: il ruolo e le funzioni delle donne nella società, il rapporto tra le italiane e la politica istituzionale, il legame tra sessualità e maternità, il diritto delle donne alla felicità. Tali questioni non possono non richiamare alla memoria Una donna (1906) di Sibilla Aleramo. Questo romanzo, per ragioni su cui bisognerà tornare, non rientra nel corpus testuale alla base del presente studio, ma ne costituisce il limite cronologico ante quem. A questo primo punto di riferimento letterario se ne accosta un altro di natura storica: il 1878, data della prima discussione parlamentare sul divorzio, scelta come termine post quem per la selezione delle opere prese in esame.

Dal ventennio 1878-1906 sono state selezionate cinque autrici che trattano esplicitamente del divorzio in alcuni dei loro romanzi: Virginia Tedeschi Treves (1849-1916), la già citata Beatrice Speraz, Anna Franchi 13(1869-1954), Grazia Deledda (1871-1936) e Fanny Zampini Salazar (1853-1931). In contrasto con il biografismo che tanto ha nuociuto alla ricezione della scrittura di donne (tema sul quale sarà necessario ritornare in seguito), si è scelto di concentrare lattenzione non sulle autrici, le cui biografie vengono illustrate in appendice, ma sullanalisi di sette loro romanzi. Nel primo capitolo del volume, che precede lanalisi letteraria vera e propria, verrà tratteggiato il contesto storico e sociale in cui queste opere narrative si inseriscono, per fornire una panoramica del dibattito sul divorzio che ebbe luogo nel ventennio tra 1878 e 1902. Il secondo capitolo analizzerà i due romanzi Catene (Milano, Treves, 1882) e Per vendetta (Milano, Treves, 1893) di Virginia Tedeschi Treves. Il primo testo permetterà di affrontare la questione della disparità di potere e diritti tra i coniugi nel matrimonio indissolubile, e le forme di abuso conseguenti alla separazione; con Per vendetta, invece, si osserverà linterazione tra la tipologia matrimoniale di antico regime e quella coniugale intima, sulla base della teoria foucaultiana dei dispositivi di alleanza e sessualità. Si potrà così ragionare sul modo in cui il tema del divorzio possa essere discusso anche in absentia, traendo forza argomentativa proprio dal fatto di essere un argomento tabù. Il terzo capitolo si concentrerà invece su due romanzi di Beatrice Speraz: Nellingranaggio (Milano, Sonzogno, 1885) e Numeri e sogni (Milano, Galli, 1887). Nel primo si potranno riconoscere due tipologie matrimoniali degenerate – che indicheremo rispettivamente come matrimonio senza amore e divorziabile –, che saranno utilizzate per riflettere sulle implicazioni legali e sociali del vincolo coniugale per le donne nellItalia postunitaria; in particolare, ci si soffermerà sulla formulazione per antifrasi del messaggio pro-divorzio del romanzo, ottenuta affidando al personaggio negativo di Edvige la difesa dellindissolubilità matrimoniale. In Numeri e sogni, invece, si evidenzierà come il divorzio e la separazione siano utilizzati dallautrice quali strumenti per favorire lautodeterminazione dei personaggi femminili.

I successivi tre capitoli saranno rispettivamente dedicati ai romanzi Avanti il divorzio (Milano, Sandron, 1902) di Anna Franchi, Dopo il divorzio (Torino, Roux e Viarengo, 1902) di Grazia Deledda, e Cavalieri moderni (Roma, Enrico Voghera, 1905) di Fanny Zampini Salazar. A proposito del primo, si utilizzeranno le nozioni di storytelling e di rilevanza legale per porre laccento sul legame tra la narrazione e la 14proposta di legge dei socialisti Agostino Berenini e Alberto Borciani, che offre lo spunto per la scrittura. Questa proposta di legge ha ruolo centrale anche nel romanzo di Fanny Zampini Salazar, di cui invece si isoleranno e indagheranno le strategie narrative utilizzate per veicolare la promozione del divorzio: tali strategie verranno indicate come racconto emblematico, mimesi del discorso politico, alterità culturale. Infine, alla luce del romanzo di Grazia Deledda, e attraverso la rappresentazione di una legge sul divorzio in vigore nel micro-ambiente della Barbagia, si osserveranno alcuni aspetti etici connessi alla scissione del vincolo matrimoniale.

