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Classiques Garnier

Oltre stoici e aristotelici I chiaroscuri della compassione negli Essais

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Oltre stoici e aristotelici

I chiaroscuri della compassione
negli Essais

Nel saggio inaugurale « Par divers moyens on arrive à pareille fin » uno dei due mezzi di cui dispone il vinto per ottenere la clemenza del vincitore è quello di muoverlo alla commiseration e alla pitié1 ; mezzo efficace, ma non privo di rischi, al pari del suo contrario – dimostrare spavalderia e coraggio – come provano gli opposti esiti cui ambedue i mezzi vanno incontro. Ritornando su questa pagina, Montaigne confesserà apertamente di essere più portato alla compassion che alla estimation, e questo a dispetto di una iniziale riserva – la compassione come effetto di facilité, débonnaireté, et mollesse sarebbe propria delle anime deboli2 – e della condanna stoica : « est la pitié passion vitieuse aux stoïques, ils veulent qu’on secoure les affligez mais non pas qu’on flechisse et compatisse avec eux3 ». Sempre nel primo libro, nel saggio che mette a confronto il riso beffardo di Democrito con il pianto di Eraclito a proposito della condizione umana, Montaigne aveva accordato la propria preferenza al primo rispetto alla « pitié et commiseration » di Eraclito e questo perché « la plainte et la commiseration sont meslées à quelque estimation de la chose qu’on plaint : les choses dequoy on se moque, on les estime sans prix4 ». Nell’Apologie la visita a Ferrara di Montaigne a Torquato Tasso, ormai folle, presenta un esempio simile. Alla vista del poeta, « en si pitieux estat, survivant à soy-mesmes, mesconnaissant et soy et ses ouvrages », esempio lampante di quanto siano labili i confini tra ingegno e follia, Montaigne confessa di aver provato « plus de despit encore que de compassion5 ».

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A questo punto degli Essais Montaigne aveva già confessato in « De la cruauté6 » la propria indole compassionevole – « je me compassionne fort tendrement des afflictions d’autruy, et pleurerois aisement par compaignie, si, pour occasion que ce soit, je sçavois pleurer » – e, poco sopra, la propria mollesse, al punto da non sopportare le abituali crudeltà perpetrate a danno degli animali per il piacere della caccia e per inveterate abitudini alimentari. Noi siamo ovviamente con lui, tuttavia non si può non rilevare la apparente contrarietà tra questi esempi, che da una parte presentano l’indole estremamente compassionevole dell’autore, e dall’altra una presa di distanza, un atteggiamento valutativo nei confronti dell’individuo o delle situazioni che si presentano come degne o meno di compassione. In realtà tra una natura compassionevole come quella di Montaigne e le sue riserve nei confronti delle stato pietoso del Tasso o della condizione umana non c’è contrarietà. Montaigne si dichiara compassionevole, ma ritiene che determinati individui e categorie di persone non siano idonei a suscitare la sua compassione, non abbiano i requisiti necessari per essere compassionati. Si tratta evidentemente di un problema di valutazione. Ci sono criteri o requisiti in base ai quali Montaigne giudica determinati individui o una categoria di persone degni di compassione ? Oppure la compassione opera in modo spontaneo indipendentemente da qualsiasi valutazione e giudizio ?

Senza nascondersi le ambiguità del legame compassionevole7 la critica ha da tempo e in vari modi valorizzato la portata di questo potere di compassione, effetto della dichiarata « innocence niaise » dell’autore8 : come passione ponte che assicura, a livello spontaneo e preverbale, la « relation à autruy » secondo Jean Starobinski, o come caso particolare dello smithiano « scambio di posto » mediato dalla immaginazione nella analisi di Nicola Panichi9. Gli studi anglo-americani hanno sottolineato

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in particolare le conseguenze etiche della compassione. Un articolo di Philipp Hallie su un saggio centrale per il nostro argomento come II, 11, « De la cruauté », individuava nelle risposte compassionevoli di Montaigne l’origine di un’etica impremeditata e antirazionalista. Il solo spostamento dell’attenzione dall’agente morale e dall’etica del « governo interiore », fondata sul controllo dei propri stati emotivi e sulla ricompensa della virtù, alle vittime visibili e constatabili della crudeltà era sufficiente per modificare in modo sostanziale una intera prospettiva etica10. La condanna della crudeltà, insieme al riconoscimento della dimensione universale del dolore e al « cemento etico della empatia » – la capacità di entrare in relazione con la sofferenza altrui in termini non egoistici – costituiscono i principi fondamentali di una vera e propria etica della compassione attribuita da Max Gauna a Montaigne11.

Con dodici occorrenze oltre alle forme derivate, la compassion rientra nella piccola costellazione di voci di cui fanno parte anche commiseration (5), pitié (24) e il raro sympathie (2)12. Negli Essais queste forme non presentano ovviamente quell’affinamento concettuale che porterà in seguito con David Hume e Adam Smith a distinguere la compassione dalla simpatia e anche dal sentimento naturale della pietà con Rousseau, o tanto meno a distinguere con Max Scheler le funzioni simpatetiche dal riflesso della compassione e dalle etiche settecentesche della simpatia. Tuttavia queste diverse forme negli Essais sono abbastanza differenziate da sconsigliare un loro uso intercambiabile13. In particolare questo vale per la compassion, che non sembra sovrapponibile a sympathie, pitié e forse

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nemmeno a commiseration. Ma se la compassione non si confonde, essa si lega a queste altre forme affini e anche a passioni come amour e tristesse. È attraverso questi legami che la compassione acquista la sua plasticità e la sua forza, assumendo le nuances più diverse, dalle più tenui alle più fosche, in misura tale da consigliare nei suoi confronti l’esercizio del discours e della superiore facoltà del jugement.