Le ragioni di unesclusione

Uno degli elementi che accomuna i sette romanzi che verranno presi in esame è il riferimento allopera di legislazione in corso nellItalia unita e al suo significato per le cittadine italiane. Tali opere testimoniano la ricezione da parte delle scrittrici delle questioni chiave del dibattito sul divorzio discusso negli ambienti politici e accademici – e, quindi, si potrebbe dire, in ambiti di competenza unicamente maschile. Uno degli scopi che questo volume si prefigge è dunque quello di supplire alla lacuna negli studi volti a ricostruire la reazione delle donne di fronte alla questione del divorzio (Seymour, 2006, pp. 6-7). Questo tema ha attratto scarsa attenzione da parte degli storici, ed è stato generalmente affrontato come parte di più ampi ragionamenti sul rapporto fra le donne e il matrimonio o sullistituto del divorzio.5 La mancanza di studi sistematici è dovuta, almeno in parte, alla difficile reperibilità di interventi femminili nel dibattito e allo scollamento tra un antidivorzismo dichiarato e un effettivo e intenso ricorso alla separazione (ibid., p. 7). Latteggiamento delle italiane rispetto al tema del divorzio rappresenta uneccezione rispetto al contesto europeo (Montaldo, 2000, pp. 30-32). Le esponenti del primo femminismo non presero infatti una posizione unitaria in merito al divorzio, come fecero invece le cugine francesi. Furono proprio gli elementi conservatori, 15monarchici e cattolici presenti nellemancipazionismo italiano ad avere un ruolo di rilievo nellopposizione ai progetti di legge, rafforzando il discorso antidivorzista che vedeva in tale misura un indebolimento delle donne nella famiglia e, conseguentemente, nella società (ibid.). Tra le voci isolate che si espressero in favore del divorzio si debbono però ricordare almeno quelle delle emancipazioniste Anna Maria Mozzoni (1837-1920) e Paolina Schiff (1841-1926), rispettivamente autrici degli opuscoli La donna in faccia al progetto del nuovo Codice Civile italiano (Milano, Tip. Sociale, 1865) e La donna e la legge civile (Milano, Tip. P. Bellini, 1880).

Si cercherà di rimediare a questa lacuna in modo consapevolmente parziale, poiché verranno considerati soltanto testi narrativi, tralasciando quindi la pubblicistica e la trattatistica di mano femminile. Il carattere polifonico del romanzo e la sua vasta accessibilità rendono questa forma narrativa uno strumento privilegiato di diffusione di idee che, anche grazie alla reazione empatica dei lettori e delle lettrici, possono attecchire e consolidarsi nellimmaginario ben più facilmente di quelle veicolate dalla saggistica. Inoltre, si è scelto di prendere in esame soltanto voci in favore del divorzio, tralasciando quelle contrarie alla sua introduzione.6 In tal modo lo studio contribuirà a individuare uno dei tasselli della ricezione del tema della scissione del matrimonio: anche grazie ad un approccio metodologico fondato sulle teorie del movimento americano Law and Literature e sulla filosofia giusfemminista, si intende illustrare come il tema del divorzio si innesti nel solco di una più ampia riflessione circa i diritti dei cittadini e il rapporto tra donne e istituzioni. Tali aspetti, assieme alla proposta di modelli identitari alternativi, costituiscono la cifra originale dei romanzi qui considerati, testi che è 16necessario recuperare per poter capire a fondo il processo di presa di coscienza che ha interessato le donne nellItalia postunitaria. Di questo processo “Una donna rappresenta [] il culmine, di cui Sibilla Alerano era ben consapevole – e in un certo senso linizio dellinvoluzione” (Arslan, 1998, p. 44).