« De la cruauté » insieme ad altri saggi del secondo libro – II, 20, « Nous ne goustons rien de pur » e II, 29, « De la vertu » – discute il problema della virtù stoica e dei suoi eccessi. Confessando la propria mollesse, Montaigne entrava in aperta opposizione alla condanna stoica della mollitia propria del compassionevole, che trovava ampiamente svolta nel De clementia di Seneca e nel contempo imprimeva un orientamento diverso all’analisi della compassione che Iustus Lipsius si apprestava a compiere nel De constantia, nel quadro di un restaurato stoicismo in senso cristiano14.

L’incidenza del De clementia su saggi come « Divers evenemens de mesme conseil » (I, 24) e « De la cruauté », così come quella de De ira sul saggio « De la colère » (II, 31), è stata sottolineata a sufficienza da Villey in poi perché vi ci si debba soffermare ancora15. Nel De clementia Seneca aveva stigmatizzato la misericordia come una aegritudo animi alla vista dei mali altrui che troviamo immeritati (II, 5). A Nerone, destinatario dell’opera, Seneca provava che si poteva arrivare alla virtù della clemenza senza indulgere a quel vero e proprio vizio dell’anima che è la misericordia. Il saggio deve evitare i due estremi rappresentati, rispetto alla severità, dalla crudeltà e, rispetto alla clemenza, dalla compassione (II, 4).

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Era un modo per rispondere alla tesi aristotelica sull’origine della virtù dalle passioni, una tesi che l’« Apologie de Raymond Sebond » avrebbe ripreso16. Come il coraggio è sostenuto dalla collera, la prudenza dalla paura, tante nobili azioni dall’ambizione, così « la compassion sert d’aiguillon à la clemence » (« à la liberalité et à la justice »)17. La fonte di Montaigne, Cicerone (Tusculanae18), aveva sottolineato come, secondo i peripatetici, la compassione, al pari di altre passioni negative, presentasse il vantaggio di portare sollievo e aiuto alle sventure di chi non le merita (IV, 46). Questa esposizione della finalità etica delle passioni era però accompagnata da obiezioni stoiche che insistevano sulla incapacità di tenere le passioni entro limiti stabiliti (« modum quemdam ») una volta che esse fossero state innescate (IV, 38-40). Fare delle passioni gli indispensabili propellenti delle virtù e stabilire dei limiti al loro corso, come pretendevano i peripatetici, risultava del tutto impossibile ; soprattutto nel caso delle afflizioni risultava impraticabile mantenere qualche misura e pressoché inevitabile oltrepassarla (IV, 40). Queste obiezioni erano riprese nel De ira di Seneca, dove si osservava contro Aristotele che le passioni sono armi che invece di lasciarsi maneggiare possiedono e guidano la mano di chi le impugna (I, 17) ; una risposta che Montaigne avrebbe ripreso pressoché alla lettera nella conclusione di « De la colère19 ». Un ulteriore esempio del contrasto tra stoici ed aristotelici era offerto proprio da « De la cruauté20 », che vedeva questa volta Montaigne accettare, attraverso Plutarco (De stoicorum repugnantiis, 27, 1046 e-f), l’obiezione degli aristotelici alla tesi stoica secondo la quale quando una virtù è operante, tutte le altre vi concorrono a motivo della loro stretta connessione (Diogene Laerzio, Vita Zenonis, VII 125).

Montaigne trovava così in Cicerone e in Seneca obiezioni stoiche alla teoria aristotelica del limite delle passioni e della compassione in

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particolare. Attraverso le sue fonti, Montaigne veniva a conoscenza del dibattito ellenistico tra stoici ed aristotelici sulla compassione, che può essere considerato il quadro di riferimento della sua analisi negli Essais21. Questa presuppone ovviamente anche la conoscenza della disamina della compassione nella Retorica di Aristotele22. È plausibile che Montaigne abbia tenuto conto del testo aristotelico e se ne sia servito per produrre una sua consapevole violazione non solo in senso epistemologico, come potrebbe essere ovvio, ma anche in senso retorico ed etico. Si può ipotizzare che Montaigne abbia tenuto presente la trattazione della compassione nella Retorica nello stesso modo in cui, secondo Ullrich Langer, egli ha tenuto conto della classificazione delle virtù nell’Etica Nicomachea, e cioè allo scopo di trasformarla in modo significativo23. Per destare la compassione del lettore verso soggetti o eventi diversi da quelli abituali non era sufficiente il richiamo alla propria indole compassionevole o alla immediatezza del sentire, ma occorreva rivestire i nuovi soggetti dei caratteri idonei a destare anche la compassione. Nel contempo, però, la violazione dei limiti entro i quali Aristotele situava la compassione portava ad una immagine meno rassicurante di questa passione, ben oltre l’etica aristotelica del giusto mezzo, come avevano già obiettato gli stoici.

Nel secondo libro della Retorica Aristotele aveva fornito una definizione della compassione destinata ad avere larga influenza sul pensiero moderno. Definendo la compassione (éleos) una sofferenza causata da un male che sembra colpire una persona che non lo merita e che potrebbe capitare in futuro anche a noi e ai nostri stretti congiunti (1385b), Aristotele metteva in risalto le disposizioni d’animo richieste per l’insorgere della compassione : credere che il male occorso sia reale e consistente, che il

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soggetto sia degno di considerazione, che l’individuo colpito non meriti la sofferenza. Aristotele istituiva inoltre un rapporto di analogia più o meno stretto che fa considerare il male capitato ad altri come suscettibile di colpire anche noi. Il riconoscimento di una vulnerabilità analoga a quella di chi è colpito è uno dei requisiti della compassione, destinata a rafforzarsi quando la persona colpita presenta somiglianza con noi per età, carattere, rango sociale, etc. La forza del legame tra la persona colpita e chi assiste costituisce un rilevante requisito per l’insorgere della compassione (1385 a). Un legame molto forte fa nascere inevitabilmente la compassione come nel caso del legame tra genitori e figli ; tuttavia, proprio a motivo di questa forte identificazione, la compassione può venir meno e lasciare posto a passioni più forti (1386 a). Quanto a intensità emotiva infatti la compassione si colloca in una posizione intermedia ; non nasce in chi è in preda alla collera o gode di una assoluta posizione di superiorità o sicurezza (Rousseau svilupperà questo aspetto a proposito dei sovrani), né in chi è preda della paura, perché quando un pericolo incombe si pensa solo alla propria sopravvivenza. Questa analisi era inserita in un contesto retorico : l’oratore deve conoscere le disposizioni d’animo e gli eventi idonei a muovere a compassione i suoi uditori, con gesti, voce e mimica appropriati.

Nei confronti del quadro aristotelico la compassione occupa tutto lo spazio lasciato aperto dalla dissoluzione della gerarchia dei generi e delle specie, riconoscendo nell’intero vivente la sua dimensione. L’estensione della compassione dipende dalla esperienza universale del dolore, centro dell’etica della compassione sottolineata da Gauna24. Sottoposto secondo la generale abitudine della natura « à trèmbler sous la douleur », l’intero vivente è suscettibile di compassione, non esclusi gli stessi alberi che « semblent gemir aux offences qu’on leur faict25 ». La compassione tuttavia è soltanto un versante di quel « sentiment de l’unité cosmique » (Baraz) o di quella « forma espansiva del sentire » che è, secondo Starobinski, la simpatia26. Attraverso un’ampia argomentazione « De la cruauté »

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trasforma la iniziale compassione dell’autore nei confronti delle vittime della crudeltà, umane e animali, nella sua esplicita simpatia27 per gli animali, per concludersi con la solenne dichiarazione del rispetto e della « grace et benignité » dovuti alle « creatures qui en peuvent estre capables28 ». Si tratta della prima delle due sole occorrenze della simpatia negli Essais. La seconda si troverà poco più avanti nell’Apologie per significare certe segrete propensioni che gli animali, non meno degli esseri umani, hanno tra di loro : « Il y a certaines inclinations d’affection qui naissent quelquefois en nous sans le conseil de la raison, qui viennent d’une temerité fortuite que d’autres nomment sympathie : les bestes en sont capables comme nous29 ». L’uso circoscritto della simpatia, accompagnato per di più da una presa di distanza (« que d’autres nomment »), fa intendere che per Montaigne l’uso del termine richiede una giustificazione, introdotta sotto forma di un argomento teologico (« la Theologie mesme nous ordonne quelque faveur en leur endroit […]30 »).

Questo passaggio dalla compassione a « cette sympathie » animale e ai doveri di rispetto e benevolenza si riverbera nella scena della caccia al cervo, che nella prima edizione è immediatamente precedente. Il cervo braccato che si rimette versando le sue lacrime alla mercé degli inseguitori ha la compassione e insieme la simpatia dell’autore, che giudica « très-desplaisant » lo spettacolo, tanto più che il cervo beneficia dei requisiti aristotelici di una sofferenza reale, patita senza colpa alcuna (« une beste innocente, qui est sans deffence et de qui nous ne recevons aucune offence31 »). Descrizione retoricamente efficace che contribuisce

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a insinuare nel « suffisant lecteur » un senso di compassione tanto più forte, se sarà capace di ravvisare nella sorte del cervo una analogia con la sottomissione del vinto di fronte al vincitore del saggio iniziale e se saprà cogliere, qui, il contrasto tra la fine crudele del cervo e i gesti benevoli con cui l’autore è solito ridare la libertà agli animali o rispondere, poco più avanti, alle feste del proprio cane.

Il vivente, in tutta la sua estensione, opera tuttavia anche come discrimine. La compassione si estende ai morenti, ma non a chi non c’è più, ai morti32, nei confronti dei quali i sentimenti appropriati sono la gratitudine, l’amicizia, la memoria, motivi che la parte conclusiva del saggio III, 9, « De la vanité » svilupperà unendo il ricordo paterno alla memoria degli antichi romani. Tuttavia, a conferma che la compassione va controllata attraverso il discours, lo stesso saggio presenta un vero e proprio codice rivolto a sollevare i morenti dall’eccesso di attenzioni e di pianti che li assediano, e che non hanno altro risultato che quello di stringere il loro cuore di pietà se sono pianti sinceri, e di dispetto se finti33. La pietà e il dispetto del morente non si rivolgono alla propria condizione, ma alle eccessive manifestazioni di compassione nei suoi confronti. È la compassione che fa pietà34. Coerentemente con questo codice, Montaigne confessa di liberarsi ogni giorno par discours « de cette humeur puerile et inhumaine, qui faict que nous desirons d’esmouvoir par nos maux la compassion et le deuil en nos amis35 ». Al contrario, invece di cercare la compassione altrui, si può trarre motivo di gloria dalla crainte e pitié popolari nei confronti di una malattia temuta come quella da cui è affetto l’autore36.