Pur costituendo altrettanti momenti fondamentali della riflessione delle donne sui temi del matrimonio e del divorzio, i romanzi di Tedeschi Treves, Speraz, Franchi, Deledda e Salazar sono stati finora trascurati dalla critica, anche perché il romanzo di Aleramo è stato letto come un unicum della letteratura delle donne tra Otto e Novecento. In Miti e realtà coniugali nel romanzo italiano tra Ottocento e Novecento, ad esempio, Marina Beer ha descritto il romanzo italiano come “intimamente e profondamente indissolubilista a dispetto delle sue inquietudini e oscillazioni” (Beer, 1996, p. 444), così come intimamente e profondamente contraria al divorzio era la maggioranza degli italiani e delle italiane. La maggior parte dei romanzi, fa notare la studiosa, rappresenta matrimoni infelici e adulteri, mentre quelli incentrati sulle separazioni legali sono rari, e sempre legati ad ambienti alto-borghesi: “nessun romanzo italiano spingerà il suo femminismo implicito al punto di farsi paladino della separazione legale o addirittura del divorzio” (ibid., p. 459).

Insomma, nel tratteggiare la fenomenologia della moglie borghese, il romanzo dautrice non avrebbe fatto altro che veicolare modelli di remissività e di acquiescenza a una visione tradizionale del legame matrimoniale e dei ruoli di genere ad esso associati. In questo schema, il romanzo di Aleramo interviene come un deciso punto di rottura e non come il risultato pienamente consapevole di una riflessione in divenire.

Da questo quadro teorico discende anche un secondo elemento di criticità: nel giudicare le eccezioni alla norma – e cioè quelle autrici che si sono dedicate al divorzio, e i cui nomi e testi non sono stati cancellati dalla memoria collettiva –, si tende ad evidenziare il legame tra narrazione e biografia: il divorzio, prosegue Beer, è sempre trattato come un argomento autobiografico (ibid.). In generale, lacritico appiattimento delle tematiche trattate dalle scrittrici sul loro vissuto implica ripetere uno stereotipo di genere che ha fortemente penalizzato il modo in cui la letteratura delle donne è stata recepita e (non) canonizzata. In questo modo si è negata alle autrici una capacità di riflessione al di fuori degli schemi precostituiti, e il loro pensiero è stato ricondotto a semplice 17lamento, esternazione di dolore, irrazionale sentimentalità. È stato così osservato che il tema del divorzio “viene trattato in letteratura perché vissuto, dallAleramo alla Franchi, e prima ancora da Fanny Salazar, ed era un tema vivo, concreto, rispetto al quale potevano essere proposte battaglie” (Santoro, 1997, p. 35).

In tal modo vengono messi in correlazione due aspetti della questione non sono necessariamente interdipendenti: quello dellesperienza diretta di un disagio, e quello della rivendicazione sociale. Il significato implicito che sembra lecito cogliere è che le scrittrici (ma non gli scrittori) avrebbero bisogno di provare sulla propria pelle gli effetti di unesclusione per poterla pienamente tematizzare: il vissuto viene in qualche modo rappresentato come ragione e limite di una riflessione che, invece, lo travalica e trascende. Se è vero che alcune delle autrici qui trattate, con le eccezioni di Virginia Tedeschi Treves e Grazia Deledda, hanno effettivamente visto fallire le proprie esperienze matrimoniali, è anche vero che il loro modo di raccontare il divorzio dimostra una comprensione delle strutture di potere nella società e del significato della marginalità delle donne che non può ridursi a mero dato autobiografico.

Un esempio concreto del modo in cui il biografismo è intervenuto nellinterpretazione di unopera letteraria di mano femminile è rappresentato dalla ricezione critica di Avanti il divorzio di Anna Franchi. Fabio Danelon (2004, p. 273), ad esempio, dopo aver confermato che il motivo del divorzio è “pressoché assente” nella letteratura delle donne, definisce il romanzo di Franchi come un “prolisso ma interessante romanzo autobiografico”. Eppure, nonostante le loro infelici esperienze, intellettuali e scrittrici ottocentesche ritenevano il matrimonio come il miglior destino sociale femminile. Danelon, insomma, individua nellautobiografia loccasione della scrittura, ma non lo stimolo alla produzione di modelli relazionali originali, e riafferma così una sorta di impasse superata solo dal romanzo di Sibilla Aleramo.