Il discrimine del vivente, capace di sensazione e quindi di dolore, porta Montaigne ad approvare i procedimenti di sostituzione simbolica del vivente con la sua effigie o con oggetti che in qualche modo lo

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rappresentino (Artaserse che punisce i suoi dignitari facendo frustare le loro vesti o i sacrifici animali eseguiti dagli egiziani sulla loro effigie37). L’incivilimento passa attraverso sostituzioni simboliche di questo tipo. La sostituzione si fa più complessa quando Montaigne propone di rivolgere i crudeli e lugubri rituali della giustizia penale dell’epoca al corpo ormai inerte del condannato dopo la sua esecuzione, invece che al condannato ancora in vita, come l’autore ha avuto modo di osservare nel corso della esecuzione a Roma del « voleur insigne » Catena38. Senza denunciare alcuna emozione al momento della esecuzione, il popolo si sgomenta quando il boia infierisce, accompagnando con grida lamentose ogni colpo inflitto al corpo inerte del condannato « comme si chacun eut presté son sentiment à cette charongne39 ».

Montaigne, che ha appena dichiarato di non poter assistere alle esecuzioni d’« une vüe ferme40 », è stato in grado di osservare con distacco sia l’esecuzione (nelle parole del Journal de voyage : « il fait une mort commune, sans muovemant et sans parole41 ») sia la reazione compassionevole della folla. Qui non è operante un’etica impremeditata e nemmeno l’empatia nei confronti del dolore altrui. Come conferma il Journal de voyage che riporta l’avvenimento in data 11 janvier 1581 insieme al giudizio di Montaigne : « il remarqua ce qu’il a dit ailleurs, combien le peuple s’effraie des rigueurs qui s’exercent sur les corps morts42 ». Forte della sua convinzione che la compassione vada riservata ai viventi, Montaigne trova nella procedura osservata a Roma un efficace strumento repressivo. Una giustizia meno crudele può utilizzare la compassione popolare a scopo repressivo : questa trasferisce erroneamente i suoi sentimenti da un corpo vivo a un corpo inerte e insensibile e lo compatisce. L’errore è però utile e istruttivo. La rappresentazione scenica della compassione ha

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avuto luogo : ciò che oggi è inflitto al povero Catena domani può essere inflitto a noi, anche perché come si legge nel Journal « un ou plusieurs Jésuites ou autres se mettent sur quelque lieu hault et crient au peuple, qui deçà qui delà, et le prêchent pour lui faire gouster cet example43 ».

Quando opera in vista di una giustizia meno disumana o all’interno di un ordine naturale, la compassione presenta un senso positivo. Diventa meno rassicurante quando si consideri la qualità del contenuto emotivo nel duplice passaggio dalla vittima al compassionevole e da questi alla vittima. Qui opera la forza della immaginazione che Montaigne dichiara di possedere all’eccesso, al punto da non poterla vincere se non sottraendosi ai suoi effetti : « la veue des angoisses d’autruy m’angoisse materiellement », « un tousseur continuel irrite mon poulmon et mon gosier44 ». Materialmente è importante. Montaigne localizza la sofferenza altrui nel proprio organo corporeo corrispondente. Malebranche, nel secondo libro della Recherche de la vérité, darà molto risalto a questa localizzazione corporea nel transfert della compassione, a conferma della incidenza degli Essais sulla tematica malebrancheana della imagination forte. L’aspetto corporeo della compassione comporta l’imitazione del patire altrui, riconducibile alla indole « singeresse et imitatrice » dell’autore45, più che al sentimento morale o ad un atteggiamento valutativo che considera compassionevole o meno la vittima. Attraverso fonti che da Pedro Mexia ad Agrippa di Nettesheim e sulla scia di Avicenna sottolineavano la forza creatrice della immaginazione, capace di produrre gli eventi e di trasferirli da una mente ad un’altra, la compassione opera, diversamente dalla Retorica aristotelica, come una risposta riflessa alla vista della sofferenza altrui46.

Il secondo aspetto negativo è dato dal contenuto emotivo che passa inevitabilmente dalla vittima al compassionevole, soprattutto se questi è dotato di forte immaginazione. Montaigne, che si dichiarerebbe alieno

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dalla tristezza47, è esposto dalla sua forza immaginativa a subire quella degli altri. La sua buona disposizione si trova esposta, nei termini del De clementia di Seneca, alla aegritudo animi o alla tristitia ex alienis malis contracta, stati d’animo che rendevano condannabile la compassione da parte degli stoici. Spinoza la condannerà per lo stesso motivo : la commiseratio è una specie di tristitia accompagnata dalla idea del male altrui48. È quanto è capitato a Montaigne giovane che, dietro consiglio di Simon Thomas, medico di un anziano malato, si era recato a fargli visita a scopo terapeutico. A contatto con la vitalità e la freschezza giovanile dell’ospite la salute del malato ne avrebbe tratto giovamento, sosteneva quel medico, dimenticandosi di aggiungere, però, commenta Montaigne, che la sua nello scambio sarebbe peggiorata49. Rispetto alla commossa partecipazione per la sofferenza umana e animale in « De la cruauté », qui emerge un atteggiamento difensivo, che consiglia di rifuggire da relazioni dannose a favore di altre vantaggiose, come vivere con persone sane e allegre cercando di trarre profitto dalla forza comunicativa della immaginazione50.

Dalla parte del compassionevole la compassione risulta non meno temibile per la vittima a motivo del suo legame con la crudeltà. Invece di essere un eccesso della severità e opposta alla compassione come voleva Seneca, la crudeltà si insinua all’interno della compassione sotto forma di quella « aigre-douce poincte de volupté maligne à voir souffir autruy51 ». Malignità o piuttosto « courage malitieux et inhumain » che si accompagna abitualmente a una mollesse feminine, esemplificata da uomini crudeli e compassionevoli all’estremo come Alessandro tiranno di Fere52. Se poi si aggiunge che a giudizio di Montaigne gli italiani hanno « plus sortablement baptisé » col nome di tristezza la stessa malignità53, la sequenza negativa si estende anche alla tristesse, così da ottenere : mollesse-compassion-malignité-tristesse.

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La contiguità tra compassione e tristezza può tuttavia essere alterata in presenza di una tristezza estrema. « De la tristesse » (I, 2) presentava già la tensione tra le due passioni nei termini di una alterazione profonda. Una tristezza che sa sciogliersi in parole, pianti, gesti compassionevoli risulta sopportabile, a conferma che « toutes passions qui se laissent gouster et digerer, ne sont que mediocres », o con Petrarca : « chi può dir com’egli arde è in picciol fuoco54 ». All’opposto una tristezza all’eccesso, rigida e impenetrabile, che non dia sfogo a nessuna manifestazione esteriore, né dell’animo né del corpo, non riesce a tradursi in compassione. Per quanto ne dicano gli stoici, nei confronti di un dolore estremo, paralizzante, la compassione ha almeno questo di positivo, di manifestarsi attraverso gesti, lacrime, parole. Montaigne poteva così cominciare il saggio con l’episodio erodoteo di re Psammenito d’Egitto, il quale, nel vedere la figlia prigioniera in abiti servili e il figlio condotto a morte, era rimasto muto e immobile, tra il compianto degli amici intorno a lui, mentre nel vedere poi prigioniero uno del suo seguito si era lasciato andare a segni di straordinario dolore.

Come ha documentato Gérard Defaux, Montaigne spoglia il racconto delle Historiae (III, 14) che legge nella traduzione di Pierre Saliat (1575) dal gioco sottile tra il vincitore e il vinto e dal comportamento dignitoso e altero di Psammenito, per trasformarlo nella problematica dell’indicibile, attribuendo al re egiziano una risposta che nel testo di Erodoto non si trova55. Interrogato dal vincitore Cambise re di Persia, Psammenito aveva risposto che « ce seul dernier deplaisir se peut signifier par larmes, les deux premiers surpassans de bien tout moyen de se pouvoir exprimer56 ». Se è vero che Montaigne trasforma l’episodio in conformità alla sua tesi – la incapacità di comunicare una passione estrema, anche positiva come la gioia – rimane altrettanto vero che l’episodio mette in scena l’opposizione aristotelica tra il compassionevole e l’insopportabile. Il lettore vede passare Psammenito dalla impassibilità alla compassione, con la conseguente esclusione dell’una dall’altra. « [L’horrible] exclut même la pitié et sert souvent à mouvoir le senti

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ment opposé » si leggeva nella Retorica57 ; il che, per inciso, costituisce una importante premessa agli esempi di feroce reazione del vincitore di fronte alla compassionevole sottomissione dei vinti nel saggio precedente (I, 1). Quando il legame che ci unisce alla persona colpita è così stretto da metterci nella disposizione in cui ci troveremmo se fossimo noi stessi colpiti, la compassione tace ; insorge, invece, in noi se il legame che ci unisce alla persona colpita è solo relativamente stretto. Aristotele poteva così citare lo stesso esempio del re egiziano a conferma della tesi che la compassione subentra all’orribile58 (1386a). L’opposizione aristotelica è presente, e in misura più radicale, nell’episodio – tratto da Paolo Giovio – del capitano tedesco Raïsciac, aggiunto in [C] nello stesso saggio. Questi, capace di compiangere « d’une plainte commune » un anonimo cavaliere caduto in battaglia, rimase poi lui solo, « parmi les larmes publiques », immobile, muto, incapace di lacrime e di lamenti, quando, tolta l’armatura al cavaliere, scoprì che si trattava di suo figlio, al punto che « l’effort de la tristesse » lo fece cadere « roide mort » a terra59. La messa in scena della subitanea transizione dalla compassione all’insopportabile, conseguente alla scoperta di un legame molto più stretto di quello immaginato, non si limita all’indicibile come nel caso precedente, ma arriva a provocare un esito ferale.

Che la compassione, come tutte le passioni, possa spingersi all’estremo a dispetto delle classificazioni della filosofia, è provato da una serie di esempi di crescente drammaticità. Il saggio II, 3, « Coustume de l’isle de Cea » presenta, attraverso le Antiquitates Iudaicae (XII, V, 4) di Flavio Giuseppe, un breve episodio a tinte fosche, quello delle donne ebree che per sfuggire alla crudeltà di Antioco si gettano nei precipizi insieme ai loro figli dopo averli fatti circoncidere60. L’episodio non richiama, come potrebbe, la compassione, che ritorna invece in una aggiunta dello stesso saggio, a proposito del suicidio di Cocceio Nerva, il quale, come ricorda

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Tacito negli Annales (VI, XXVI), mosso dall’amor di patria, non ebbe altro motivo per uccidersi che « la compassion du miserable estat de la chose publique Romaine61 ». Per quanto ammirevole, il nobile gesto di Nerva non è certo da imitare, come prova il comportamento dello stesso Montaigne, che di fronte a « ce notable spectacle de nostre mort publique », lungi dal prendere decisioni estreme, si dichiara contento « d’estre destiné à y assister et [s’]’en instruire62 ».