Per tali ragioni si è scelto di non prendere in considerazione Una donna. Questa esclusione si fa tuttavia ulteriore ipotesi di lavoro, poiché proprio la canonizzazione del romanzo di Sibilla Aleramo ha portato a penalizzare altre esperienze di scrittura altrettanto originali e interessanti, seppure meno esplicitamente di rottura.

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Metodologia

Lapproccio ai romanzi selezionati si fonda sul modello del movimento americano Law and Literature, teorizzato in The Legal Imagination di James Boyd White (1973). Lo studioso propone unanalisi parallela di testi legali e letterari, e attribuisce a questi ultimi la capacità di cogliere gli aspetti umani delle questioni di tipo giuridico. Il movimento identifica il corpus legislativo in senso discorsivo, rilevando al suo interno una costruzione narrativa delle esperienze umane e sociali. Luniverso della prescrizione legale non è più inteso come fisso, nella sua oggettività e neutralità, ma come soggetto a cambiamenti dovuti sia alla temperie culturale, sia alle diverse polarizzazioni del potere. Dietro ogni avanzamento normativo – dallabolizione della pena di morte alla legalizzazione dellaborto, compresa lintroduzione del divorzio – si celano altrettante trasformazioni della sensibilità sociale e degli orientamenti del potere, di cui si può trovare traccia nelluniverso letterario.

Pietro Pellegrino (2013, p. 17, enfasi nelloriginale) individua un punto di incontro tra il “fatto (dimensione esistenziale della realtà, regno dellessere)” e la “prescrizione normativa (dimensione del giuridico, regno del dover essere che presidia lobbligo cui prestare ossequio)”: tale punto mediano è costituito dalla narrazione, vale a dire dallo spazio “del racconto, della relazione tra soggetti accomunati da un comune pathos e che, per ciò, si riconoscono: il regno del poter essere, di ciò che è ragionevole, gratificante ed è possibile che sia previsto e consentito dalla norma e dalla sua interpretazione comunitaria”. Con lanalisi del corpus ci addentreremo proprio in questultimo campo, che mette in luce, attraverso la narrazione, gli effetti di un certo tipo di norma, o della sua mancanza, sulla comunità. Lo faremo, però, da una prospettiva alternativa a quella dominante, prendendo come punto di osservazione la prospettiva marginale delle italiane rispetto ai centri del potere giuridico-legale postunitari.

A tale scopo verranno utilizzati alcuni spunti che provengono dalla filosofia giusfemminista contemporanea, finalizzata a individuare e rimuovere discriminazioni di genere a tuttoggi presenti 19nei codici.7 Il punto di partenza di questa filosofia è lidea che il diritto sia sessualmente connotato, modellato su un punto di vista maschile e in grado di produrre forme di ragionamento di stampo patriarcale.8 Il giusfemminismo mette in dubbio la capacità della giurisprudenza tradizionale di essere inclusiva rispetto a esperienze e prospettive altre, che sono conseguentemente penalizzate: non soltanto la posizione delle donne, ma tutte le esperienze devianti dalle norme codificate come, ad esempio, quella delle coppie omosessuali. Al fine di portare avanti il processo di inclusione cui aspira, la filosofia giusfemminista ha avanzato alcune proposte metodologiche per identificare e condannare le norme che escludono o svantaggiano le categorie marginalizzate; per ampliare la tradizionale nozione di rilevanza legale, in base alla quale la giurisprudenza stabilisce cosa considerare e cosa invece scartare nel disciplinamento di un reato o nella risoluzione di una controversia; per tentare di correggere la prospettiva situata e sessuata della legge con lintegrazione di punti di vista alternativi, minoritari e sottorappresentati attraverso il ricorso alle narrazioni di esperienze personali.