La compassione come estremo ritorna nel saggio I, 14, « Que le goust des biens et des maux depend en bonne partie de l’opinion que nous en avons63 », nel mezzo di uno dei resoconti più alti della resistenza degli ebrei alle persecuzioni cristiane, di cui Géralde Nakam ha fornito una documentata ricostruzione nel suo Le dernier Montaigne64. Il racconto raggiunge il culmine dell’orrore quando re Emanuele ordina di sottrarre ai genitori i figli al di sotto dei quattordici anni per convertirli alla religione cristiana. Allora si videro padri e madri « se deffaisant eux memes » e « d’un plus rude exemple encore, precipitant par amour et compassion leurs jeunes enfants dans des puits pour fuir à la loy65 ». Esempio lampante della forza esercitata dall’opinione, in questo caso l’attaccamento alla propria fede, a conferma della tesi che « toute opinion est assez forte pour se faire espouser au pris de la vie66 ». Qui la compassione arriva ad operare contro natura, vincendo la naturale affezione e il legame strettissimo dei genitori per i figli, in particolare delle stesse madri le quali, come nel saggio II, 3, « Coustume de l’ile de Cea », si fanno esecutrici di una compassione efferata, a conferma del « courage malitieux et inhumain » che si accompagna abitualmente a una « mollesse feminine67 ». Agendo

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sotto la spinta di radicate convinzioni come l’attaccamento alla propria fede, l’amour-compassion rende preferibile una morte violenta alla sorte, giudicata più dolorosa e intollerabile, di ebreo convertito. Proprio perché riferita al futuro, la compassione non è il riflesso di una sofferenza altrui presente e nemmeno opera in modo impremeditato a favore della vittima secondo un’etica della compassione. L’episodio prova piuttosto quanto la compassione possa essere distruttiva all’interno di un’etica della coerenza. Anche la compassione fa le sue vittime. La scena drammatica delle persecuzioni portoghesi forza la medietà della compassione aristotelica. Nella Retorica la compassione risultava operante quando passioni forti come coraggio, collera, paura tacevano ; per contro, di fronte ad una tristezza estrema, all’orribile, la compassione taceva, come provava l’episodio di re Psammenito in « De la tristesse ». Nell’episodio della persecuzione portoghese la compassione mette in esecuzione l’orribile, arrivando all’estremo.

Giambattista Gori
Università degli Studi, Milano

1 Essais, I, 1, p. 7 [A]. Le citazioni degli Essais si riferiscono, salvo altra indicazione, alla edizione Villey Saulnier in tre volumi, PUF, « Quadrige », Paris 1999.

2 Essais, I, 1, p. 8 [A].

3 Essais, I, 1, p. 8 [B] ; corsivi miei.

4 Essais, I, 50, p. 303 [A] ; corsivi miei.

5 Essais, II, 12, p. 492 [A] ; corsivi miei.

6 Essais, II, 11, p. 329 [A] ; corsivi miei.

7 Essais, III, 1, p. 790-791 [B].

8 Essais, II, 11, p. 429 [B].

9 J. Starobinski, Montaigne en mouvement, Gallimard, Paris 1993, chap. iii « La relation à autruy », in particolare p. 259-262 e 207-208, chap. vii, 1 « De la sympathie à la critique » p. 459-472 e N. Panichi, I vincoli del disinganno. Per una interpretazione di Montaigne, Olschki, Firenze 2004, p. 188-191 e 190 n. 21 per i riferimenti alla Theory of moral sentiments di Adam Smith ; della stessa autrice si veda la raccolta di testi commentati Montaigne, la immaginazione, Olschki, Firenze 2000, « Introduzione : tra Mercurio e Saturno. L’immaginazione messaggera », p. viii-cxxv, oltre alla recente sintesi : Id., Montaigne, Carocci, Roma 2010.

10 Ph. Hallie, « The Ethics of Montaigne’s ‘De la cruauté’ », in O Un Amy ! Essays on Montaigne in Honour of Donald M. Frame, ed. by. R.C. La Charité, French Forum, Lexington Kentucky 1977, p. 156-171 ; che a Montaigne vada riconosciuto il merito di aver messo la crudeltà « al primo posto » tra i vizi è la tesi di J. Shklar, Ordinary Vices, Harvard UP, Cambridge Mass., 1984 ; trad. it. Vizi Comuni, Il Mulino, Bologna 20072, p. 13-56. David Quint ha sottolineato la portata etico politica della condanna della crudeltà negli Essais in relazione alle pratiche crudeli comunemente ammesse dalla classe nobiliare francese dell’epoca : D. Quint, Montaigne and the Quality of Mercy. Ethical and Political Themes in the Essays, Princeton UP, Princeton 1998, in particolare p. 49-57.

11 M. Gauna, Montaigne and The Ethics of Compassion, The Edwin Mellen Press, « Studies in the History of Philosophy », Lewiston N.Y. 2000.

12 Concordance des Essais de Montaigne, par R.E. Leake, Droz, Genève 1981, sub voce.

13 È preferibile presentare come affini queste forme piuttosto che come « pressoché identiche » come propone F. Brahami nella voce Cruauté, in Dictionnaire de Michel de Montaigne, sous la dir. de P. Desan, Champion, Paris 2004, p. 236-238 : « la compassion, sympathie ou pitié, termes que Montaigne emploie, semble-t-il en un sens à peu près identique ».