Da questo punto di vista, come evidenziato da Carolyn Heilbrun e Judith Resnik (1990, p. 1914), la lettura parallela dellapparato legislativo e dei testi letterari è particolarmente fruttuosa, perché il racconto si fa testimonianza della non neutralità dellapparato legislativo stesso. In proposito, Kathryn Abrams (1994, p. 44) ha sottolineato limportanza della pratica dello storytelling al femminile, prodotto da un senso di frustrazione verso istituzioni incapaci di affrontare i problemi delle 20donne o di proporre rimedi adatti. Questa narrativa “of excluded voices”, di voci escluse appunto, mira a portare allattenzione del pubblico problematiche che, ignorate o solo parzialmente risolte dallapparato legislativo, vengono invece umanizzate dal racconto delle vittime di oppressione di genere.

È questo ciò che accade nei romanzi che verranno esaminati, testi che tentano di cogliere non solo gli aspetti umani della questione legale del divorzio ma, più specificatamente, gli aspetti connessi al mondo femminile. Come ha osservato Kristin Kalsem (2012, pp. 4-8) riguardo alla letteratura delle donne inglesi, il romanzo è uno strumento efficace della critica femminile alla legge, poiché garantisce una vasta accessibilità popolare e permette una diffusa descrizione della realtà delle donne nella loro resistenza alle limitanti definizioni della legge. La sua struttura polifonica, inoltre, permette di esplorare le valenze oppressive del linguaggio legale nei confronti delle donne. Anche nel caso italiano tali scritture, definite da Kalsem (ibid., p. 5) “outlaw texts”, necessitano di essere lette in parallelo con i codici istituzionali per poter essere pienamente comprese: esse precorrono infatti i metodi fondamentali dellodierna giurisprudenza femminista. Da questo punto di vista, dunque, la tematizzazione del divorzio da parte delle autrici non soltanto rappresenta un intervento in un discorso giuridico ancora in itinere, ma sottintende soprattutto una presa di posizione in merito alla più ampia questione del rapporto tra donne e istituzioni.

Le conseguenze politiche della trasformazione del divorzio in tema letterario sono profondamente connesse col vistoso fenomeno del primo femminismo, che interessò lEuropa e gli Stati Uniti fin dagli inizi del XIX secolo.9 In Italia lemancipazionismo fu un movimento piuttosto frammentario, che nacque in seno alle lotte risorgimentali; il legame tra rivendicazione femminile e patriottismo portò a identificare la donna con la propria famiglia, di cui doveva salvaguardare i valori tradizionali.

Il primo femminismo avviò una riflessione di carattere sociale, culturale, giuridico ed etico-morale sulla femminilità, riflessione 21certamente recepita dalle autrici rappresentate in questo lavoro. Più che sui legami tra i testi e il pensiero emancipazionista, si è però preferito soffermarsi sulle modalità narrative con le quali i romanzi in esame rappresentano una realtà di disuguaglianza e subordinazione femminile strutturale nella società del tempo. In tal modo si è accolta la proposta avanzata da Katharine Mitchell (2010a, pp. 483-485) di leggere i testi letterari come rappresentazione creativa di una storia al femminile non ufficiale. Le narrazioni diventano così uno strumento per ricostruire lo sguardo delle donne sulla propria storia, raccontata in modo originale e finzionale. La lettura dei romanzi qui proposta, pertanto, sarà mirata anche a far affiorare le proposte alternative da essi veicolate in merito ai rapporti tra i sessi e ai ruoli di genere codificati.

1 Per uno sguardo di insieme sulla letteratura delle donne del periodo considerato, ma senza pretesa di completezza, si rinvia almeno a Nozzoli, 1978; Zambon, 1994; Wood, 1995; Arslan, 1998; Zancan, 1998; Patriarca, 2000; Kroha, 2000; Lepschy, 2000; Re, 2001; Perella, 2003; Wood, 2003; Verdirame, 2009; Cavallera – Scancarello, 2013. Testi ricchissimi a livello antologico sono quelli curati da Morandini, 1980; Santoro, 1987 e 1997; Reim, 1991; Sanvitale, 1995; Zambon, 1998; Padovani – Verdirame, 2001; Verdirame, 2009.