14 « Il De constantia deve più agli Essais di quanto gli Essais non debbano ad esso », secondo P. Villey, Les sources et l’évolution des « Essais » de Montaigne, rist. Burt Franklin, New York 1968, t. I, p. 162 ; anche M. Magnien, « Montaigne et Juste Lipse : une double méprise », in Juste Lipse (1547-1606), Actes du colloque de Strasbourg, réunis par C. Mouchel, Champion, Paris 1998, p. 423-452, ritiene che il De constantia non abbia stimolato la riflessione di Montaigne « mis à part l’éloge du voyage au dèbut de l’essai “De la vanité” (III, 9, p. 948 [B]), qui est peut-être une réponse aux propos qu’y tient Langius sur la vanité de ce type de divertissement » (p. 437). Vd. anche J. Eymard d’Angers, Recherches sur le stoïcisme aux xvie et xviisiècles, Olms, Hildesheim-New York, 1976, p. 35-43 su Montaigne.

15 P. Villey, Les sources et l’évolution des « Essais » de Montaigne, cit., p. 215 ; D. Quint, Montaigne and the Quality of Mercy. Ethical and Political Themes in the Essays, cit., p. 54-55 in particolare. Cf. anche P. Grimal, « Le dialogue entre Sénèque et Montaigne », in Studi in onore di Ettore Paratore, Patron, Bologna 1982, vol. III, p. 1391-1397. Seneca è importante anche come fonte stoica favorevole a Epicuro : Cf. P. Henry, « Sénèque, source des idées epicuriennes de Montaigne », BSAM, 6me sèrie, 1980, p. 57-60.

16 Essais, II, 12, p. 567 [B].

17 Ibidem, p. 567 [A].

18 Tusculanae Disputationes, IV, 43-46.

19 « Aristote dit que la colère sert par fois d’arme à la vertu et à la vaillance. Cela est vray-semblable ; toutefois ceux qui y contredisent répondent plaisamment que c’est un’arme de nouvel usage : car nous remuons les autres armes, cette cy nous remue ; nostre main ne la guide pas, c’est elle qui guide nostre main ; elle nous tient, nous ne la tenons pas » (Essais, II, 31, p. 720 [A]). Questa conclusione attraverso Seneca prepara il saggio successivo « Défence de Sénèque et de Plutarque » (II, 32).

20 Essais, II, 11, p. 429 [A e C].

21 Sull’importanza di questo dibattito ellenistico per il pensiero morale e politico moderno : M. Nussbaum, The Therapy of Desire, trad. it. Terapia del desiderio : teoria e pratica nell’etica ellenistica, Vita e Pensiero, Milano 1998, p. 16-18, in cui però non viene menzionato Montaigne.

22 Riprendendo le ricerche di P. Villey già Edilia Traverso in Montaigne e Aristotele, Le Monnier, Firenze 1974, p. 130-141 e Appendice, p. 157 indicava nella Retorica il testo aristotelico che, dopo l’Etica Nicomachea e la Politica, presentava il maggior numero di riferimenti negli Essais.

23 Sulla incidenza dell’Etica Nicomachea in tal senso si veda U. Langer, Vertu du discours, discours de la vertu : litérature et philosophie morale au xvie siècle en France, Droz, Genève, 1999, in particolare p. 173-177, e anche A. Hartle, « The Transformation of Virtue in Montaigne’s Essays », in L’esprit critique, XLVI, 2006, p. 5-14.

24 M. Gauna, op. cit., p. 59-72 in particolare.

25 Essais, I, 14, p. 55-56 [A] ; corsivo nostro.

26 J. Starobinski, op. cit., p. 469-470 : « La sympathie, forme expansive du sentir, inscrit l’exigence morale d’universalité au niveau élémentaire [..]. La connivence sensible de Montaigne [..] s’étend aux animaux (au cerf aux abois, au chien qui fête son maître, à la chatte qui “se joue” de lui, aux cannibales d’Amérique, aux paysans, et aux pauvres gens) » ; cfr. M. Baraz, L’Etre et la connaissance selon Montaigne, Corti, Toulouse 1968, cui Starobinski, op. cit., p. 27, n.1, fa riferimento. Ma questa forma espansiva della simpatia verso l’universalità non gode della reciprocità : che « l’université des choses souffre aucunement de nostre aneantissement, et qu’elle soit compassionnée à nostre estat » è un’illusione antropocentrica (II, 13, « De juger de la mort d’autruy », p. 605 [A]).

27 Essais, II, 11, p. 433 [A].

28 Ibidem, p. 435 [A]. Su questi doveri e su quelli di giustizia nei confronti degli uomini, nel quadro di un’etica della « obligation mutuelle », ha insistito : B. Sève, Montaigne. Des rêgles pour l’esprit, PUF, Paris 2007, p. 278-285, che si sofferma anche sulla non facile formula « qui en peuvent estre capables » ; l’importanza di un’etica della « obligation mutuelle » fondata sulla simpatia era già sottolineata da J. Starobinski, op. cit., p. 207-208 e 467. Sul significato di questa condanna della sofferenza animale vedi : T. Gontier, De l’homme à l’animal. Montaigne et Descartes ou les paradoxes de la philosophie moderne sur la nature des animaux, Vrin, Paris 1998, p. 140 in particolare.

29 Essais, II, 12, p. 471 [A] ; corsivo mio.

30 Essais, II, 11, p. 433 [A].

31 Ibidem, p. 432 [A].

32 Ibidem, p. 430 [A].

33 Essais, III, 9, p. 978 [B].

34 In modo analogo e in base al modello socratico prevalente nel terzo libro, il discorso di Socrate in « De la phisionomie » disdegna di muovere i suoi giudici « à commiseration » e « à pitié » (III, 12, p. 1053 [C]), peraltro respinte già anche dalla fierezza dei gladiatori (II, 23, p. 684 [A]).

35 Essais, III, 9, p. 979 [B] ; corsivi miei.

36 Essais, III, 13, p. 1091 [B]. Montaigne smaschera (III, 9, p. 979 [B]) il tipo « che si fa compatire » per il solo piacere di destare la compassione altrui per la propria sofferenza, individuato da Max Scheler, Wesen und Formen der Sympathie, trad. it. a cura di L. Boella, Franco Angeli, Milano 2010, p. 149.

37 Essais, II, 11, p. 432 [b e c].

38 Nella compassione popolare, misto di pietà e sadismo, opera « l’obscure complicité avec les bourreaux » di cui parla J. Starobinski, op. cit., p. 469 ; che lo stesso Montaigne non sia estraneo al « vertige sadique » è sostenuto da F. Garavini, Monstres et chimères. Montaigne, le texte et le fantasme, Champion, Paris 1993, «Le vertige sadique », p. 125-38.

39 Essais, II, 11, p. 432 [A].

40 Ibidem, p. 430 [A].

41 Journal de voyage in Italie, in Montaigne, Œuvres complètes, ed. A. Thibaudet et M. Rat, Gallimard, Paris 1962, p. 1210-1211.

42 F. Garavini, Monstres et chimères, cit., p. 136-138 in particolare. La denuncia insistente della crudeltà da parte di Montaigne farebbe emergere una componente sadica latente, ardua da ammettere per l’autore.

43 Sulla esecuzione di Catena : Cf. N. Panichi, Montaigne, cit., p. 104-106, nel racconto del Journal il rituale dell’esecuzione viene descritto in modo più circostanziato rispetto agli Essais.

44 Essais, I, 21, p. 97 [A].

45 Essais, III, 5, p. 875 [B].

46 Cfr. E. Garin, « Phantasia e Imaginatio tra Marsilio Ficino e Pietro Pomponazzi », in Phantasia/Imaginatio, Atti a cura di M. Fattori e M. Bianchi, Edizioni dell’Ateneo, Roma 1988, p. 3-20, p. 16 in particolare. Per una rassegna delle fonti degli esempi iniziali di I, 21, rinvio a N. Panichi : L’immaginazione, cit., p. 37-39 segg., in particolare la nota 5 di p. 39-40.

47 Essais, I, 2, p. 11 [B].

48 Ethica, III, prop. XXII, sch. Come ha mostrato O. Proietti : Cf. « Spinoza e il De clementia di Seneca », Rivista di storia della filosofia, 3, 2008, p. 415-435, si tratta di una parafrasi del De clementia (II, 5) in opposizione allo stoicismo cristiano di Lipsius e Scioppius.

49 Essais, I, 21, p. 98 [C].

50 Ibidem, p. 98 [A].

51 Essais, III, I, p. 791 [B] ; mio il corsivo.

52 Essais, II, 27, p. 693 [B].

53 Essais, I, 2, p. 11 [B].

54 Ibidem, p. 13 [A]. Per la citazione di Petrarca : Canzoniere, CLXX.

55 V. G. Defaux, « Montaigne et la rhétorique de l’indicible », Bibliothèque d’Humanisme et Renaissance, LV, 1993, p. 5-24, p. 12-17 in particolare. Sulla relazione tra tristezza estrema e indicibile cf. anche F. Garavini, Monstres et chimères, cit., p. 159-169 e F. Charpentier, « La passion de la tristesse », Montaigne studies, IX, 1997, p. 35-50.

56 Essais, I, 2, p. 12 [A].

57 Citiamo dalla trad. fr. di M. Dufour, Les Belles Lettres, [1938], 20024me, t. II, p. 83.

58 La vicenda del re egiziano Psammenichos è attribuita da Aristotele al padre Amasis (Retorica, 1386 a) ; si veda il commento di Christof Rapp in Aristoteles, Rhetorik, zweiten Halbband, Akademie Veralg, Berlin 2002, p. 655.

59 Essais, I, 2, p. 12 [C]. Nell’edizione di Marie de Gournay : « il reconut son fils. Cela augmenta la compassion aux assistans », Montaigne, Les Essais, éd. J. Balsamo, La Pléiade, Gallimard, Paris 2007, I, 2, p. 36.

60 Essais, II, 3, p. 356 [A]. In realtà nel racconto di Flavio Giuseppe non si tratta di suicidio : sono le mogli dei notabili ebrei e i figli da queste circoncisi, in dispregio al divieto di Antioco, ad essere uccisi.

61 Essais, III, 3, p. 358 [B].

62 Essais, III, 12, p. 1046 [C]. Che la patria non vada « muliebriter comploranda » era sostenuto anche da Lipsius, De constantia, cit., Liber primus, cap. XI, p. 18.

63 Essais, I, 14, p. 53-54 [C].

64 G. Nakam Le dernier Montaigne, Champion, Paris, 2002, ch. IV : « Le récit des persécutions des juifs au Portugal aprés leur expulsion d’Espagne en 1492 », p. 85-113, che riprende e approfondisce le pagine della stessa Nakam, Les Essais. Miroir et procès de leur temps, Nizet, Paris, 1984, ch. VI, par. II, p. 368 ss.

65 Essais, I, 14, p. 54 [C]. Rispetto alla sua fonte, Osorius, De rebus Emmanuelis regis Lusitaniae gestis libri duodecim (1574), Montaigne tralascia le giustificazioni politiche, economiche e apologetiche della repressione, mentre modifica l’ordine degli eventi mettendo al culmine della disperazione l’uccisione dei figli al posto del suicidio dei genitori. Cf. G. Nakam, Le dernier Montaigne, cit., p. 89-90.

66 Essais, I, 14, p. 53 [C].

67 Essais, II, 27, p. 693 [B].