2 Sulla nascita di una readership femminile e sullassociazione donne-lettura si vedano Caesar, 2001 e Re, 2001; per le case editrici specializzate in letteratura delle donne cfr. Frau, 2011b.

3 Sul tema cfr. Verdirame, 2009.

4 In proposito cfr. Zambon, 1989.

5 Sul matrimonio, fondamentali sono gli interventi di Arnaud-Duc, 1991 e Dauphin, 1991, che tuttavia non sono dedicati alla sola situazione italiana, e di Palazzi, 1997, che pone la tematica del divorzio nellambito di una più ampia casistica di solitudini femminili. Affrontano solo parzialmente il tema anche i contributi di Beer, 1996 e De Giorgio, 1996. Sulla questione del divorzio, si vedano Coletti, 1970; Caldwell, 1991; Seymour, 2004 e 2006; Valsecchi, 2004; Franceschi, 2012.

6 Segnalo per esempio Flavia Steno (pseudonimo di Amelia Osta Cottini, 1877-1946) che in almeno due romanzi – I forzati della felicità (1904) e Gli orfani dei vivi (1926) – si espresse contro lintroduzione del divorzio. Il primo testo, uscito a puntate sul Secolo XIX e, allo stato attuale delle ricerche, mai edito in volume, era “ben congegnato e la trama, tutta imperniata sulla sacralità del matrimonio, offriva numerosi spunti per esprimere le proprie considerazioni in merito al dovere della rinuncia e allaffermazione della dignità della donna” (Picchiotti, 2010, p. 104). Il secondo, invece, venne pubblicato a puntate sul settimanale La Chiosa dal 16 dicembre 1920 al 13 ottobre 1921, e riedito poi in volume da Treves nel 1926. In questa seconda opera, Steno immagina che la legge sul divorzio sia effettivamente in vigore ed evidenzia i suoi catastrofici effetti sulla prole. Picchiotti (2010, pp. 91-92) segnala inoltre diversi articoli di orientamento antidivorzista pubblicati da Steno sul Secolo XIX nel 1901, e le sue recensioni a Dopo il divorzio di Grazia Deledda e ad Avanti il divorzio di Anna Franchi nel 1902.

7 Per una recente introduzione al giusfemminismo si rinvia a Casadei – Amorevole, 2015; per alcune ricostruzioni storiche del caso italiano da una prospettiva giusfemminista si vedano Pitch, 1998; Sarogni, 2004; Pazé, 2013.

8 Questo tipo di ragionamento è condiviso dai rappresentanti delle istituzioni, tradizionalmente di sesso maschile, e forma quella che dora in avanti verrà definita giurisprudenza tradizionale. Sulla scorta delle tesi di Finley, 1989, Bartlett,1990, Heilbrun – Resnik, 1990, con giurisprudenza tradizionale si fa riferimento allinsieme delle leggi e delle istituzioni giuridiche rigidamente impostate su standard maschili, indifferenti ai punti di vista e alle prospettive delle minoranze. Particolarmente stimolante è la definizione del suo linguaggio: “Legal language commands: abstract a situation from historical, social and political context; be objective and avoid the lens of non-male experience; invoke universal principles such as equality and free choice; speak with the voice of dispassionate reason; be simple, direct and certain; avoid the complexity of varying, interacting perspectives and overlapping multi-textured explanations; and most of all, tell it and see it like a man – put it in terms that relate to men and to which men can relate” (Finley, 1989, p. 905).

9 Nella storiografia italiana il fenomeno è definito con la categoria terminologica di emancipazionismo, per distinguere la fase ottocentesca da quella del femminismo degli anni Settanta del XX secolo. Il termine non è però presente nelle fonti e i suoi derivati, come rileva Gazzetta, 2018, sono utilizzati in senso dispregiativo. Tenendo conto di questa precisazione terminologica, in questo lavoro si utilizzeranno in modo intercambiabile entrambe le definizioni.